Vladimir Putin, operazione successione
di Stefano Grazioli
[31 ago 06]

Esattamente sei anni fa, il 26 marzo 2000, Vladimir Putin veniva eletto presidente della Federazione Russa. Allora si sapeva molto poco di lui, subentrato improvvisamente la notte di Capodanno al dimissionario Boris Eltsin, il vecchio Corvo Bianco che lasciava la guida del paese con un po’ di anticipo, tra la grande sorpresa dei russi e dell’intera comunità internazionale. Oggi, a metà del secondo mandato, dopo la scontata conferma del marzo 2004, il quadro è senz’altro più chiaro, ma non meno incerto: Putin ha cambiato la rotta, l’approdo definitivo è ancora lontano. Per capire il presente e il futuro di Mosca non si può prescindere però dal passato. Evgeni Primakov, ex capo dello spionaggio, ex primo ministro e ora presidente della Camera del commercio e dell’industria, nota nel suo libro di memorie pubblicato recentemente anche in Italia (Dall’urss alla Russia, Valentina edizioni) come in Occidente «siano molti a domandarsi se il nuovo corso di Putin, così tanto diverso da quello del suo predecessore, porterà la Russia all’indietro, lontana dalle riforme democratiche e dal ruolo positivo svolto sull’arena internazionale». E la risposta che quella vecchia volpe di Evgeni Maximovic offre prontamente ai critici e agli scettici è che «tali preoccupazioni scaturiscono dalle difficoltà di capire fino in fondo quello che è successo nel nostro paese.

Lo sviluppo della Russia negli anni Novanta ha avuto risultati innegabili: è stato accumulato un tale potenziale per il cambiamento che è impossibile un ritorno al modello sovietico di governo, di economia, di Stato e di società, così come un ritorno alla politica estera sovietica». Insomma, per il Talleyrand sulla Moscova la lentezza e le contraddizioni del processo di transizione postsovietico, il corso e le dinamiche della politica di Putin devono essere letti e analizzati con un occhio, o meglio tutti e due, a ciò che è successo prima che Vladimir Vladimirovic arrivasse al potere. E con la consapevolezza che nessuno a Mosca vuole ritornare al comunismo. Per comprendere quindi la Russia odierna e tentare di anticipare le scelte di domani (l’Operazione successione) bisogna fare un passo indietro e ritornare così al periodo prima dell’ingresso al Cremlino di Putin. E chiedersi innanzitutto come fece un anonimo agente dei servizi segreti, che nel kgb non aveva ricoperto ruoli importanti, a diventare il successore designato alla presidenza, l’uomo scelto e voluto dai poteri forti per farsi carico della gestione di una nazione che dopo la dissoluzione dell’urss era stata retta da un presidente con qualche problema di alcool.

La Russia degli oligarchi

Con la fine dell’Unione Sovietica la Russia visse a partire dagli anni Novanta un periodo di straordinaria instabilità politica (due putsch, nel 1991 e nel 1993, la prima guerra cecena) e di estrema confusione economica: finito il comunismo il paese precipitò nel caos più totale del turbocapitalismo e delle privatizzazioni selvagge che non costituirono certo il passaggio al libero mercato come lo si intendeva in Occidente, ma significarono la scalata al vertice dell’economia e della finanza di un ristretto e oscuro manipolo di personaggi: gli oligarchi. Inoltre, quella che era fino a un paio di anni prima una superpotenza mondiale regredì allo stadio di terra di conquista per organizzazioni e bande mafiose di ogni genere e provenienza. Nel 1996, anno in cui Boris Eltsin fu eletto alla presidenza per la seconda volta, agivano sul territorio russo oltre 3000 gruppi criminali, che si dividevano diligentemente compiti e bottino.

