Taiwan-Cina, la crisi infinita
di Rodolfo Bastianelli
[14 mar 05]

La decisione con cui l’Assemblea Popolare cinese autorizza l’uso della forza contro Taiwan qualora l’isola decidesse di proclamare la sua indipendenza apre una nuova potenziale crisi in un’area già segnata dalla tensioni per il programma nucleare nordcoreano.
Illustrato dal vice-Presidente della Commissione Permanente Wang Zhaoguo, il provvedimento consente al governo di Pechino di usare la forza nel caso le autorità di Taipei avviassero il Paese verso l’indipendenza, atto considerato dalla Cina Popolare come lesivo della sua integrità territoriale dato che l’isola è considerata nient’altro che una provincia cinese. Tuttavia, l’alto esponente politico ha voluto tranquillizzare la comunità internazionale sottolineando come questa decisione verrebbe presa solo nel caso non vi fossero più margini di trattativa ed altri mezzi politici per risolvere la questione.

I rapporti tra la Cina Popolare e Taiwan hanno in questi ultimi anni segnato degli alti e bassi, oscillando tra atti distensivi e momenti di tensione. Governata dal 1949 al 2000 dal partito nazionalista di Chiang Kai-shek l’isola – che ufficialmente si chiama Repubblica di Cina – ha uno status politico e giuridico indefinito, essendo esclusa da qualsiasi istituzione internazionale e potendo partecipare solo ai lavori delle organizzazioni non governative. Il governo taiwanese è riconosciuto oggi solo da 27 Paesi, tra i quali il più importante è costituito dal Vaticano, ma intrattiene rapporti “semi – ufficiali” con più di 100 Stati attraverso i suoi “Uffici di Rappresentanza” e recentemente è stata ammessa al WTO sotto la denominazione di “Territorio doganale separato di Taipei, delle isole Pescadores, Quemoy e Matsu”, un nome artificioso adottato proprio per superare la contrarietà di Pechino.

Dal momento dell’espulsione di Taiwan dalle Nazioni Unite nel 1971, Pechino ha perseguito nei confronti dell’isola una politica a doppio senso, da un lato cercando di incrementare l’isolamento di Taipei opponendosi a qualsiasi azione che avrebbe portato ad una visibilità internazionale del governo nazionalista, dall’altro offrendo ai taiwanesi una proposta di riunificazione basata sul principio “un Paese, due sistemi” che concedeva al Paese un’autonomia interna in campo politico, economico ed amministrativo, nonchè il controllo sulle proprie Forze Armate. Con l’avvio degli scambi commerciali, Pechino ha di fatto accettato lo “status quo” di Taiwan limitandosi ad impedire che proclamasse la sua indipendenza, potendo contare su questo anche sull’appoggio della comunità internazionale che ha sempre ribadito il principio dell’esistenza di “una sola Cina”. Dal canto suo il governo taiwanese ha invece rigettato le proposte di Pechino, affermando come il principio “un Paese, due sistemi” sia stato applicato solo a delle colonie come Hong Kong e Macao e non a degli Stati sovrani quali è Taiwan, forte anche del sostegno della stragrande maggioranza della popolazione che guarda con sfavore ad una riunificazione con Pechino.

La linea più autonomista assunta prima da Lee Teng-hui e poi da Chen Shui-bian, leader del Partito Democratico Progressista da sempre schierato a favore dell’indipendenza ed eletto alla presidenza nel 2000 dopo oltre mezzo secolo di governo nazionalista, hanno ulteriormente irritato Pechino che non ha mai nascosto la sua intenzione di ricorrere alla forza qualora Taipei proclamasse la sua indipendenza. Tuttavia, sotto la presidenza di Chen Shui-bian sono stati compiuti anche gesti di distensione quali l’avvio di collegamenti marittimi diretti tra le isole di Quemoy e Matsu e la costa cinese, una decisione presa su pressione degli ambienti economici dell’isola intenzionati ad aumentare la loro presenza nella Cina Popolare.

Alla cooperazione in campo economico non ha però fatto seguito un’analoga apertura sul piano politico, tanto che la rielezione di Chen Shui-bian lo scorso anno è stata salutata con disappunto da Pechino che invece puntava sul successo del nazionalista Lien Chen. La convocazione insieme alle elezioni di due referendum, falliti per mancanza di quorum, in cui si chiedeva di attuare un riarmo dell’isola di fronte alle minacce cinesi, e l’intenzione di Chen Shui-bian di emendare la costituzione eliminando ogni riferimento ai vincoli esistenti con la Cina, hanno messo in allarme Pechino su un’eventuale indipendenza dell’isola, tanto che nei mesi scorsi l’Assemblea Popolare aveva approvato una risoluzione che autorizzava automaticamente l’uso della forza in caso Taiwan proclamasse la sua secessione ed all’interno della Commissione Militare Centrale, massimo organo militare del Paese, sono stati nominati alcuni generali noti per le loro posizioni assai rigide nei riguardi della questione taiwanese.

La sconfitta degli indipendentisti alle legislative dello scorso 11 dicembre aveva però contribuito ad allentare la tensione e recentemente era sembrato che potesse avviarsi una nuova fase di dialogo grazie anche alla decisione presa dai due governi di consentire dopo 50 anni dei collegamenti aerei diretti tra Taiwan e la Cina Popolare. In questo quadro si inserisce la legge anti-secessione che dovrebbe essere votata la prossima settimana, una legge fortemente criticata non solo da Taiwan ma anche dagli Stati Uniti. Come ha affermato la Casa Bianca, il provvedimento rischia di rivelarsi controproducente e di inasprire le relazioni tra i due Paesi in un momento in cui sembravano potessero avviarsi verso una fase distensiva, mentre secondo Taipei la legge rappresenta una sorta di “assegno in bianco” dato alle Forze Armate cinesi per invadere l’isola. I termini del testo sono infatti alquanto sfumati, prevedendo una risposta armata non solo in caso di proclamazione ufficiale dell’indipendenza ma anche qualora venissero attuati degli emendamenti in tal senso alla costituzione e fosse indetto un referendum tra gli abitanti dell’isola. Alcuni osservatori sostengono però che il provvedimento sia stato presentato soprattutto per ragioni di politica interna. La Cina sta attraversando una fase di transizione in cui le riforme economiche stanno portando a forti tensioni sociali e la legge anti-secessione rappresenterebbe un segnale dato dalla dirigenza ai vertici militari da sempre critici verso la nuova politica economica. Vi è inoltre chi sottolinea come il provvedimento sia anche un segnale dato agli Stati Uniti ed al Giappone a limitare il loro ruolo nella regione in un momento in cui Tokyo si appresta a varare la nuova dottrina difensiva che definisce la Cina come un potenziale pericolo per la sicurezza nazionale.

Il rischio di un confronto militare rimane per il momento basso. Finchè Pechino sarà impegnata nelle riforme economiche, la priorità verrà data ai problemi interni e non alla politica estera. Tuttavia, qualora i costi sociali delle riforme dovessero diventare un problema per la stabilità del Paese, non è escluso che l’ala radicale del Partito Comunista alzi la voce spingendo per riaprire la questione taiwanese.

14 marzo 2005

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