L'Iraq fuori dalla tempesta?
di Marco Vicenzino*
[25 dic 05]
Tecnicamente, le elezioni parlamentari irachene segnano la piena
restaurazione della sovranità nazionale. Una più alta partecipazione al
voto potrebbe non essere direttamente attribuibile alla convinzione nel
processo democratico in sé: una prospettiva simile richiede tempo per
svilupparsi. La motivazione principale rimane l’interesse di parte,
ovvero, far sì che la propria comunità acquisti più influenza e potere
decisionale possibile, sapendo che queste elezioni sono l’ultima
opportunità per guadagnare tutto ciò da qui ai prossimi quattro anni.Tuttavia,
il desiderio di ricorrere alle urne(o perlomeno di provarci) per
risolvere le divergenze rimane fondamentalmente essenziale per
l’evoluzione graduale della cultura politica irachena.
Un altro fattore motivante è il timore dell’alternativa alle urne, cioè
la consapevolezza che se il processo elettorale e politico dovesse
fallire, l’alternativa potrebbe essere quella della guerra civile e
della frammentazione del paese. Nonostante l’esito finale di un simile
scenario sia imprevedibile, i disordini, le agitazioni e le conseguenze
disastrose sono per molti indubitabili.
Nel processo di formazione del nuovo governo, la violenza continuerà
sulla scia del tentativo di destabilizzare il paese di un’efficace e
sofisticata guerriglia, che colpisce il personale civile e militare, gli
iracheni che collaborano e partecipano al processo di ricostruzione
della propria nazione, e soprattutto, i civili iracheni innocenti, che
costituiscono la stragrande maggioranza delle vittime.
Il nuovo governo che scaturirà dalle elezioni dovrà perseguire lo scopo
essenziale di raggiungere la comunità sunnita e di incoraggiare la
riconciliazione interetnica e interreligiosa; migliorare le forze di
sicurezza irachene servendosi dell’ assistenza basilare degli Stati
Uniti e dell’addestramento aggiuntivo da parte dei paesi membri della
NATO e di altri; e risolvere i molti problemi specifici rimasti
irrisolti durante la stesura della nuova costituzione della scorsa
estate.
Il concetto di federalismo rimane essenziale per il futuro dell’Iraq.
Deve verificarsi una netta distinzione di poteri tra il governo centrale
di Baghdad e le autorità provinciali. Ciò dipende dal compromesso, e non
dall’approccio secondo il quale il vincitore prende tutto, grande sfida
per la cultura politica irachena.
Le negoziazioni tra i diversi gruppi etnici e religiosi continueranno a
essere critiche, in modo particolare per quel che riguarda i confini
territoriali e la devoluzione dei poteri. I curdi cercheranno di
estendere i confini della regione autonoma del Kurdistan per includere,
strategicamente, la città di Kirkuk, il centro iracheno con il 15% delle
riserve petrolifere nazionali, che i curdi reclamano come loro capitale
storica. Nonostante la nuova costituzione richieda un referendum finale
sullo status di Kirkuk prima della fine del 2007, il suo fragile
equilibrio etnico rimane una polveriera che potrebbe innescare la guerra
civile tra curdi e arabi e coinvolgere i vicini iracheni, specialmente
la Turchia, che ne desidera il petrolio, protegge la minoranza turca di
Kirkuk ed è sempre timorosa delle aspirazioni separatiste curde, che
potrebbero esercitare la loro influenza sulla consistente minoranza
curda che risiede in Turchia.
Dopo più di un decennio di indipendenza di fatto, i curdi si rifiutano
di fare ulteriori concessioni al governo centrale di Baghdad, nonostante
il presidente curdo a capo del nuovo governo. Malgrado questi ostacoli,
gli sciiti e i curdi hanno sviluppato buone relazioni.. Essendo state le
vittime che più hanno subito le repressioni saddamite, sono quelli che
beneficiano maggiormente dal nuovo Iraq federale. Molti sciiti
continueranno ad utilizzare l’esempio dell’autonomia curda per fare
pressioni nella richiesta di una regione federale al sud, a maggioranza
sciita, dove si concentra l’85% delle risorse irachene. Durante la
stesura della costituzione, la scorsa estate, il metodo da seguire per
la formazione delle regioni al sud e al centro è stato deliberatamente
rinviato al nuovo parlamento, nel tentativo di compiacere gli arabi
sunniti, la cui rigida opposizione scaturisce dal timore di vedersi
negati i proventi delle ricchezze petrolifere irachene. Comunque, è
improbabile che il rinvio impedisca la formazione di nuove regioni
federali, dal momento che il nuovo parlamento sarà ancora dominato da
una maggioranza sciita e curda.