Racconta Alexander Rahr, responsabile del Koerber-Zentrum per la Russia della dgap (Deutsche Gesellschaft fuer Auswaertige Politik), che la mafia russa «corrompeva, fondava proprie strutture commerciali e finanziarie, controllava la privatizzazione delle industrie, oliava politici e imprenditori, istituiva fondazioni a scopo sociale per riciclare denaro sporco e ovviamente aveva influsso su comparti fondamentali come quello dell’export di petrolio, gas e metalli preziosi». Dalla commistione tra questa criminalità organizzata e le vecchie strutture di potere scaturì appunto il sistema oligarchico che per quasi due lustri governò e gestì la transizione dal periodo gorbacioviano a quello putiniano. La Russia postsovietica, invece di dirigersi verso la vera libera economia, verso il pluralismo e la democrazia compiuta, sterzava sotto l’indifferenza del mondo libero, per il quale era sufficiente che un possibile ritorno al comunismo rimanesse escluso, verso un modello di Stato in cui le decisioni politiche ed economiche venivano in realtà adottate da un’élite criminale.

L’alleanza tra gli oligarchi che portò Eltsin alla vittoria del 1996 fu essenziale per suffragare un meccanismo che nei quattro anni successivi venne affinato sino all’estremo, con addirittura i grandi magnati che non si accontentarono di dirigere le mosse del presidente-fantoccio da lontano, ma si accomodarono su poltrone ministeriali e amministrative. Boris Berezovski, l’inventore della Famiglia eltsiniana (termine con cui si indicava la ristretta cerchia di persone influenti intorno al malandato capo dello Stato, parenti, amici e intimi di varia natura) finì addirittura per qualche tempo al Consiglio di sicurezza della Federazione. I clan finanziari, guidati dai vari Gusinski, Potanin, Khodorkovski, Friedman, Aven, Smolensk (che insieme con l’eminenza grigia Berezovski formavano “i magnifici sette”) gestivano quindi le risorse del paese e i media (mai stati davvero liberi in Russia, ma sempre asserviti al volere del barone di turno) e avevano il controllo pieno sul Cremlino.

Naturalmente il regime degli oligarchi era da preferire a qualsiasi governo neocomunista o nazionalista e certamente la Russia appariva rispetto al passato libera e orientata alla riforme. L’errore dell’Occidente fu però pensare che Berezovski e compagni potessero portare stabilità politica ed economica, sviluppo e pace sociale: il default del 1998 fu il segnale invece che si era toccato il fondo. È in questa prospettiva che si deve leggere l’arrivo di Vladimir Putin a Mosca, la sua entrata nella sala dei bottoni e soprattutto la sua reazione nei confronti del “sistema Eltsin”. Dmitri Trenin, autore di The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Globalization, osserva esattamente come la vittoria di Eltsin nel 1996 e il passaggio delle consegne a Putin nel 2000, «come un re al principe ereditario», dica molto di più sul regime e sui rapporti allora in vigore che qualsiasi altra cosa: prima il patto con gli oligarchi e poi la scelta di questi di puntare sull’ex agente del kgb per la successione non sono altro che la prima parte di una storia intricata che continua ancora oggi.

Siloviki e Pietroburgo connection


Putin venne accolto e allevato alla corte di Boris Nicolaevic nella speranza che riuscisse a perpetuare privilegi e vantaggi di una classe dirigente concentrata più su se stessa che non sulla crescita del paese, si trasformò invece in una serpe nel seno della Famiglia. E quando essa se ne accorse era ormai troppo tardi. La carriera di Vladimir a Mosca, dal 1996 fino al Capodanno 2000, non sarebbe stata possibile senza l’avallo e l’appoggio non solo del presidente, ma di tutto il suo entourage: il disegno iniziale non tenne conto però proprio dell’autonomia e dell’indipendenza del successore designato. In sostanza il piano degli oligarchi si tramutò in un fiasco. Putin fu scelto dalla Famiglia per la fedeltà e il lavoro svolto con la massima affidabilità prima all’Amministrazione presidenziale, a capo dell’fsb (ex kgb) e poi come primo ministro. Al Cremlino non diedero troppa importanza al fatto che mentre eseguiva gli ordini e dalla Lubjanka toglieva le castagne dal fuoco ai suoi datori di lavoro (ad esempio con lo scandalo Mabetex eluso abilmente mediante la mossa del presunto video porno del procuratore Skuratov), quello che sembrava solo un bravo impiegato senza ambizioni stava preparando la risposta alla decadenza oligarchica.

