What women want: democracy
di Alan Patarga*
[25 apr 05]

Quelle dita sporche di inchiostro viola e quel sorriso hanno fatto il giro del mondo. E in poche settimane una donna irachena senza nome è diventata un simbolo: il simbolo di quella libertà che pochi giorni prima del voto di Baghdad il presidente americano George W. Bush aveva rivendicato come fine ultimo della sua presidenza, al momento del suo secondo giuramento. Se il Liberty Speech non è stato il solito discorso delle buone intenzioni, ma l’affresco di una rivoluzione alle porte, è perché quella rivoluzione democratica era già cominciata e sarebbe esplosa definitivamente di lì a qualche giorno.

Il 30 gennaio i cronisti di tutto il mondo hanno raccontato il coraggio di un popolo, quello iracheno, andato a votare nonostante la minaccia costante delle bombe, dei kamikaze, dei proclami antidemocratici di Abu Musab al Zarqawi, l’emiro di Al Qaeda in Iraq. Gli scatti dei fotografi ci hanno detto che quel popolo coraggioso era fatto soprattutto di lunghe code di donne nerovestite che sfidando la morte coglievano per la prima volta l’occasione di dire la loro sul destino del loro Paese. Erano femminili, quelle interminabili file ai seggi di Baghdad, di Kirkuk, di Hilla, di Tikrit, di Bassora. Nomi di città che nell’immaginario dell’occidentale medio si legano ormai solo al numero dei morti che le autobomba, un giorno sì e l’altro pure, mietono con regolare atrocità. Erano di donne, quelle code, perché le prime elezioni libere nella storia irachena sono state anche le prime a suffragio universale: nessun Paese di tradizione democratica ha avuto mai tutto e subito così.

Un caso? Passano due settimane e, restando in Medioriente, l’ex premier libanese Rafik Hariri viene ucciso in un attentato il lunedì di San Valentino. Dietro, si sussurra, ci sono – più o meno direttamente – i siriani. Lo sussurra anche l’Onu nel suo primo rapporto investigativo, anche se per ora non ha avuto il coraggio di dirlo ad alta voce. Il Paese reagisce: a Beirut scendono in piazza – piazza dei Martiri – centinaia di migliaia di persone. Nel giro di pochi giorni si arriva a superare il milione di manifestanti: il più grande corteo mai organizzato nella storia del Libano e, anche, di tutta l’area mediorientale. Ancora una volta le cronache fotografiche parlano di giovani donne, dai tratti e dall’abbigliamento più occidentali di quelle irachene, che affollano le strade di quella che un tempo era la Parigi del Medioriente. Sono ragazze in jeans e t-shirt, belle e solari, spesso salgono sulle spalle dei loro fidanzati per sventolare una bandiera biancorossa, oppure quei colori se li dipingono sulle gote, per gridare al mondo il diritto del Libano di essere libero, libero dal protettorato siriano e dal suo governo fantoccio guidato da Omar Karami. Il governo cade, alla fine, nonostante Hezbollah e i suoi seguaci tentino un’imponente quanto triste contromanifestazione: sono quasi solo uomini, sono arrabbiati, le donne sono poche e portano il velo islamico. L’accostamento con le ragazze e i ragazzi di piazza dei Martiri è stridente, è eloquente. La rivoluzione dei Cedri, che dovrebbe avere il suo compimento nelle elezioni che si terranno il prossimo mese e nel totale ritiro (strappato a parole) delle truppe di Assad dal Paese, ha avuto, nei suoi giorni più duri, un leader indiscusso: Bahia Hariri, sorella dell’ex premier assassinato. E’ stata lei, molto più dei capipartito dell’opposizione democratica, a non voler mai scendere a patti con Karami e con il presidente filosiriano Lahoud. E se la rivolta non avrà il suo lieto fine è perché troppo presto i gruppi dell’opposizione hanno accettato di accordarsi con la maggioranza che parlamentare che guarda a Damasco.

