Katrina: è tutta colpa di Bush?
di Stefano Magni
[07 set 05]
Il New York Times, dopo la catastrofe di New Orleans intitola: “Abbiamo
bisogno di un leader”. E la grande stampa ha seguito l’esempio e si è
accodata al linciaggio di Bush. Ma cosa doveva fare il presidente
americano? Nessuno pretende che ora si metta a fermare le tempeste.
Tuttavia la critica si basa su due fronti: avrebbe dovuto difendere
maggiormente il territorio della Louisiana (costruendo argini più
robusti e preparando un miglior piano di evacuazione) e invece ha
destinato il grosso dei fondi federali alle forze armate; non ha saputo
gestire il dopo-uragano e soprattutto la crisi derivata dalla scarsità
di carburante.
Ma cosa si poteva fare di più e di diverso, con un uragano superiore al
livello 4? Con venti che spiravano a 145 miglia orarie, cioè 233 km/h?
Un uragano di forza analoga si era abbattuto sugli Stati Uniti nel 1900:
il Galveston, che aveva provocato 6000 vittime. Considerando che allora
aveva devastato un’area ben poco densamente popolata, la sua letalità fu
molto superiore a quella dell’attuale uragano Katrina. Un uragano,
sempre di livello 4, che aveva colpito il Bangladesh nel 1970, aveva
causato circa 1 milione di morti. Per quanto riguarda Katrina, i danni
che ha provocato sono gravissimi; le vittime (tuttora in fase di
conteggio) sono alcune migliaia, ma rispetto ai precedenti uragani di
forza analoga ha inflitto molti meno danni. Perché? La risposta può
essere solo una: il piano di evacuazione e le difese predisposte erano
abbastanza buone. Paesi meno tecnologizzati, come gli stessi Stati Uniti
all’inizio del secolo scorso o il Bangladesh, dimostrano che la
settimana scorsa, lungo la costa del Golfo, i morti si sarebbero potuti
contare a milioni e non a migliaia, se non fossero state predisposte
misure difensive valide. Basti pensare che da New Orleans era stata
evacuata l’80% della popolazione, in base a piani predisposti con anni
di anticipo.
L’evacuazione, per di più, è stata condotta in pochissimo tempo,
considerando anche l’incredibile velocità (che ha colto di sorpresa
tutti i meteorologi) con cui l’uragano si è avvicinato alla costa
meridionale degli Stati Uniti. E molti di coloro che sono rimasti in
città ed hanno perso la vita, avrebbero potuto salvarsi, ma hanno
preferito rischiare pur di non perdere le loro proprietà. Gli argini che
hanno ceduto non erano opere in terra risalenti al secolo scorso (i
primi furono eretti negli anni ’30), ma opere in cemento armato, spesse
diversi metri, costruite di recente, nell’ambito di un programma di
rinforzo che avrebbe sicuramente garantito la massima sicurezza in caso
di uragani forti fino al livello 3.
Praticamente nessuno aveva previsto l’evenienza di una tempesta di
simile potenza come Katrina e la costruzione di nuovi argini in grado di
reggere una forza d’urto del genere avrebbero richiesto,
approssimativamente, una trentina di anni. Molti politici, poi,
soprattutto in ambiente liberal e ambientalista, ritengono che la colpa
di Bush sia a monte: il non aver aderito al Protocollo di Kyoto. Costoro
sono convinti che l’uragano Katrina sia un prodotto dell’effetto serra e
del riscaldamento globale, dunque accusano Bush di aver volutamente
ignorato il fenomeno. Ma uragani ancor più forti di Katrina erano anche
più frequenti in passato, con o senza riscaldamento globale,
indipendentemente dal comportamento tenuto dagli umani sulla terra. Per
cui, anche in questo caso, Bush non avrebbe potuto fare un bel niente
per evitare la catastrofe.
Per quanto riguarda la crisi post-uragano, la vittima principale
nell’economia americana è il prezzo del carburante: la maggior parte
degli oleodotti della costa del Golfo è distrutta, così come è andato
perduto o danneggiato almeno il 12% della capacità di raffinazione del
petrolio. In alcune aree, la benzina già manca del tutto. La critica più
facile, in questa situazione, è mossa da chi vuole che venga imposto un
calmiere sul prezzo del carburante e si punta già il dito contro chi
specula e guadagna sulla crisi. Ma, come ricorda l’economista Jerry
Taylor del Cato Institute, non c’è altro meccanismo efficiente, al di
fuori dell’innalzamento del prezzo, per distribuire al meglio risorse
diventate improvvisamente scarse. Di benzina, ormai ce n’è poca, mentre
la domanda non è diminuita: se fosse imposto un calmiere sul prezzo,
come fece Nixon nel 1973 in seguito all’embargo petrolifero, la domanda
aumenterebbe ben oltre la disponibilità reale di carburante. E, come
avvenne allora, si vedrebbero solo delle lunghe e frustranti code di
auto di fronte alle pompe di benzina, in cui solo le prime possono fare
il pieno.
Ad essere facilmente messo sotto accusa, poi, è il federalismo. Stando
ai critici centralisti americani ed europei, se vi fosse una
pianificazione centrale degli aiuti, a quest’ora non si sarebbe
verificato il caos a cui si assiste in queste settimane a New Orleans.
Ma per quanto riguarda i bisogni immediati degli sfollati (cibo,
coperte, acqua e un tetto sotto cui dormire), questi possono essere
soddisfatti da organizzazioni piccole, vicine al bisogno, quali le
congregazioni religiose e le associazioni non profit locali. E le
piccole organizzazioni caritatevoli si infatti sono già mobilitate in
massa sul luogo del disastro, raccogliendo fondi e fornendo aiuto
immediato agli sfollati. Non solo sono più efficaci, ma possono anche
provvedere a fornire quel calore umano che un camion dell’esercito che
lancia aiuti a masse di bisognosi, di sicuro, non può offrire.
07 settembre 2005
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