Il ritiro da Gaza, una strategia di difesa
di Marta Brachini
[01 set 05]

Il ritiro israeliano da Gaza e lo smantellamento di alcuni insediamenti in Cisgiordania è stato completato con successo. E alle cronache seguono ora difficili interpretazioni e azzardate previsioni per il futuro. Ma a chi non vede alcun “trauma nazionale” nell’abbandono di quella striscia di territorio occupata dal 1967, non rimane che dare massima fiducia alle scelte del governo Sharon, guida del paese durante tre lunghi anni di terrore. Che venga pace o guerra dopo la ritirata, la svolta è avvenuta indubbiamente nel segno di una migliore opportunità di controllo militare del territorio israeliano. E’ inoltre una carta politica da giocare in sede internazionale, per una rapida ripresa dei negoziati secondo la road map, e parte dunque di quelle dolorose concessioni promesse dal premier israeliano. La decisione di ritiro unilaterale va di pari passo anche con la costruzione della barriera difensiva tra Israele e Cisgiordania e dunque verso la definizione di confini difendibili anche se molto probabilmente temporanei. In questo senso assume una estrema importanza l’annuncio del futuro passaggio del controllo dei confini di Gaza con l’Egitto alle truppe egiziane. Un accordo in via di definizione che illumina appunto sull’estrema convenienza militare per l’esercito israeliano il quale sarà sollevato dall’impegno di pattugliamento del corridoio di confine Gaza-Egitto - principale passaggio per il traffico d’armi - e dalla responsabilità della difesa degli insediamenti e della mobilità dei sui abitanti. Col vantaggio appunto di poter concentrare le forze all’interno del paese, anche mantenendo il controllo dello spazio aereo e marittimo della striscia di Gaza.

In mancanza di pace Israele si accontenta della sicurezza. Ma la percezione di sicurezza e la politica di difesa cambia al mutare del contesto geopolitico. E la storia degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi ne costituisce un esempio rappresentativo. Per Israele la presenza di insediamenti nella striscia di Gaza e in Cisgiordania è stata parte rilevante della politica di difesa negli anni che vanno dalla Guerra dei sei giorni - 1967 - ai primi anni Novanta, ovvero prima della spartizione di detti territori in aree di influenza israeliana o palestinese. Gran parte delle strutture di insediamento sono state utilizzate in passato come basi di appoggio militare a scopo difensivo - nacquero infatti come insediamenti agricolo-militari, i Nahal in ebraico - e considerati dei veri e propri cuscinetti di difesa. Sorsero perlopiù lungo le rive del Giordano, ai piedi del Golan e a Gaza, considerando che Giordania, Siria ed Egitto sarebbero rimasti Stati belligeranti ancora per lungo tempo. Oggi, dopo il totale fallimento del processo di pace, lo scoppio della seconda Intifada e la morte di Arafat, le condizioni e le prospettive di dialogo sono mutate drasticamente tanto che la stessa vecchia formula “territori in cambio di pace” - che per anni ha egemonizzato il dialogo di pace tra israeliani e palestinesi - si rivela impraticabile.

Secondo Tom Segev, uno dei maggiori storici e giornalisti israeliani, “la situazione geopolitica è cambiata, la possibilità di scambiare la pace coi territori è ormai minima, ma ognuno nel frattempo non può non riconoscere che il concetto terra in cambio di principi di pace è ancora corretto”. Il ritiro unilaterale da Gaza non ha nulla in comune col ritiro israeliano dal Sinai concordato con l’Egitto in cambio di pace nel 1979, oggi la scelta unilaterale vuole affermare una possibilità di pace ma e allo stesso tempo una capacità maggiore di difesa in caso di un'altra offensiva terroristica. Agli occhi dell’estremismo palestinese il ritiro è certamente una vittoria della seconda Intifada: dunque il primo passo per la riconquista della Cisgiordania, di Gerusalemme e un giorno di tutta Israele. Molti moderati, seguaci di Abu Mazen, ringraziano per lo sforzo israeliano, pur considerandolo atto dovuto, mentre guardano preoccupati alla prevedibile lotta di potere che si prefigura all’interno dell’attuale dirigenza di Al-Fatha e di Hamas. Non sono infondate dopotutto le lamentele dei critici del ritiro unilaterale quando affermano appunto che la mossa israeliana potrebbe costituire un pericoloso precedente e dunque un incentivo a continuare l’offensiva terroristica. Ma la maggioranza degli israeliani ha dato credito a Sharon, confidando nella compattezza del governo e auspicando un futuro migliore per il paese, costretto in una morsa di incertezza ancora per lungo tempo.

01 settembre 2005

m.brachini@libero.it


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