La presunta marionetta Putin si preoccupò, fin dall’arrivo e non appena la situazione glielo concesse, di piazzare nei punti nevralgici del sistema amici e alleati. Il senso di questa strategia lo si sarebbe appreso poco tempo dopo. L’ultima battaglia che gli oligarchi vinsero fu quella delle elezioni alla Duma nel 1999, quando Unità/Orso, il partito allestito in quattro e quattr’otto per dare forza al premier Putin, e l’inizio della seconda guerra in Cecenia costituirono gli strumenti con i quali si volle dare un’immagine di solidità e popolarità all’ancora consenziente Vladimir Vladimirovic. La legittimazione che la formazione guidata dal ministro Sergei Shoigu ottenne al parlamento battendo l’alleanza tra Primakov e il sindaco di Mosca Yuri Lushkov (maggioranza relativa ai comunisti, fuori però dai giochi di potere) consacrò il futuro presidente ancor prima delle parole definitive di Eltsin la notte del 31 dicembre e il voto di marzo. Poi per Berezovski & Company iniziarono i guai. Putin veniva dall’ala moderata del kgb, uscita vittoriosa dopo il golpe fallito del 1991, quando gli hardliners dell’allora capo dello spionaggio Vladimir Krjuckov ebbero la peggio nel tentativo finale di condizionare Gorbaciov e mettere un freno definitivo alla perestrojka.

Prima in servizio nella ddr, con la caduta del Muro Vladimir era passato successivamente a San Pietroburgo, come braccio destro del sindaco riformista Anatoli Sobchak. Sulla Neva, dove aveva studiato negli anni Settanta e Ottanta ed era stato arruolato nelle fila dei servizi, Putin conosceva tutti. E i suoi compagni più fidati costituirono la squadra che si trasferì a Mosca con il presidente. Il passaggio è fondamentale per comprendere il prosieguo della storia e proiettare lo sguardo sul futuro e sull’Operazione 2008. Fu così che nel giro di un paio d’anni furono cooptati al Cremlino, nell’amministrazione, nei servizi e anche nelle strutture economiche pubbliche numerosi personaggi legati strettamente al nuovo capo dello Stato. La risposta agli oligarchi e alla Famiglia eltsiniana divennero così uomini legati ai servizi e all’apparato militare (i siloviki) e quelli provenienti dagli ambienti della vecchia Leningrado con cui Vladimir aveva lavorato a stretto contatto ai tempi di Sobchak (i pietroburghesi), due categorie distinte, ma in alcuni casi sovrapponibili. Il comune denominatore per i vari Dmitri Medvedev, Dmitri Kosak, Igor Setchin, Sergei Ivanov, Viktor Cherckessov, Nikolai Patrushev, Alexei Miller, Viktor Ivanov, solo per citarne alcuni, era il fatto che Putin li considerava persone di cui fidarsi ciecamente, l’arma con cui far crollare l’architettura decadente della Famiglia e sostituirla con una più solida e affidabile, per il popolo russo e per la comunità internazionale.

