Tutte le sfide del secondo mandato di Bush
di Marco Vicenzino*
[03 feb 05]
Il primo discorso sullo Stato dell’Unione del secondo mandato di Bush
rimarca la continuità e il consolidamento della rivoluzione bushiana in
politica estera, innescata dai tragici eventi dell’11 settembre del
2001. Questa rivoluzione non è reversibile e sta al presidente Bush
determinarne il passo e gli strascichi.
Sul fronte interno le sfide per Bush rimangono colossali. Il debito
pubblico è aumentato in maniera esponenziale. La sanità rimane cruciale
per molti americani, in particolare nei prossimi quattro anni, quando i
baby-boomers inizieranno ad andare in pensione. La prossima battaglia
della guerra culturale sarà quella della Corte Suprema. Con la maggior
parte dei giudici che hanno superato l’età della pensione e che si
trovano in condizioni di salute precarie, il processo per le nuove
nomine si avvierà immediatamente all’inizio del secondo mandato.
Inebriati dallo spirito della vittoria, in particolare per la rafforzata
maggioranza congressuale, i repubblicani perseguiranno il loro programma
con rinnovata determinazione. Ma anche se il presidente Bush inizia la
sua seconda amministrazione con un capitale politico maggiorato e una
maggioranza congressuale significativa, temi come l’immigrazione e la
riforma dell’assistenza sociale minacciano di fare a pezzi il Partito
repubblicano. I democratici, però, rimangono divisi, disillusi,
dilaniati da una crisi di identità, incerti se spostarsi verso la loro
base politica tradizionale radicata nei lavoratori, i sindacati e i
gruppi ambientalisti, o verso i New Democrats clintoniani, più centristi
e meno ostili al mercato. Se Howard Dean sarà nominato leader del
Partito democratico, significherà un chiaro spostamento a sinistra. Nel
frattempo il senatore Hilary Clinton rivendica astutamente il mantello
dei New Democrats, con un chiaro movimento verso il centro e il pensiero
rivolto alla candidatura per le presidenziali del 2008.
Sul fronte della politica estera è necessario sviluppare una nuova
relazione transatlantica, basata su interessi e non soltanto su valori
comuni. Anche se vi sono delle piccole discordanze sulla natura delle
nuove minacce alla pace e alla sicurezza mondiali, la sfida fondamentale
rimane cercare un approccio comune. L’area che più di tutte determinerà
questa nuova relazione transatlantica, rimane il Medio Oriente.
La prima, vera e più significativa prova di questa relazione sarà
l’Iran. Costituirà il precedente per i prossimi quattro anni e oltre e
le sue implicazioni faranno da modello per le relazioni transatlantiche
nella prossima generazione. In parole povere, il modo in cui ci si
comporterà con l’Iran, determinerà il futuro dell’alleanza
transatlantica. C’è bisogno di decisioni immediate ed è essenziale
formare un fronte transatlantico unito. L’Iran è in una posizione
negoziale molto forte. Maggiori divisioni vi sono all’interno
dell’alleanza transatlantica, maggiore sarà il vantaggio strategico
dell’Iran. Il tentativo iraniano di entrare a far parte del club
nucleare risale ai tempi dello Shah e ha alla base motivazioni di
deterrenza e prestigio. L’Iran vuole acquisire una forza deterrente
contro quella che percepisce come aggressione americana. L’ardente
nazionalismo, più che la fervente religiosità, alimenta il desiderio
iraniano di acquisire maggiore influenza nella regione e maggiore
legittimità e riconoscimento internazionali, in particolare dagli
americani. Queste rimangono le principali forze guida nella psiche
iraniana.
La campagna elettorale americana ha sottratto alla questione iraniana
l’attenzione che essa meritava. Il problema scoppierà in un futuro non
troppo distante. Si sta lentamente evolvendo in una crisi come quella
dei missili cubani. Per continuare le discussioni Ue-Iran, si potrà
ricorrere a “tattiche dilazionanti”, compresa la decisione iraniana di
sospendere l’arricchimento dell’uranio, ma la questione chiave rimane
quella relativa alla disponibilità dell’Iran a rinunciare per sempre a
queste ambizioni. Le sfide e i pericoli aumentano con il passare del
tempo.
