Quale politica estera per l'Italia
di Daniele Sfregola*
[14 apr 06]

A pochi giorni dal voto del 9 aprile, può dirsi con certezza che uno dei temi meno trattati in campagna elettorale è stato quello della politica estera. E’ comprensibile che, in un Paese come l’Italia in cui la politica estera è tradizionalmente condotta in funzione di quella interna, l’attenzione sul ruolo del Paese nel mondo, sulle sue alleanze e le sue scelte opzionali a livello internazionale non scaldi i cuori di molti. Tuttavia, ciò è ingiustificabile. La politica estera è la più importante delle politiche che un governo è chiamato ad intraprendere. Può concepirsi un governo che non si curi dell’innovazione tecnologica o del welfare del proprio Paese; è per definizione impossibile che questi non si curi dei rapporti con gli altri Stati. A maggior ragione in un mondo – quello cosiddetto “globalizzato” – in cui qualsiasi tema, anche quello afferente per tradizione al dominio riservato dello Stato, diventa ormai anche internazionale e, viceversa, in cui le molteplici correlazioni economico-commerciali e politico-militari fanno sì che l’eco di decisioni prese a Pechino o a New Delhi finisca, in modo diretto o indiretto, per propagarsi sino a Roma.

Mentre il programma di governo della Casa delle Libertà in materia di politica estera si limita a seguire il proverbio spagnolo secondo il quale “non ci sono strade perché i sentieri si formano camminando”, evitando quindi di legarsi le mani con impegni preventivi e fatto salva la definizione di paletti minimi, consistenti nel consolidamento dell’impegno “nei confronti dell’Europa (nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle normative comunitarie), l’alleanza con gli Stati Uniti d’America e la promozione nel mondo di istituzioni libere e democratiche” (pp. 9-10), il programma di governo dell’Unione dedica ben trenta, lunghe pagine al ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, dando vita ad una vera e propria apologia del multilateralismo, che ha finito per attirare le critiche di inconsistenza da parte dell’International Herald Tribune, e dell’europeismo. Nazioni Unite ed Unione Europea diventano l’inevitabile approdo della strategia del centrosinistra, la quale tende inspiegabilmente a prendere le distanze dal concetto di interesse nazionale, inteso come criterio-guida dell’azione diplomatica berlusconiana e svilito nientemeno che a definizione di “interesse ristretto” (p. 86). La “piccola rivoluzione” berlusconiana (la definizione è del consigliere di Romano Prodi, il professor Filippo Andreatta) è giocoforza considerata velleitaria, se non del tutto fallimentare, ed un ritorno alla “normalità” della Prima Repubblica, in cui le pressioni ideologiche avevano un’influenza oltremodo decisiva sugli equilibrismi italiani di politica estera, diventa l’obiettivo primario, nonostante l’epoca sia ben diversa e la Guerra Fredda sia stata messa in soffitta da tempo.

Multilateralismo aprioristico ed indifferenza per l’interesse nazionale come idea-guida di una buona politica estera sono, al contrario, i mali storici del Paese in campo internazionale. Partiamo dal multilateralismo, quando da metodo si fa principio. I motivi della frustrante ricerca di una legittimazione internazionale nei sistemi internazionali di diplomazia multilaterale vanno individuati in due fattori, entrambi strettamente legati alle caratteristiche socio-politiche del Paese. Innanzitutto, l'Italia è per tradizione, popolazione, posizione geografica e potenza economica una media potenza. E' una media potenza che può ritenersi, a ragione, ultima delle grandi o prima delle medie potenze mondiali. Il Paese, paradossalmente, sembra esaltarsi quando agisce da prima tra i medi e vergognarsi di sé stesso quando la sua classe dirigente tenta disperatamente di essere trattata da ultima tra i grandi. Contrariamente alle percezioni interne, però, i risultati politico-strategici di più ampio respiro e di più stretta conformità agli interessi nazionali sono stati conseguiti quando, silenziosamente e a passi svelti, l’Italia ha deciso di stare con i grandi. Legata a questa considerazione, vi è il secondo fattore. L'Italia ambisce ad "apparire" grande disdegnando i doveri che l' "essere" grande potenza comporta sul proscenio internazionale. La velleitaria esperienza della politica di potenza del periodo fascista e l'egemonia di una cultura di opposizione di massa, consolidatasi durante il periodo repubblicano - cultura terzomondista, pacifista ed immersa in un idealismo semplicistico e di comodo delle relazioni internazionali, nella quale, tradizionalmente, si rifiutano sdegnosamente due concetti-chiave per poter "essere" una grande potenza, quelli di patria e di nazione - ha obbligato la politica estera italiana a rifugiarsi nella versione più irrilevante del multilateralismo: quello di principio. Ecco, allora, la tendenza tutta italiana a non decidere quando arriva il momento di farlo, a rifugiarsi dietro soluzioni di compromesso e dietro lo schermo, "sacro" per la predetta cultura dominante all'interno del Paese, delle decisioni multilaterali.

