Asia-Pacifico: la leadership australiana
di Daniele Sfregola*
[25 ott 05]

Da mercoledì 26 ottobre, i capi di Stato e di governo di sedici Paesi del Pacifico, riuniti in Papua Nuova Guinea, apriranno l'annuale sessione del Pacific Islands Forum, il foro regionale dell'arcipelago oceanico guidato politicamente dall'Australia di John Howard e ritenuto da Washington, a ragione, la "cerniera" a sud-est dell'articolato "nuovo gioco" che si sta tenendo in quella più vasta area geografica che va dall'Oceano Indiano al Mar Cinese Meridionale, passando per la Russia, l'Asia centrale, la Cina e il sud-est delle "tigri". Un fronte, quello dell'estremo sud dello spazio appena definito, che funge da baluardo strategico dell'Occidente, la salda retrovia che, in termini sia geopolitici che geoeconomici, presenta meno problemi all'Amministrazione repubblicana, al momento.

Dopo il trionfo elettorale dello scorso anno e la coraggiosa riforma del mercato del lavoro di poche settimane fa, il Primo Ministro australiano, Howard, tiene molto a che questo meeting, che tratterà di argomenti economici e commerciali, concluda, consolidandolo, il lento ma efficacissimo lavorìo diplomatico che Canberra ha svolto in tutta la regione. L'Australia, infatti, ha assunto un ruolo guida carismatico e di garante della sicurezza e della stabilità, anche economica, del continente oceanico e dell’area Asia-Pacifico. Il governo ha inviato centinaia di addetti militari e del personale civile per gestire crisi di stabilità politica nei dintorni del Paese: nel 2003 nelle Isole Salomone, in seguito nella stessa Papua Nuova Guinea.

Il problema regionale più urgente è quello del lavoro nelle tante, piccole isole che costituiscono altrettanti Stati intorno al continente australiano. La leadership regionale di Howard si misurerà anche in questo: dopo aver lanciato l'economia del proprio Paese, i vicini ora chiedono altrettanta fermezza e coraggio nell'aprire le frontiere del lavoro anche ai lavoratori provenienti dalle isole limitrofe. Il governo della Papua Nuova Guinea, ad esempio, spinge affinché "l'Australia faciliti la mobilità lavorativa, permettendo alle economie delle isole di beneficiare del denaro inviato dai salariati emigrati e del know-how appreso da quelli che faranno ritorno a casa". Al liberale Howard, insomma, si chiede più mercato, nel mondo del lavoro, anche verso l'esterno.

Hugh White, capo del Centro di Studi Strategici e di Difesa alla Australian National University (ANU), crede che ciò avverrà. Howard, dopo aver rivitalizzato il mercato interno del lavoro, abbattendo le rigidità strutturali e sindacali che lo attanagliavano, farà concessioni importanti, incassando, in tal modo, un'integrazione ancora più decisa con i Paesi-satellite dell'Australia e, in ultimo, il rafforzamento della guida politica ed economica del suo Paese nella regione. Al riguardo, John Howard e il premier neozelandese Helen Clark hanno presentato un "Pacific Plan" che lega il lasciapassare australiano alle richieste dei Paesi "minori" sui temi economici all'adesione di quest'ultimi a quelli della sicurezza, cari a Canberra. Un "pacchetto unico", quindi, verso il quale gli altri membri del Forum (tra cui Isole Fiji, Samoa e Tonga), sono chiamati a pronunciarsi.

Il "condottiero australiano" salirà in cattedra, dunque, perché, come spiega il Financial Times, non ci siano "failed states" nel cortile di casa, già scosso profondamente dai rimescolamenti post-11 settembre 2001 e dal sanguinoso attentato di Bali del 2002, in cui persero la vita ben centottantaquattro cittadini australiani. La "guerra al terrorismo" di respiro globale voluta da Bush, d'altronde, ha avuto riflessi decisivi anche e soprattutto nei delicati equilibri locali. L'ambiguità con la quale molti Stati dell'area, per lungo tempo, si sono mossi nelle loro azioni diplomatiche è finalmente terminata. O di qua, o di là. Howard ha colto la palla al balzo per mettersi subito alla guida della parte che intende stare di qua, con Bush, con l'America e contro il terrorismo islamista, "senza se e senza ma". Ha scoperto ben presto, così facendo, che gli interessi aussie divergono da quelli della Malesia, per esempio. Questa teme esplicitamente eventuali attacchi preventivi australiani verso il suo territorio, per scopi antiterroristici. Secondo una semplicistica visione in voga a Kuala Lumpur, l'Australia di Howard è, nelle parole dell'ex Primo Ministro malese Mahathir Mohamad, null'altro che "lo sceriffo degli Stati Uniti d'America nel Pacifico". A Canberra, lo slogan non ha ovviamente trovato una calda accoglienza.

