Il balletto diplomatico con Teheran
di Alessandro Marrone
[08 feb 06]

Tanto tuonò che piovve. Dopo tre giorni di riunione il 4 febbraio l’Aiea, l’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica, ha adottato una risoluzione che deferisce il dossier iraniano al Consiglio di Sicurezza, ma posticipa la sua discussione alla prossima riunione del 6 marzo della stessa Aiea. Nel frattempo si intima all’Iran di rinunciare ad ogni attività di arricchimento dell’uranio, di ratificare il protocollo addizionale del Trattato di non proliferazione nucleare e di garantire piena cooperazione con l’Aiea. Insomma è l’ennesimo “penultimatum”. Alla vigilia della riunione dell’Aiea i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza – più la Germania, parte con Francia ed Inghilterra della “troika” che segue il dossier per conto dell’Ue – avevano invitato l’Agenzia di Baradei a deferire immediatamente il dossier al Consiglio, ma poi la loro posizione si è stemperata in questa risoluzione di compromesso che ha così avuto 27 voti favorevoli dai 35 Stati membri del board Aiea. L’effetto del “penultimatum” non poteva essere peggiore: Teheran ha affermato che il deferimento all’Onu non ha base giuridica, e che l’Iran interromperà ogni collaborazione con l’Aiea e proseguirà gli esperimenti nucleari sul suo territorio. La crisi che incombe da anni su un Medio Oriente sempre più instabile e imprevedibile, tra la vittoria dei terroristi di Hamas, l’uscita dalla scena del condottiero Sharon, e i roghi delle ambasciate degli Stati europei colpevoli di garantire libertà di espressione ai propri cittadini, sembra aver passato un punto di non ritorno.

In realtà il braccio di ferro iraniano con la comunità internazionale riaffiora come un fiume carsico sulla scena mondiale, con punte di tensione (“cancelleremo Israele dalla cartina geografica”) alternate a offerte di dialogo, senza mai vere svolte. Per cercare di comprendere la realtà che si cela dietro le dichiarazioni diplomatiche, è allora utile guardare agli interessi permanenti e alle strategie geopolitiche delle maggiori potenze. Il progetto iraniano è un pericolo per gli Stati Uniti perché mina la stessa strategia americana per mantenere la leadership mondiale. Washington negli ultimi anni sta attuando una vera e propria Rivoluzione degli Affari Militari (Rma) che combina tre elementi: armi a lunga gettata con enorme potenza di fuoco ed estrema precisione, sistemi di ricognizione satellitare ed aerea, forze speciali estremamente agili e versatili. Il fine è avere una mappatura dei centri di potere dello Stato nemico e poterli colpire in contemporanea, dalle proprie basi e navi poste in luoghi sicuri, in modo da paralizzarlo con pochissime perdite di soldati americani per non alienare il consenso dell’opinione pubblica interna all’intervento. Fatto ciò, sarà più facile imporre le proprie condizioni o continuare l’escalation militare. Una prova di questa strategia si è avuta in Iraq, ma in quel caso parte dell’esercito iracheno ha preferito rifiutare la battaglia e nascondersi per continuare la guerriglia, e così la vittoria militare non ha portato ad una vittoria politica. Questa nuova cosiddetta “network centric warfare”, unita all’“airpower” e al “seapower” già raggiunti dagli Stati Uniti, dovrebbe funzionare da deterrente per qualsiasi Stato anche di medie dimensioni che sostenga il terrorismo o cerchi di dotarsi di armi di distruzione di massa, ed essere così uno strumento basilare della pax americana.