L’ambasciatore Boris Biancheri ha osservato che "anche non fare scelte è una scelta: ma non aiuta a farsi spazio nel contesto internazionale", richiamando a titolo di esempio la prevedibile posizione filo-renana dell'Italia nella sua tradizionale azione in campo comunitario: scegliere la parte che è più attiva, perché intenta a perseguire i propri interessi nazionali, e appoggiarla a volte anche acriticamente per consolidare posizioni comuni. Ancora, in ambito Onu, appoggiare spesso e volentieri il Segretario Generale, aderendo ad una visione quasi messianica del ruolo istituzionale di quest'ultimo - ruolo che, quasi sempre, è per definizione compromissorio - mentre in seno al Consiglio di Sicurezza i veri grandi Paesi del globo si dividono aspramente e decidono su tutto, perseguendo apertamente e legittimamente l'interesse nazionale, senza timore alcuno di essere additati dalle rispettive opinioni pubbliche di cinismo.

In un ambito quale quello della diplomazia multilaterale - tanto invocata quanto mal compresa - in cui ogni Stato proclama amicizia e collaborazione per poi lavorare fondamentalmente per far prevalere i propri interessi e in cui ogni spazio che sia vuoto, anche se minimo, viene immediatamente occupato, la visione fideistica di una via mediana non rassicura i Paesi amici ed incentiva ad agire quelli rivali. In una parola, non incide.

Passiamo al disinteresse - se non anche al disprezzo ostentato, come è per l’ala radicale del centrosinistra - per l’interesse nazionale. Il motivo del disinteresse è culturale, prima che politico in senso stretto. L’opinione pubblica del Paese persiste nel suo “sonno” disinteressato ed ideologico, fingendo che la Guerra Fredda, in fondo, non sia mai terminata e che l’11 settembre 2001 sia una data semplicemente dolorosa, o magari, nella migliore delle ipotesi, di mero simbolo per la lotta globale al terrorismo islamista, niente di più.

Le pesanti responsabilità di questa “fuga dalla Storia”, che limita pesantemente le capacità di manovra italiane nel mondo, sono a più livelli: innanzitutto, responsabile è la classe politica, rifugiatasi in un semplicistico scontro tra filo-americani a priori e anti-americani di professione, quasi come se la politica estera di una nazione come la nostra si riduca ad una scelta di campo di stile calcistico; responsabile è la stampa di questo Paese, che amplifica a dismisura dichiarazioni pressoché inutili su questioni interne di un presidente del Consiglio in trasferta, piuttosto che spiegare per filo e per segno ai lettori e agli ascoltatori perché il nostro Presidente sia lì, in quel preciso momento, e cosa muove il governo a concludere affari su affari e a garantire sostegno diplomatico a Paesi apparentemente lontani come Turchia e Russia, chiedendone a gran voce l’ingresso, con Israele, nell’Unione Europea. In entrambi i casi, la matrice culturale insufficiente, diffusa dalle esigenze geopolitiche del secondo dopoguerra, tarda a lasciare il posto ad una “cultura dell’interesse nazionale”, che pure Paesi usciti dal cinquantennio post-bellico in modo ben più disastrato del nostro oramai possiedono.

Il fenomeno è stato ben spiegato dal generale Carlo Jean e dall’ambasciatore Sergio Romano. Entrambi, in modo assai lucido, hanno messo in evidenza da tempo il fatto che sussista una paradossale analogia tra il dopo-Guerra Fredda italiano e quello russo. Roma subisce un travaglio paragonabile a quello dei Paesi dell’est europeo. Con la differenza che l’interesse nazionale - spesso citato, quasi mai perseguito con capacità di analisi e di strategia - finisce per essere svilito a retaggio di un lontano passato, magari quello fascista, facendo largo a contese sostanzialmente inspiegabili, per chi adotta un approccio realista alle cose internazionali, tra “guelfi” e “ghibellini”: gli esempi recenti dell’invio di truppe italiane in Afghanistan e, soprattutto, in Iraq lo testimoniano; lo stesso dicasi per l’appoggio governativo, fermo e storico allo stesso tempo, a Israele e le polemiche sterili che ciò suscita in consistenti settori dell’opinione pubblica.

