"La mia Mogadiscio piombata nel medioevo"
intervista a Martin Stiglio di Alan Patarga
[25 lug 06]
Il lungo curriculum di Martin Stiglio, attuale direttore dell’Istituto
italiano di Cultura di Toronto, comincia a Mogadiscio, dove il
professore milanese, allora neolaureato, fu chiamato prima ad insegnare
soltanto e poi a coordinare i corsi propedeutici all’ammissione
all’Università nazionale somala, uno dei più ambiziosi progetti di
cooperazione internazionale mai messi in piedi dal governo italiano. Una
referenza, quella di Stiglio, che già di per sé avrebbe potuto essere
sufficiente per chiedergli un parere su quel che sta accadendo, da
qualche mese a questa parte in quel martoriato paese del Corno d’Africa.
Basta però rivolgergli la prima domanda per capire che, oltre al
curriculum, Stiglio a Mogadiscio ci ha lasciato un pezzo di cuore, tra
«i ricordi di una gente straordinaria e di anni per me molto belli» e,
cosa di non secondaria importanza, «una moglie somala».
In queste settimane le Corti islamiche, in Occidente indicate da molti
come le “cellule” del fondamentalismo in Somalia e - pertanto -
potenzialmente vicine ad Al Qaeda, hanno di fatto preso il potere nel
paese. Battaglie a parte, come siamo arrivati a questo punto?
Premetto che sono molti anni che non torno a Mogadiscio, anche perché le
condizioni di sicurezza del paese, col passare degli anni, si sono
andate via via deteriorando. La Somalia la conobbi nel settembre del
1974, quando giunsi a Mogadiscio per partecipare al grande progetto
dell’Università nazionale somala, quando il potere era saldamente in
pugno a Siad Barre. Al di là delle sciocchezze sul “socialismo
scientifico” che tanto piacevano al dittatore, Barre aveva avuto il
merito di aver superato il sistema delle kabile, i clan nei quali si
divide la nazione somala. Un merito che però è andato di pari passo con
alcuni demeriti che sono alla base della situazione odierna: proprio
mentre arrivavo a Mogadiscio, infatti, Barre diede vita a una
commissione di saggi con il compito di elaborare per la prima volta una
lingua somala scritta, fino ad allora soltanto orale e la cui
letteratura popolare veniva tramandata dai cantori nei villaggi, come
nella Grecia arcaica di Omero.
Stiamo andando un po’ lontano, non le pare?
Niente affatto, la chiave di volta del caos attuale è proprio lì,
nell’affermarsi di una lingua somala scritta e nel quasi contemporaneo
divieto che il dittatore impose allo studio delle lingue straniere,
allora assai diffuse in Somalia. E non soltanto l’italiano e l’inglese,
ex lingue coloniali usate anche nei documenti pubblici: non esistendo
fino a pochi anni prima un’università nel paese, tanti giovani somali
partivano per l’estero per studiare e tornavano con un grande bagaglio
culturale. Si trattava, è chiaro, di giovani dei ceti abbienti, ma
questo permetteva a tutto il paese, anche solo di riflesso, di avere
idea di come fosse il mondo all’esterno dei confini somali. Il divieto
di studiare le lingue, a fronte di un somalo scritto completamente
sprovvisto di testi scritti, fecero invece il danno: all’improvviso il
paese perse la consapevolezza di far parte del mondo. Esistevano
soltanto la lingua locale e i pochi testi della propaganda di regime
pubblicati in somalo.
Insomma, il medioevo all’improvviso.
Esattamente, un danno incalcolabile a quello che era uno dei paesi più
avanzati culturalmente dell’intero Continente africano. Ma questo
fattore da solo non basta del tutto a spiegare cosa accadde.
E cos’altro?
Siad Barre, come quasi tutti i dittatori di questo mondo, aveva mire
espansionistiche, e nello specifico ne aveva sull’Ogadén, una regione
incuneata nel cuore della Somalia finita sotto il controllo del governo
di Addis Abeba. Un ottimo pretesto per rinfocolare la secolare rivalità
con gli etiopi e dare libero sfogo alla “volontà di potenza” del regime.
Ma anche una mossa che alienò le simpatie dell’Unione Sovietica nei
confronti della Somalia, della quale i russi - come anche dell’Etiopia -
erano stati fino ad allora alleati. Il venir meno del principale
riferimento geopolitico di Mogadiscio proprio mentre cominciavano le
ostilità portò Barre alla disfatta militare. E un dittatore che perde,
lo sappiamo anche noi italiani, ha vita breve.