Lo spoil system adottato talvolta brutalmente ebbe l’effetto di sostituire in poco tempo e in maniera non indolore il vecchio gruppo di potere: caddero le teste degli uomini legati alla Famiglia ancora al Cremlino (dal cassiere Pavel Borodin al premier Mikhail Kassianov), ma soprattutto vennero presi di mira i pochi oligarchi che non si assoggettarono alle nuove regole dettate dal presidente. Appena salito al vertice Putin mise le cose in chiaro: la politica era una cosa, l’economia un’altra. Chi volle impicciarsi nelle faccende del Cremlino rischiò una brutta fine, agli altri (la maggioranza, da Abramovic a Vekselberg, da Potanin a Deripaska) fu garantita libertà di azione con l’impegno di non intralciare la strategia di rinascita della Russia sullo scacchiere internazionale. Così il primo mandato di Putin fu impiegato a sbarazzarsi dei più reticenti: da Boris Berezovski a Vladimir Gusinski, in esilio volontario e dorato in Gran Bretagna e Israele, per finire a Mikhail Khodorkovski, sistemato invece in una prigione siberiana. In sostanza i casi Ntv o Yukos ebbero poco o nulla a che fare con la libertà di stampa o il libero mercato: furono il risultato “alla russa” del regolamento dei conti tra due gruppi concorrenti. Putin, per destabilizzare l’oligarchia, si servì dell’unico strumento a lui disponibile, i servizi.

Il passaggio alla “dittatura della legge” non fu esente da ombre, poca cosa però in confronto al buco nero del passato. In un recente intervento sulla stampa italiana (Corriere Magazine 02/02/06) Anders Aslund, direttore del Programma russo ed euroasiatico al Carnegie, accusa Putin di sbagliare nella guerra agli oligarchi sostenendo che «il capitalismo vero si sviluppa se ci sono dei signorotti come nell’America dell’800», ma è molto superficiale quando scrive eufemisticamente che i robber barons russi «quando potevano, usavano i legami politici per trarre benefici dallo Stato e insidiare i diritti di proprietà altrui». La realtà è che gli oligarchi governavano direttamente il paese, dove non vi era alcuna distinzione tra potere politico ed economico, e l’America del XIX secolo di Andrew Carnegie e John D. Rockefeller non era la Russia postcomunista di Berezovski o dei fratelli Chernoy. Aslund afferma una grande verità quando scrive che «il nemico principale del liberalismo russo non è più il socialismo», banalizza quando pensa che sia «il populismo male informato».

È errato giudicare l’ex Unione Sovietica con i canoni occidentali e se proprio lo si vuol fare, allora bisogna utilizzare lo stesso metro di valutazione per tutti e ricordando ogni passaggio. Primakov docet. Il paradosso di Khodorkovski non era comunque il fatto che l’ex Ceo e l’uomo più ricco di Russia fosse stato sbattuto in galera, ma che tutti gli altri magnati avrebbero dovuto fare la stessa fine. Cosa che ovviamente non è avvenuta, né avverrà, in attesa di un’amnistia ufficiale che regoli una volta per tutte la questione delle privatizzazioni. In ogni caso l’esito del confronto era chiaro fin dall’inizio e la linea del Cremlino esattamente riconoscibile: dopo aver sostituito il team di Eltsin con il proprio, dato l’esempio con il caso Yukos, non restava che ricostruire il paese e dargli una nuova collocazione a livello internazionale. La fase del secondo mandato di Putin, dal 2004 fino ad oggi, venne deputata a questo scopo. Con alterni successi. All’esterno la Russia ora si mostra vitale e per certi versi aggressiva, all’interno il cambiamento ha portato stabilità e riforme, anche se i problemi sono ancora molti.

Verso il 2008


A meno di due anni dall’appuntamento delle elezioni per la Duma, e soprattutto da quelle presidenziali, è già in pieno corso l’Operazione Successione. Con l’abbandono della Famiglia e l’abbattimento del sistema oligarchico, a Mosca la partita si gioca ugualmente su più fronti. L’immagine monolitica del Cremlino, tanto gradita alla maggioranza dei media che preferiscono raccontare storie facili e stereotipate, non è proprio corrispondente alla realtà. Putin, che nel 2008 – salvo improbabili colpi di scena (unione tra Russia e Bielorussia, nascita di un’altra entità post sovietica, entrata in vigore di una Costituzione modificata che permetta di inaugurare un nuovo mandato) – dovrà abbandonare le stanze presidenziali. E poi? Le possibilità sono molteplici. Se è vero quello che è stato descritto fino ad ora, che cioè gli oligarchi ostili sono stati messi davvero fuori gioco e si esclude quindi una variante in cui i robber barons rimasti possono dire una parola significativa nella scelta del prossimo presidente della Federazione, la soluzione del rebus va cercata nella squadra del presidente e nella sua disomogeneità.