Coinvolgere nel processo la comunità sunnita, che rappresenta circa il
20% della popolazione irachena, resta la più grande sfida del nuovo
governo. Se confrontata con le elezioni del gennaio e dell’ottobre 2005,
la partecipazione sunnita al voto probabilmente aumenterà, soprattutto
nella zona abitata dalla comunità, l’Iraq centrale. Comunque, potrebbe
essere insufficiente per dare un’accurata misura delle aspirazioni della
comunità, tranquillizzarla e darle un autentico senso di inclusione.
Questo ovviamente avrà il suo impatto sulla legittimità delle elezioni
per molti iracheni e in tutto il Medio Oriente, in modo particolare
negli stati a maggioranza sunnita.
Ovviamente, i sunniti temono di diventare in futuro una minoranza, e di
essere privati dei benefici della comunità dominante, in modo
particolare in termini di rango, privilegi e garanzie. Tra i sunniti
esiste anche una strenua opposizione alla presenza straniera sulla
propria terra, che scaturisce da una combinazione esplosiva di fervente
religiosità e di ardente nazionalismo. Inoltre, i sunniti che desiderano
partecipare alle elezioni potrebbero rifiutarsi per paura di
rappresaglie da parte della guerriglia.
Il nuovo governo deve continuare il processo di isolamento degli
elementi più estremisti, che rifiutano il nuovo Iraq, e coinvolgere la
maggioranza moderata con incentivi, garantendo pari status, diritti e
opportunità. Deve inoltre affidare ai funzionari sunniti delle posizioni
di rilievo, in modo particolare nei ministeri chiave della giustizia,
dell’interno e della difesa.
Senza la partecipazione dei sunniti, non ci sarà pace in Iraq. Lo
scenario alternativo è la guerra civile, la disintegrazione e la
libanizzazione del paese, con conseguenze disastrose per i cittadini
iracheni, i loro vicini, la stabilità della regione e la sicurezza
internazionale: come nell’Afghanistan degli anni ’90, l’Iraq diverrà
sempre di più un’enclave terroristica. A differenza dell’Afghanistan,
l’Iraq possiede la seconda più grande riserva petrolifera mondiale. Con
accesso diretto ai suoi profitti, gli estremisti potrebbero finanziare
delle operazioni letali in tutto il mondo.
La più grande sfida di ordine pratico del nuovo governo consiste
nell’espandere le forze di sicurezza e nel migliorarne le capacità
operative. L’efficienza è gradualmente migliorata e le diserzioni sono
sensibilmente diminuite. In ogni caso, la situazione ben lontana
dall’essere ideale,
e la presenza degli Stati Uniti sarà necessaria ancora per molto tempo.
Nonostante molti stati membri della NATO abbiano contribuito
all’addestramento delle forze irachene, è necessario un maggiore
coinvolgimento internazionale, in modo particolare dentro i confini
dell’Iraq. La guerriglia è divenuta sempre più sofisticata, in modo
particolare
nello sviluppo di congegni esplosivi come le autobombe, a cui si devono
la maggior parte delle vittime americane.
L’impegno statunitense è essenziale per il futuro dell’Iraq. Deve
fornire tutte le risorse necessarie per assicurarsi che l’Iraq emerga
dagli attuali disordini e agitazioni. I leader del nuovo governo devono
dimostrare unità, trasparenza e responsabilità, e guadagnare la
credibilità necessaria per convincere i cittadini iracheni che l’attuale
ciclo di violenza e instabilità può essere sensibilmente ridotto. Grandi
sfide sul fronte economico, come combattere la corruzione endemica e
ridurre i livelli esorbitanti della disoccupazione, rimangono elementi
chiave per la riuscita.