I somali, insomma, che già cominciavano a perdere l’orizzonte culturale,
perdettero anche quello politico. Giusto?
Andò esattamente così. Il sistema basato sulla kabila, sulla tribù,
cominciò a tornare alla ribalta: ci volle una dozzina d’anni perché
emergesse compiutamente, ma alla fine lo fece con il golpe dei “signori
della guerra”. Il resto, dal 1990 al 1995, almeno, lo conosciamo un po’
tutti: l’emergenza umanitaria, l’arrivo delle truppe occidentali, tra
cui italiani e americani, il “mai più” di Clinton dopo l’operazione
fallita della Delta Force e la Somalia che resta, sola, inghiottita nel
suo caos.
Fino a quando non si viene a sapere che le truppe dell’Unione delle
Corti islamiche - e siamo a marzo - non stanno marciando verso
Mogadiscio...
Sì, ma cos’è successo nel frattempo? Quella che era un tempo la classe
dirigente del paese è fuggita all’estero: prima tentando la carta
dell’asilo in Italia, spesso non riuscita, e poi provando con più
successo proprio con il Canada. Quelli che scappavano erano i somali
della vecchia cultura, i soli - al contrario dei trentenni di oggi di
Mogadiscio - che si erano formati su testi colti e non soltanto sulle
sure del Corano mandate a memoria in un arabo che, per il resto, in
pochi conoscono. Perché chi è rimasto, con l’orizzonte culturale
azzerato e quello politico anche, non ha potuto far altro che finire
dritto dritto nelle braccia della religione e, come spesso accade in
questi casi, degli imam più radicali.
Ed eccoci alle Corti.
Sì. A un paese che viene abbandonato da tutti, dall’Onu, dagli
americani, dagli italiani che per motivi di sicurezza nel 1985 decisero
di sospendere i progetti della cooperazione senza mai più riprenderli,
non resta che la consolazione della fede. Intendiamoci: i maestri
islamici delle Corti sono uomini molto pii, ma come accadde con i
talebani in Afghanistan, esiste un serio rischio di strumentalizzazione
di tanta religiosità: l’orizzonte della Kabul di dieci anni fa e quello
della Mogadiscio di oggi non potrebbero essere più simili.
C’è un rischio talebano e, di conseguenza, anche terroristico, in
Somalia, pertanto?
A mio avviso sì, purtroppo. E questo ritorno al medioevo sul piano dei
diritti umani (basti pensare alle uccisioni nei cinema per chi guardava
la partita dell’Italia) rischia di apparire come l’unica via di uscita
dal caos della guerra civile. Forse è vero, ma il prezzo da pagare -
come già accaduto agli afgani, per l’appunto - rischia di essere enorme.
La comunità internazionale deve muoversi, e non lasciare scorrere altri
dieci anni. Quelli appena trascorsi sono la dimostrazione di quanto ci
costi quell’inerzia, oggi.
Riconoscerebbe Mogadiscio, oggi in mano alle milizie islamiste, se
potesse tornarci?
Temo proprio di no, e lo dico con tanta amarezza, perché amo tanto la
Somalia. Non soltanto Mogadiscio dove lavoravo, ma anche le regioni più
interne e remote, dove ho visto paesaggi incredibili e conosciuto gente
meravigliosa. I somali sono persone solari, accoglienti, simpatiche: a
me, milanese, ricordavano un po’ la gente del nostro Sud Italia, a volte
un po’ indolente ma con un cuore immenso. Ricordo i balli, i canti e le
immersioni in un mare meraviglioso. Ma ancora di più ricordo di quanto
fosse rimasta - strano ma vero, in positivo - la traccia del passaggio
degli italiani: forse a Mogadiscio ho bevuto il miglior espresso fuori
dall’Italia della mia vita, e credo che solo in Somalia - e nemmeno
nella capitale, ma addirittura tra i pastori dell’interno - si potesse
assistere a una vera e propria disputa, davvero accesa, su quale fosse
l’esatto punto di cottura degli spaghetti. In quella terra io mi sono
sentito a casa come soltanto nel mio paese mi è capitato. Vederlo oggi
sprofondare nel medioevo mi fa male al cuore.
25 luglio 2006
* Alan
Patarga è il titolare dei blog
Sciopenàuer
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