Vladimir Vladimirovic ha dovuto bilanciare in questi anni tra il conservatorismo dei siloviki e il liberalismo dei riformisti pietroburghesi. Non due correnti antagoniste pronte a scannarsi (non si è più ai tempi di Gorbaciov-Krjuckov), piuttosto due anime devote al compromesso e alla spartizione del potere. Nel novembre del 2005 il governo del primo ministro tecnocrate Mikhail Fradkov si è arricchito di tre vicepremier, passo da interpretare come avvio ufficiale dell’Operazione successione: Dmitri Medvedev, già al vertice dell’Amministrazione presidenziale e capo del cda di Gazprom, vecchia conoscenza di Putin ai tempi di Sobchak e maggior esponente del filone dei giuristi pietroburghesi è stato nominato primo-vice. Insieme a lui sono stati promossi Sergei Sobjanin, tecnico ed ex governatore della regione di Tjumen, e Sergei Ivanov, punta di diamante dei chekisti, ministro della Difesa e collega di Vladimir Vladimirovic al kgb alla fine degli anni Settanta. Fatta eccezione forse per Sobjanin, gli altri due sembrano davvero offrire le credenziali migliori e aver fatto quindi un passo avanti in direzione dell’investitura per il 2008.

Per ora il presidente non ha lasciato intendere la sua preferenza e può anche darsi che fino all’ultimo non si immischi: se deciderà di abbandonare Mosca (niente opzione premierato e possibile ritorno a Pietroburgo, magari come governatore o addio alla politica e rifugio dorato nel board di qualche azienda statale) Putin lascerà che la successione venga regolata in maniera democratica. Alla russa, s’intende. Due candidati forti del Cremlino pronti già ora – e qualche outsider da lanciare magari all’ultimo momento (il sempre popolare Shoigu, l’astro nascente Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie e considerato un uomo di grandi capacità, il vice dell’amministrazione Igor Setchin o il suo collega Vladislav Surkov) – che si contenderanno la posta, mentre a guardare senza nessuna speranza come sempre starà l’opposizione estremista (dai comunisti ai nazionalisti di Rodina e del lpdr) e quella frammentata dei cosiddetti liberali (dalla destra da sps a Yabloko, da Kassianov a Kasparov). In questo momento appare illusorio uno dei tre scenari proposti lo scorso gennaio a Davos sul futuro della Russia e che vede nel 2008 l’inizio della “Rinascita” con la vittoria di un leader riformista.

Possibile, certo non probabile, è invece la “Via del petrolio” e la prospettiva che il vero Male che affligge la Russia, la corruzione, dilaghi a tal punto che tra vent’anni il paese rimasto ancorato solo alle risorse naturali e alla volontà di potenza collassi definitivamente tra gigantesche ruberie e sanguinose rivolte. Più realistico è infine il terzo scenario, quello della “Lunga marcia”, che vede una Russia traghettata verso la piena democrazia e un vero libero mercato dopo un periodo pseudodemocratico (o semiautoritario che dir si voglia) come quello attuale. È questo il senso dell’Operazione successione: trovare l’uomo capace, magari ancora sotto la stessa regia, di continuare l’opera di ricostruzione e riforme un po’ a singhiozzo avviate da Vladimir Vladimirovic. Questo cammino è possibile e auspicabile anche con il contributo dell’Occidente, che invece di pensare all’ex urss come faceva Churchill («A riddle wrapped in a mystery inside an enigma») dovrebbe sforzarsi nel capire cosa e perché succede a Mosca, anche nel proprio interesse, come suggerisce Evgeni Primakov: «La Russia è stata analizzata, ma non pienamente compresa. L’ignoranza porta direttamente alla distorsione».

31 agosto 2006


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