Nazionalizzazioni ai tempi di Putin
di Carlo Stagnaro
[03 lug 05]
Si è conclusa il 31 maggio la triste cavalcata giudiziaria di Mikhail
Khodorkovsky, iniziata il 25 ottobre 2003 con l’arresto per evasione e
frode fiscale. L’uomo condannato a 9 anni assieme al socio Platon
Lebedev, una pena un filo inferiore a quella richiesta dall’accusa, non
è solo l’ex padre-padrone del gigante petrolifero Yukos. Non è solo un
magnate arricchitosi grazie a una sapiente gestione dei suoi contatti
politici nella stagione delle privatizzazioni degli enti pubblici
sovietici. Non è solo l’ex leader della gioventù comunista innamoratosi
del capitalismo a suon di miliardi. E non è solo lo spregiudicato tycoon
che si ergeva in maniera sempre più vistosa contro il presidente Putin,
finanziando l’opposizione e attaccando l’ex capo del KGB con toni sempre
più roventi. Khodorkovsky è tutto questo e qualcosa di più: è il segno
vivente che il disco del controverso e difficile risveglio russo ha
cominciato a gracchiare. Che il presente, anziché tendere al futuro,
rifluisce verso il passato. Con l’arresto dell’uomo più ricco di Russia,
Yuganskneftegaz (il più succulento boccone di Yukos) è finito,
attraverso alcuni passaggi di mano, sotto il controllo dell’azienda
pubblica Rosneft.
Ciò ha calato il sipario sulla possibilità di un’effettiva apertura al
mercato di un settore strategico come quello petrolifero. E ha dissolto
la trattativa parallela che la compagnia stava conducendo con due major
americane, Exxon Mobil e Chevron, e che avrebbe irrorato il paese di
capitali stranieri, investimenti e credibilità economica. E’ difficile
credere, come vuole la versione ufficiale, che questo cataclisma sia la
mera conseguenza di una politica di rigore contabile. A dispetto di una
legge che limita a tre anni la verificabilità fiscale dei registri
contabili, le indagini su Yukos si spingono anche quattro o cinque anni
indietro. Del resto, tutti gli altri colossi russi hanno un rapporto
“flessibile” con l’erario, e non sembra essere intenzione né del potere
giudiziario, né dell’esecutivo calare la spada di Damocle sui membri
arricchiti dell’oligarchia russa. “La mia sentenza è stata scritta negli
uffici del Cremlino”, ha dichiarato Khodorkovsky, e con ogni probabilità
ha colto nel segno. Nessuno, infatti, dubitava che la scure giudiziaria
si sarebbe abbattuta su di lui.
Del resto, se l’obbiettivo principale della mossa degli uomini di Putin
era mettere il guinzaglio a una compagnia troppo indipendente, non
riveste un ruolo secondario l’esigenza di dare un esempio a tutti gli
aspiranti al trono di zar Vladimir. Il segnale è arrivato, ma a che
prezzo? La fuga di capitali, che si era interrotta durante il primo
mandato del presidente, ha fatto registrare nel 2004 una migrazione di
12 miliardi di dollari. Secondo il governo la diminuzione degli
investimenti ha rallentato la crescita (che si attesta al 5%, la metà
circa dei paesi confinanti). L’Ocse ha definito l’affaire Yukos e altre
mosse di Mosca un “considerevole danno all’ambiente economico”. Le
previsioni sullo sviluppo sono state più volte corrette al ribasso. Non
stupisce che le ripercussioni più pesanti si siano osservate proprio nel
settore petrolifero. Gli investimenti sono scesi dell’11% a dispetto
delle quotazioni internazionali del greggio. Per contro, il timore che
la stretta politica sul petrolio mettesse in crisi la produzione russa
ha contribuito al clima di paura che a sua volta ha spinto il barile al
rialzo. Come ha osservato Piero Sinatti sul Sole 24 Ore, la vicenda è un
chiaro messaggio di Putin agli oligarchi: essi devono stare attenti a
non invadere il campo della politica, attribuendosi “compiti che
spettano allo Stato come il controllo sui flussi del petrolio; il
monopolio degli oleodotti, dei terminali e delle decisioni sulla loro
destinazione; le fusioni con grandi multinazionali americane o con
società russe”.
Il processo Yukos è, per Sinatti, “il segno di un uso selettivo della
giustizia”. Lo aveva riconosciuto lucidamente, subito dopo l’arresto di
Khodorkovsky, il grillo parlante dell’amministrazione Putin,
l’economista Andrei Illarionov, che mesi fa aveva definito “un
esproprio” la “distruzione della più efficiente compagnia petrolifera
russa”. Il danno che questa vicenda porta in dote a Mosca va ben oltre
la vergognosa violazione dei diritti civili di un individuo che, pur
arricchitosi in circostanze poco chiare, è stato condannato prima di
essere processato. Se Putin vuole passare alla storia come l’uomo che ha
restituito la Russia al club delle nazioni civili deve avere il coraggio
di uccidere le proprie ambizioni – e smettere di ascoltare il giro di ex
uomini del Kgb di cui si è circondato. Se invece intende esercitare un
potere senza limiti in un paese sfinito e privo di prospettive può
continuare ad agire come ha fatto negli ultimi due anni. Sapendo, però,
che sarà ricordato solo come uno dei tanti opachi burocrati che hanno
pugnalato la loro patria.
03 luglio 2005 |