Unificazione con la Cina: Taiwan non ci sta
di Daniele Sfregola*
[01 mar 06]

Con una dichiarazione breve e dai toni decisi, il presidente taiwanese Chen Shui-bian ha annunciato l'abrogazione dell'organismo consultivo nazionale preposto al processo di unificazione con la Cina continentale, annullando, inoltre, le storiche guidelines adottate dall'ex presidente Lee Teng-hui nel 1990 - storico primo passo verso la futura Cina unita - le quali definivano "un obiettivo nazionale" la costituzione futura di un'unica Cina.

La mossa ha provocato le critiche cinesi, la formale irritazione americana e il disappunto degli industriali taiwanesi. Sin dal 1949, anno in cui i nazionalisti di Chiang Kai-shek ripararono sull'isola a seguito della vittoria militare dei comunisti, la Cina sostiene che Taipei, indipendente de facto, appartenga alla "madrepatria". Questa è, nella concezione nazionale del governo di Pechino, una provincia ribelle che è sotto la sovranità della Repubblica Popolare Cinese. Nel 2005, il parlamento cinese adottò una risoluzione nella quale si riaffermava inequivocabilmente il diritto di sovranità di Pechino su Taiwan, minacciando, non proprio velatamente, ipotesi di guerra nel caso in cui il governo di Taipei decidesse di dichiarare formalmente la propria indipendenza. Si parlò al riguardo di "legge anti-secessione". Si tratta, al netto della retorica nazionalista, del più esplicito monito cinese all'indipendenza taiwanese.

Ciò, comunque, non avverrà nel breve-medio periodo. Taiwan è legata agli Stati Uniti da un trattato di alleanza militare. Allo stato attuale dei rapporti di forza cino-americani, la dirigenza cinese non può andare oltre le minacce e le rivendicazioni formali. Gli Stati Uniti controllano politicamente l'area dell'Asia-Pacifico e tutelano militarmente Taiwan da eventuali attacchi. Washington si è dichiarata irritata per la scelta di Chen Shui-bien. L'amministrazione Bush ha più volte pressato il presidente taiwanese sul mantenimento dello status quo, anche retorico, oltre che politico. I cosiddetti "cinque no" che lo stesso Chen Shui-bien si impegnò a garantire nel 2000, anno del suo trionfo elettorale, tra i quali campeggiavano le promesse di non abrogare l'organismo consultivo per l'unificazione e le guidelines del 1990, costituivano sino a ieri la prova formale della presa diplomatica della Casa Bianca su Taipei. Ma non tutto è come sembra.

In risposta alla mossa taiwanese, Pechino ha dichiarato che la decisione "provocherà certamente una seria crisi nello Stretto di Taiwan e il sabotaggio della pace e della stabilità nella regione Asia-Pacifico". Gli industriali dell'isola si sono lamentati a gran voce contro la scelta del loro presidente, asserendo che questa metterà in crisi il business taiwanese nella "madrepatria" che ammonta a circa 100 miliardi di dollari all'anno. In realtà, la partita è più complessa, anche su questo fronte. Chen Shiu-bien sta impegnando il governo in una politica di "punture di spillo" col gigante cinese, anche a livello economico-commerciale. La stretta dipendenza in via esclusiva con gli Stati Uniti non sono più il leit-motiv della strategia economica di Taiwan. Pressata dall'aggressività commerciale cinese, l'isola ha coraggiosamente intrapreso una dinamica attività strategica, nella quale si inserisce il recente avvicinamento con l'India, che molto ha irritato Pechino.

Schermaglie diplomatiche a tutto campo, quindi. La mossa odierna di Taipei porta con sè due dati politici importanti, legati fra loro da consequenzialità. Innanzitutto, gli Stati Uniti, al di là del richiamo rituale al mantenimento dello status quo, non puniranno l'alleato per eccesso di dinamismo. Anzi. Come rivela sibillinamente un funzionario governativo dell'isola, "il Dipartimento di Stato di Washington non ci ha criticato, né lo farà". Inoltre, come rileva Joseph Wu, uno dei massimi esperti di affari politici nello Stretto, "Taiwan corre il serio pericolo di essere attratta nell'orbita cinese e la Cina ha intrapreso con vigore la via all' "annessione strisciante". Provando ad adottare un approccio più duro, si sta cercando di respingere le tattiche intimidatorie di Pechino. Se Taiwan riuscirà in questo intento, la Cina scoprirà di aver scelto la via sbagliata, sino a quando il presidente Chen Shiu-bien sarà in carica".

Il Ministero degli Esteri cinese si è affrettato a definire "troublemaker" il capo di Stato taiwanese. Dopo oltre due anni in cui il pallino della diplomazia dello Stretto è risieduto in mani cinesi, può essere arrivata l'ora della controffensiva diplomatica di Taipei. O meglio: di Washington.

01 marzo 2006

* Daniele Sfregola è il titolare del blog Semplicemente Liberale


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