Altra regione del mondo, stesso copione. Ex Unione Sovietica: repubblica dell’Ucraina. E’ novembre e parte, spontanea, la Rivoluzione arancione, dal colore del partito del candidato presidente filoccidentale, Viktor Yushenko. Ci sono stati i brogli, e i filorussi di Yanukovich hanno preso il potere. La gente scende in piazza – piazza dell’Indipendenza – e chiede a gran voce nuove elezioni. Dal primo momento, sul palco con Yushenko c’è Yulia Timoshenko, ex vicepremier, pasionaria della rivolta. E’ lei, spesso, a scaldare i cuori della folla, a dare la volata al presidente beffato dai brogli, come tutti sentono essere Yushenko. E il popolo della Rivoluzione arancione è lo stesso che vedremo poche settimane più tardi a Beirut. E, allo stesso modo, i minatori ucraini del sud assomigliano tanto, troppo, ai nerboruti supporter di Hezbollah. Alla fine le elezioni ci saranno, Yushenko sarà eletto presidente a furor di popolo. Yulia Timoshenko, oggi, è a capo del governo.

Marzo. Nei Paesi dell’ex Urss l’effetto Ucraina, come quello Iraq in Medioriente, comincia a farsi sentire. E così in un Paese dimenticato da Dio e dagli uomini, il Kirghizistan, una nuova rivoluzione comincia. E’ la rivoluzione dei tulipani. A guidarla, contro un presidente corrotto che resta in sella grazie alla manipolazione dei dati elettorali, è un’altra pasionaria: si chiama Roza Otunbayeva, e in passato è stata ministro degli Esteri. Nel giro di pochi giorni la rivolta – che in questo caso assume contorni più violenti che altrove – porta alla destituzione del presidente-satrapo Akayev e la sua fuga, guarda caso, in Russia. Sarà l’inizio di un nuovo processo democratico nell’Est postsovietico.

Tutti casi? A sentire Emma Bonino, ex commissario europeo ai Diritti umani e candidata di punta al ruolo di Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, tutto questo non è un caso. L’esponente storica dei radicali italiani lo ha detto a chiare lettere, qualche settimana fa, all’American Enterprise Institute, uno dei principali think tank del pensiero neoconservatore. Un istituto di studi geopolitici che ha tra i suoi uomini di punta nomi come Paul Wolfowitz e Richard Perle. Nella tana degli ideologi dell’amministrazione Bush – quella che ha messo in opera la teoria del domino democratico e che manda una donna, Condoleezza Rice, in giro per il mondo a promuoverla – Emma Bonino ha sottolineato, in un intervento che a detta di molti osservatori potrebbe essere decisivo per la sua nomina all’Onu, che senza donne l’esportazione o, come preferisce chiamarla lei, la promozione della democrazia, resterebbe lettera morta. Liberty Speech e basta, insomma. “Se è vero che la democrazia in più Paesi possibile promuove sviluppo e pace – è uno dei passi del suo intervento – allora ciò sarà vero due volte se il diritto di essere coinvolte nella vita pubblica toccherà anche le donne, oltreché gli uomini”. E poi i dati: alle elezioni del 9 gennaio in Palestina, quelle che hanno consegnato l’Anp ai moderati di Abu Mazen e che hanno permesso la svolta di Sharm el-Sheik, sul 66 per cento di iscritti alle liste elettorali, la metà almeno erano donne. E ancora: in Kuwait e in Arabia Saudita le donne stanno lottando per il loro diritto di voto. Tanto che alle elezioni municipali saudite molte donne avrebbero espresso già l’intenzione non solo di voler votare, ma addirittura di candidarsi. Come avvenuto, qualche mese fa, in Afghanistan, dove uno degli sfidanti di Hamid Karzai alla presidenza del Paese era una donna. Chi ha anche solo visto Viaggio a Kandahar può capire cosa ciò voglia dire.

Kabul, Kiev, Ramallah, Baghdad, Beirut, Bishkek: è questo l’itinerario ideale del nuovo vento di libertà che soffia sul mondo. E’ questo che ha prodotto – non solo morte e Abu Ghraib – il risveglio dall’incubo delle Torri Gemelle. Bush lo sa, come sa che solo l’azione di due donne, una al Dipartimento di Stato e l’altra all’Onu, può consentire al mondo libero di parlare la stessa lingua di chi vive aspettando l’ora dal duplice riscatto, dalla tirannide e dal maschilismo. Solo così altre tessere potranno cadere. E altre dita sporcarsi di viola. Che è il colore della libertà.

25 aprile 2005

* Alan Patarga è il titolare del blog Sciopenàuer

 


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