Ma se lo Stato nemico dispone di un efficiente sistema nucleare militare è in grado di scatenare una reazione atomica nel momento stesso in cui è attaccato, verso l’Occidente o verso suoi alleati geograficamente a lui vicini, e così l’attacco americano diventa troppo rischioso per essere praticabile. E’ proprio il caso dell’Iran che è quasi in grado di colpire con missili atomici Israele e parte dell’Europa, ed è perciò a un passo dall’immunità dal deterrente militare americano. Se questo è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti non vogliono un’arma atomica iraniana, l’altro è il legame con Israele e la preoccupazione per la spada nucleare di Damocle che penderebbe su Tel Aviv. Ma l’America non ha il consenso internazionale per forzare l’Onu a prendere decisioni drastiche, ad esempio un embargo al greggio iraniano che gli Usa già applicano, né ha la forza di minacciare un intervento militare visti i tempi e i costi che ancora richiede la stabilizzazione di Afghanistan e Iraq. Alcuni osservatori sostengono anche che agli Stati Uniti conviene in qualche misura la persistenza della minaccia iraniana, perché motiva e legittima la loro massiccia presenza militare (e quindi la loro influenza) nel Golfo a protezione degli alleati della penisola araba, in primo luogo i Sauditi. In questo scacchiere geopolitico la Russia è tornata a giocare un ruolo di primo piano. Negli ultimi anni Putin ha consolidato il controllo statale sulle risorse energetiche attraverso la Gazprom e sui media russi, ed ha ripreso ad esercitare pressioni nella sfera di influenza ex sovietica, da ultimo con la prova di forza sul gas ucraino. Mosca ha tutto l’interesse a limitare il più possibile il potere americano in Medio Oriente, a garantire i suoi commerci con l’Iran (compresi quelli di armi e tecnologia), e a riaffermare la necessità del suo coinvolgimento per risolvere le principali crisi internazionali. Nei mesi scorsi il Cremlino ha proposto a Teheran di ospitare sul territorio russo gli impianti atomici iraniani per un arricchimento controllato dell’uranio, con una serie di garanzie: l’Iran sembra in questi giorni aver rifiutato la proposta, ma essa ha raggiunto il suo vero scopo di proseguire per mesi le trattative e di tenere la Russia in posizione di mediatore, frenando la spinta di Washington e Londra per un deferimento del dossier al Consiglio di Sicurezza.

L’Unione Europea si è mostrata ancora una volta divisa. Aldilà della retorica unitaria della “troika”, la Gran Bretagna ha appoggiato da subito la soluzione del deferimento al Consiglio, mentre Francia e Germania tengono una posizione più morbida. Il motivo è la divergenza degli interessi strategici delle tre nazioni: per Francia e Germania conta l’affermarsi di un approccio multilaterale e negoziale che ridimensioni l’unilateralismo americano, mentre la Gran Bretagna condivide quasi del tutto l’impostazione di Washington. Dal canto suo il governo israeliano, per bocca del ministro della Difesa, ha affermato il 21 Gennaio che il suo paese non avrebbe accettato un Iran dotato di un’arma atomica, e Tel Aviv ha già dimostrato con il colpo ai reattori iracheni di Osirak nel 1981 di non scherzare sulla questione. Tuttavia, sebbene il premier Olmert abbia dimostrato coraggio nello sgombero di alcune colonie in Cisgiordania, in Israele si sente la mancanza di un condottiero come Sharon in grado di prendere una decisione strategica di tale portata, e le elezioni politiche bloccheranno l’azione israeliana almeno per i prossimi due mesi. La leadership iraniana invece ha due buoni motivi per continuare la prova di forza: sul versante esterno ritiene l’arma atomica strategicamente fondamentale per diventare la potenza regionale del Golfo Persico; sul versante interno, ancora più importante, la mobilitazione contro il nemico esterno, come sempre nella storia delle dittature, è un elemento di coesione, che mette a tacere quelle forze riformiste che solo pochi anni fa sembravano sul punto di dar vita a una nuova Primavera di Teheran.

L’Iran è incentivato in questo tiro alla fune da due fattori. In primis la sponda moscovita, e la sete di petrolio iraniano da parte di Cina, Giappone e India, che si sono cautamente mosse a favore della risoluzione di compromesso adottata dall’Aiea (la Cina ha addirittura affermato che “mai permetterà sanzioni all’Iran dal Consiglio di Sicurezza”). In secondo luogo, ma ancora più importante, la divisione dell’Occidente, che indugia anche perché si teme che l’isolamento dell’Iran possa, come già accaduto con l’Iraq di Saddam, non danneggiare la leadership che comunque troverebbe acquirenti per il suo petrolio, ma anzi alienare quelle timide simpatie occidentali che serpeggiano tra la società iraniana. D’altro canto però la conquista dell’arma atomica sarebbe una vittoria che rafforzerebbe molto il regime degli ayatollah allontanando la prospettiva di una democratizzazione del paese, e forse questo è un costo non sopportabile per la strategia anglo-americana nella regione. Alla leadership iraniana conviene prolungare lo stato di crisi per proseguire intanto con gli esperimenti, e per consolidare ancor di più il consenso nella società iraniana e in tutta quella parte del Medio Oriente che guarda con ostilità all’Occidente. A Russia e Cina conviene far durare le trattative per continuare i loro affari, per fregiarsi del ruolo di mediatori, e per logorare la leadership americana. Stati Uniti, Europa e Israele non sembrano avere le idee chiare su cosa conviene loro, e comunque non sembrano in grado al momento di trovare davvero una posizione comune. In questo quadro il fiume carsico della crisi iraniana continuerà ad affiorare sui nostri media al ritmo di un enigmatico balletto diplomatico, che somiglia in modo inquietante a quello ballato sulla tolda del Titanic.

08 febbraio 2006

alessandromar82@yahoo.it

 


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