Il dato più allarmante di questa assenza assordante di confronto concreto sui temi della politica estera nazionale lo si rileva non già nel rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, che pure costituisce un caposaldo di continuità e di interesse irrinunciabile per l’Italia, ma soprattutto nel rapporto con l’Unione Europea, e con il ruolo che si intende assumere all’interno dei delicati equilibri diplomatici che in essa si stanno costruendo. Assuefatti agli utopici sogni azionisti e “ventoteniani” di un’Europa federale, di un continente che si fa Paese unico, gli italiani si sono cullati in una sorta di “misticismo europeo”, di transizione perenne che presto o tardi avrebbe condotto la nazione al lido ben più efficiente ed importante di Bruxelles. La realtà, ovviamente, è tutt’altra. Ma, anche qui, nessuno - tranne i soliti noti - si permette di “svegliare” l’opinione pubblica dal torpore, di spiegare realisticamente gli interessi geopolitici e geoeconomici enormi che sottostanno alle belle parole cerimoniali di un Chirac o di un Blair o di un Zapatero o di un Schroeder. Il risultato finale è l’impossibilità de facto del governo, a livello di politica interna, di imporre in agenda una sentita campagna politico-culturale che faccia da cassa di risonanza e da amplificatore alla propria azione diplomatica. Che è questa, nuda e cruda: in un’Europa che “unica” probabilmente non sarà mai, e che si appresta irrimediabilmente a divenire sempre più intergovernativa, i rapporti di forza tra i vari membri saranno decisivi, ancor più di quanto non lo siano stati ieri o oggi. L’Italia, da tempo, è ad un bivio: fare di tutto per entrare nel direttorio in fieri tra Berlino, Parigi e Londra, giocando la parte della più piccola delle potenze europee o, in nome dell’Europa unita e di altri idealismi del genere, lasciar fare ai tre Paesi più importanti e mettersi a capo, come potenza leader, del resto dei membri comunitari più piccoli, fungendo da contrappeso strategico. La scelta dell’attuale governo, di stampo realista e perciò assolutamente apprezzabile, è caduta sulla prima opzione.

Da questa esigenza, da questo interesse, innanzitutto, l’Italia si è unita al Regno Unito e alla Spagna di Aznar nella crisi irachena. L’obiettivo della diplomazia italiana, in quel momento storico caratterizzato da una frattura politica evidente tra i due versanti dell’Atlantico, consisteva nel mantenere il più stretto collegamento possibile fra Europa e America, anche al fine di scongiurare eventuali disimpegni militari statunitensi in territorio europeo. La sicurezza, dopo l’11 settembre 2001, è prioritaria. E nessun altro Paese al mondo garantisce al nostro Paese il rapporto più alto tra libertà d’azione e protezione militare come Washington. Inoltre, la presenza americana garantisce il coupling geostrategico e geoeconomico tra Mediterraneo e Europa centrale: è questo un interesse fondamentale ed irrinunciabile per il ruolo geopolitico italiano nel XXI secolo. Palazzo Chigi, negli ultimi cinque anni, ha avuto ben chiaro a mente tale scenario e ha agito di conseguenza. All’atlantismo subordinato all’europeismo, leit-motiv degli anni Novanta, l’11 settembre 2001 ha sostituito il rapporto gerarchico inverso: non più una “politica europea in salsa atlantica” di andreottiana memoria, bensì, in modo evidente ed assolutamente etico perché conforme ai nostri interessi nazionali, una “politica atlantica in salsa europea”.

L’Italia dovrà continuare nella stessa direzione, realisticamente, cercando di accumulare quanti più “crediti diplomatici” da poter poi spendere negozialmente con Parigi e Berlino, quando si deciderà del direttorio prossimo venturo. Ecco la scelta di stare a fianco di Washington, che pure tanto è costata in termini di consenso interno: avere “pezzi grossi” fuori che aiuteranno ad imporsi sui “pezzi grossi” dentro l’Unione, inducendoli ad ammetterci ai loro progetti cooperativi.

Il governo Berlusconi ha pagato un prezzo altissimo al proprio interno per garantire il successo del Paese. E, a tal fine, ha lavorato per conseguire rapporti eccellenti con tutti gli alleati strategici più importanti degli Stati Uniti nella regione: la Turchia, Israele, la Russia. Soprattutto con Mosca, l’Italia ha cercato di compensare il vantaggio geoeconomico e geopolitico di Francia e soprattutto Germania, derivante dall’ammissione nell’Unione Europea dei nuovi membri dell’Europa dell’est, che inevitabilmente sposterà il baricentro comunitario a nord.

Come spiegava Enrico Serra vent’anni fa, “l’Italia ha sviluppato l’arte di muoversi all’interno di un’alleanza, ma la protezione americana ha distolto dallo studio dei grandi problemi di politica estera, delle opzioni di fondo, della produzione dei rapporti di forza, in una parola, dei molti fattori che condizionano le scelte di una società industriale”. Jean ha rilevato che “non discutere di interessi nazionali e di grandi scelte di politica estera significa provocare quel disinteresse che è stato funzionale a comode posizioni di potere di cui peraltro ci si lamenta ritualmente”. La politica estera del governo uscente ha perseguito l’interesse nazionale in modo chiaro. Così facendo, l’Italia ha fatto i propri interessi e con essi quelli dell’Europa tutta, e non soltanto dei due Paesi più importanti. Tra tutte le considerazioni possibili, crediamo che questa dimostri compiutamente l’assoluta preminenza etica di una siffatta azione concreta rispetto ai fumosi ideali che sottendono alle buone intenzioni della pace e del multilateralismo fini a sé stessi.

14 aprile 2006

* Daniele Sfregola è il titolare del blog Semplicemente Liberale


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