I vicini dell’Iraq preferiscono un governo centrale debole. Capace di
provvedere all’ordine interno basilare, ma docile e soggetto alla loro
influenza, in particolare nelle province irachene al confine, e in
definitiva dipendenti da loro per la stabilità. La Siria farà appena
quanto basta per dire che sta aiutando gli Stati Uniti e niente più.
Cerca di eludere le crescenti pressioni statunitensi, conseguenza delle
indagini delle Nazioni Unite sull’assassinio di Hariri, e desidera
evitare il destino della Libia dopo Lockerbie, culminato in anni di
devastanti sanzioni dell’ONU. La Siria sta inoltre cercando di
monitorare con attenzione i propri estremisti e i loro simpatizzanti,
che attraversano il confine con l’Iraq. Se vengono uccisi in Iraq,
questo significa che Assad avrà meno problemi. Se tornano, si farà
riferimento alle loro identità casomai in futuro tornassero utili.
Recenti disordini interni in Siria hanno fornito ulteriori conferme a
questa opinione. Inoltre, il massacro di migliaia di fondamentalisti
islamici ad Hama nel 1982, da parte del regime siriano,dovrebbe
ricordarcelo. I timori della Giordania sull’impatto, al suo interno,
delle attività degli estremisti in Iraq, come hanno dimostrato i recenti
attacchi ad Amman, sono accompagnati dalla speranza in una maggiore
stabilità che offrirebbe significativi dividendi economici, derivati da
un aumento dei commerci nel porto di Aqaba.
L’Iran spera in una maggiore influenza del clero sciita sul nuovo
governo iracheno, mentre la Turchia continua a vigilare sulle attività
del nord, abitato dai curdi. Le maggiori preoccupazioni dell’Arabia
Saudita riguardano le attività degli estremisti sunniti, che superano il
confine iracheno, e l’attenta osservazione dell’influenza sciita
irachena sulla minoranza sciita nell’Arabia dell’est, difficilmente
controllabile.
Quali saranno le conseguenze delle elezioni?
Il nuovo governo iracheno non sarà come il regime teocratico iraniano, e
neanche filoccidentale come vorrebbero gli Stati Uniti. Comunque, la
religione manterrà chiaramente un ruolo importante. Gli islamisti sciiti
moderati continueranno a dominare il governo con una significativa
influenza del clero sciita, ma con meno voti, e alleati di una presenza
curda unita e formidabile. In ogni caso, un’ opposizione dei
nazionalisti secolari potrebbe sorgere sotto la leadership di figure
come quelle dell’ex primo ministro Iyad Allawi, che potrebbe raccogliere
consensi tra gli sciiti laici e i sunniti al centro. Nonostante una
simile opposizione possa partecipare direttamente o indirettamente a un
una coalizione di governo di unità nazionale, essa cercherà di
distinguersi e di affermarsi come un’entità politica a sé stante.
Finora, gli sciiti moderati, e in modo particolare l’ayatollah Sistani,
si sono dimostrati affidabili nel tenere a freno gli elementi più
radicali, in modo particolare nel contesto degli attacchi diretti contro
gli sciiti, perpetrati col fine di causare una violenta rivolta,
potenziale miccia della guerra civile.
In base alle necessità, un governo principalmente controllato dagli
sciiti continuerà a tollerare la presenza statunitense, per impedire la
frammentazione e la disintegrazione nazionale. Tuttavia molti iracheni,
e molti al di fuori dell’Iraq, desiderano vedere una sensibile riduzione
delle truppe statunitensi e infine il loro ritiro quando col tempo, se
così sarà, riusciranno a restituire al paese un livello accettabile di
normalità e di stabilità.
25 dicembre 2005
* Marco Vicenzino è stato Deputy Executive
Director dell'International Institute for Strategic Studies statunitense
e docente di Diritto internazionale alla School of International Service
dell'American University di Washington. Come analista e commentatore di
affari internazionali, ha collaborato con Financial Times, Le Figaro, El
Mundo, El Pais, La Vanguardia, Al Hayat e Panorama.
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