I già difficili rapporti con l'Indonesia dovuti alla posizione australiana apertamente favorevole alla secessione di Timor Est, inoltre, si sono ulteriormente indeboliti: i sospetti di una "regia" di Canberra sui dissidenti della provincia di Papua si sono rivelati più forti della generosa offerta di 5,6 milioni di dollari del governo Howard a Jakarta, all'indomani dei fatti di Bali, subordinati ad un utilizzo nel campo delle infrastrutture antiterroristiche (in primis, gli aeroporti e le dogane), oltre alla collaborazione delle autorità australiane nel campo dell'individuazione e del controllo dei flussi finanziari "sospetti". Il governo di Jakarta ha rifiutato la proposta.

Discorso differente, invece, per quanto riguarda i rapporti sino-australiani. Howard ha impostato la propria strategia di leadership del versante sud del sud-est asiatico sul fermo appoggio alla bushiana “guerra al terrorismo” ma anche sul rafforzamento della cooperazione economica con Pechino. Non è stata una scelta contraddittoria. La tumultuosa crescita del Dragone cinese trova nel vicinissimo sud-est il mercato di riferimento: Canberra non avrebbe avuto alcun interesse geoeconomico ad impostare la propria strategia di penetrazione economico-commerciale nell'area in funzione apertamente anti-cinese. Ecco spiegati, quindi, i "terzismi" del governo liberale australiano sul tema caldo della violazione cinese dei diritti umani, argomento rimarcato ripetutamente, al contrario, da Bush, così come quello di Taiwan, verso il quale l'Australia mostra formale indifferenza.

La conseguenza di questa accorta politica di espansione di influenza nella regione si è avuta con l'infittirsi dei legami economici e commerciali tra i due Paesi. Agli occhi dei dirigenti cinesi, gioca a favore dell'Australia, rispetto, ad esempio, all'altro polo filo-americano della regione, il Giappone di Koizumi, l'assenza di uno contenzioso storico lacerante. I due Paesi, per quanto accomunati dall'immensità dei rispettivi territori e nettamente incomparabili dal punto di vista demografico, sono comunque molto distanti geograficamente (pur appartenendo alla stessa macro-regione dell'Asia-Pacifico), e si incontrano sul piano del business: la Cina, col tempo, è divenuta una grande importatrice di uranio australiano, utilissimo per rafforzare energeticamente il proprio apparato produttivo.

In un'analisi del 28 settembre scorso, Atimes.com così scrive: "le più larghe riserve di uranio del mondo erano rimaste intonse nel lungo periodo della guerra fredda, nel silenzioso allarme della proliferazione nucleare". Una volta che quei preziosi depositi australiani, che rappresentanto circa il 40% delle riserve mondiali di uranio, verranno commercializzati, la Cina potrebbe accedere ad una fonte di inusitata grandezza ed importanza geopolitica. Nel frattempo, e forse per scongiurare la cosa, il Centre for Indipendent Studies di Sydney mette in guardia il premier aussie, partendo, però, da un'interpretazione della strategia economica australiana differente dalla nostra: "Howard ha rafforzato i legami strategici con gli Stati Uniti e quelli economici con la Cina, immaginando l'Australia come un ponte. Il governo australiano non dovrebbe cercare di bilanciare le relazioni tra Stati Uniti e Australia".

Difficilissimo che ciò possa accadere, al di là dei pur ragionevoli timori. Tra Stati Uniti e Australia il feeling non è mai stato così intenso. Il repubblicano Bush e il liberale Howard condividono la stessa visione dell'attuale scenario politico internazionale, gli stessi valori, una storia di "special relationship" coronata dall'invio di un contingente militare aussie in Iraq e dall'apertura di una “free trade area” di altissimo significato, dapprima politico, poi economico in senso stretto. L’Australia non fa da ponte, ma da contraltare alla Cina, con l’unico mezzo idoneo per una media potenza mondiale quale è: la cooperazione economica à la Bastiat.

25 ottobre 2005

* Daniele Sfregola è il titolare del blog
Semplicemente Liberale
 


I blog di Ideazione

The Right Nation
Walking Class
1972
Le guerre civili
I love America
Regime Change
Krillix
Mattinale
JimMomo



Network
italiano


















Network
internazionale