"Mr. Gorbachev, tear down this wall!"
di Federico Punzi*
[09 nov 05]

Il 9 novembre 1989 quel muro venne giù portandosi ben presto dietro quel che rimaneva dell'Impero del Male. Ma non è stato un caso fortuito a deviare il corso della storia dei paesi dell'Europa orientale dalla tirannia rendendo finalmente possibile la riunificazione dell'Europa nella dignità e nella pace. E' stata l'aspirazione alla libertà di milioni di uomini e donne a non deflettere mai. E' stata la determinazione del presidente americano Ronald Reagan, che ha sconfitto politicamente e strategicamente l'Unione Sovietica. Fin da quando pronunciò queste storiche parole nel lontano giugno del 1987:

«General Secretary Gorbachev, if you seek peace, if you seek prosperity for the Soviet Union and Eastern Europe, if you seek liberalization: Come here to this gate! Mr. Gorbachev, open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall!»

Una vera e propria sconfitta di sistema e non una sincera apertura decisa dai vertici del regime. Oggi Gorbachev è l'uomo che chiunque vorrebbe avere al proprio convegno o al proprio talk show, ma aver vinto il premio Nobel per la pace non fa di lui qualcosa di diverso. Ho sempre ritenuto che il suo fosse un falso mito. Fu l'ultimo dei sovietici, non il primo dei democratici, o dei post-comunisti. Non fu, insieme a Reagan, l'artefice della pace e della fine della Guerra Fredda, ma fu lo sconfitto di quella guerra. Non si deve scambiare quella che fu una capitolazione obbligata con una scelta di pace.

Chi l'avrebbe mai detto, vent'anni fa, che sarebbe bastata una spallata? «Quanti negli Stati Uniti pensano che l'Unione Sovietica sia sull'orlo del collasso economico e sociale, pronta a precipitare alla prima lieve spinta, sono semplici sognatori, si ingannano». Questa frase di Arthur Schlesinger jr. riassume bene le analisi ufficiali dell'epoca e ci ricorda quanto in modo del tutto inatteso giunsero la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento del blocco sovietico. L'ipotesi della ineluttabilità, e dell'imminenza, del collasso era inimmaginabile e fino a tutti gli anni '70 e i primi anni '80 si pensava addirittura che l'Urss stesse prevalendo nel confronto strategico con gli Usa.

«Come ha fatto un dissidente sovietico - si chiede oggi Natan Sharansky nell’introduzione al suo "The Case for Democracy" - a vedere da solo quello che legioni di analisti e di policymaker in Occidente non vedevano?». Eppure «non era né meglio informato né più intelligente di chi non ha saputo prevedere il trapasso dell'Urss. È che diversamente da loro, capiva il potere grandioso della libertà». Sharansky si riferisce al dissidente Andrei Amalrik, che nel 1969 scrisse un libro intitolato "L'Unione Sovietica sopravviverà fino al 1984?" e le cui tesi («Uno Stato costretto a destinare tanta parte delle proprie energie al controllo fisico e psicologico di milioni di persone non può sopravvivere all'infinito») venivano liquidate in Occidente, ma prese sul serio a Mosca, sapendo che toccavano i nervi scoperti del regime: «La più piccola scintilla di libertà avrebbe appiccato l'incendio all'intero sistema totalitario».

«Paura e profondo desiderio di essere liberi non si escludono a vicenda. In questa situazione, la politica di accomodamento messa in atto da molti leader occidentali - indipendentemente dalle intenzioni - aveva l'effetto di rafforzare il regime sovietico». A comprendere «la debolezza di uno Stato che nega la libertà ai propri cittadini» furono il senatore Henry Jackson e il presidente Reagan. La logica era semplice; in cambio della legittimazione, dei vantaggi economici, della tecnologia di cui i sovietici avevano bisogno, Reagan chiedeva che il regime cambiasse atteggiamento verso il popolo. Una rivoluzione in politica estera: prima legata alla condotta internazionale di un regime antagonista, poi legata alla sua condotta interna. Pressati dall'interno e dall'esterno per il rispetto degli impegni presi, cedettero, e una «scintilla» bruciò l'impero di fronte all'Occidente «ammutolito».

Oggi la «lezione sovietica» rischia di essere completamente dimenticata proprio dall'Europa, avverte Sharansky: «Anziché riporre la propria fiducia nel potere della libertà per trasformare rapidamente gli stati totalitari, sono di nuovo impazienti di arrivare alla coesistenza pacifica e alla distensione con i regimi dittatoriali». La «fiducia nel potere della libertà» è un merito che al presidente Bush e a Blair va riconosciuto, ma gli «scettici della libertà» sono tornati e i loro argomenti suonano tremendamente familiari: «C'è una cosa che unisce tutte queste argomentazioni: la negazione che il potere della libertà trasformi il Medio Oriente. Io sono invece convinto che la libertà in qualsiasi luogo renderà il mondo più sicuro in ogni luogo. E sono convinto che le nazioni democratiche, guidate dagli Stati Uniti, abbiamo un ruolo cruciale da svolgere nell'estendere la libertà sul pianeta. Perseguendo politiche chiare e coerenti che legano le relazioni con i regimi non democratici al livello di libertà di cui godono i sudditi di quei regimi, il mondo libero può trasformare qualsiasi società sulla Terra, comprese quelle che dominano il paesaggio attuale del Medio Oriente. Così facendo, la tirannia può diventare, come la schiavitù, un male senza futuro».

09 novembre 2005

f.punzi@radioradicale.it

* Federico Punzi è il titolare del blog JimMomo


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