Le trattative con la Corea del Nord si trascinerranno nell’ambito del
“negoziato a sei”. Il ruolo della Cina, principale fornitore di risorse
energetiche per la Corea del Nord, rimane cruciale. La realtà è che gli
Stati Uniti dovranno fare delle concessioni alla Corea, in cambio del
disarmo del suo arsenale nucleare. La durata di questo accordo dipenderà
dalla disponibilità della Corea ad accettare le ispezioni, che dovranno
essere verificabili, trasparenti, continue e coerenti. In Asia, Bush
continuerà a sfruttare l’assistenza fornita per la ricostruzione dopo il
disastro dello tsunami per stringere ulteriori rapporti con la regione e
più in generale con il mondo musulmano, soprattutto con l’Indonesia, il
paese musulmano più popoloso del mondo. Il pacifico ma rapido emergere
del colosso cinese rappresenterà inevitabilmente un concorrente a lungo
termine per gli Stati Uniti, ma non viene percepito come una minaccia
immediata. Per Bush è una questione che dovrà affrontare il suo
successore, a meno che non esploda inaspettatamente uno scontro su
Taiwan. Bush continuerà a sviluppare stretti legami con l’India, allo
scopo di far emergere una patnership strategica Usa-India che tenga a
freno la crescente influenza cinese nella regione e oltre.
I rapporti del presidente con la Russia di Putin sono destinati a
deteriorarsi con l’aumento delle tendenze autocratiche interne del
leader russo. Il ruolo di Putin nella crisi elettorale in Ucraina ha
lasciato interdetti molti in Occidente e il fatto che l’America abbia
inserito la Bielorussia fra gli stati canaglia, complicherà
ulteriormente la situazione.
Durante il secondo mandato di Bush si chiarirà se sarà il caso di
rinvigorire il processo di pace nel Medio Oriente o se si debba porre
fine alle aspirazioni palestinesi di avere uno stato nel contesto
dell’operazione “land for peace”. Il primo ministro israeliano, Ariel
Sharon, continuerà a perseguire inesorabilmente i suoi progetti per
disimpegnarsi da Gaza. Bush, però, deve rapidamente decidere se questo
sta avvenendo nel contesto della Road Map. La confisca dei territori e
l’espansione degli insediamenti deve cessare. Il presidente palestinese
Mahmoud Abbas, appena eletto con un chiaro mandato popolare, deve
offrire una leadership responsabile e trasparente, con un reale
controllo sulle forze di sicurezza, in modo da dissipare l’idea che
dalla parte palestinese non vi sia nessuno con cui negoziare.
L’estremismo islamico rimane una minaccia fondamentale alla pace e alla
sicurezza mondiale e sconfiggerlo resta un impegno a lungo termine. Può
essere respinto solo attraverso una maggiore cooperazione e
coordinamento internazionale dei servizi di intelligence, ulteriori
operazioni militari e, infine, colpendo le fonti del terrorismo che
ingrossano le fila degli estremisti. E’ una lotta che impegnerà almeno
un’intera generazione.
L’Iraq e l’Afghanistan rimangono investimenti a lungo termine. La
situazione in Iraq si deteriorerà prima di migliorare, nonostante le
speranze nate dalle recenti elezioni. Anche se molti stati hanno dato
importante assistenza in termini di riduzione dei debiti e addestramento
delle forze, l’Iraq rimarrà soprattutto un’impresa americana e in
definitiva il suo successo dipenderà dalla volontà degli iracheni di
partecipare al processo e, alla fine, di prenderne il controllo. Con una
forza di sicurezza appena nata, ci vorranno almeno cinque anni, prima
che si possa parlare di una vera stabilità in Iraq.
L’operazione in Afghanistan può giocare un ruolo importante nelle
relazioni transatlantiche. Gli europei devono assumersi maggiori
responsabilità; in particolare devono incrementare la presenza e le
spese militari. Le recenti elezioni lasciano sperare che i cittadini
afgani intendano partecipare alla ricostruzione del loro paese.
L’Occidente deve assumersi un impegno a lungo termine per contribuire a
questo sforzo. Le sfide sono enormi ma non insormontabili.
Dimostrare che l’America è in grado di portare a termine queste
missioni, con il suo debito pubblico in vertiginosa ascesa, le sue forze
armate eccessivamente sparse e la voglia del pubblico americano di avere
un ruolo più importante negli affari mondiali, rimane una delle più
grandi sfide della seconda amministrazione Bush. La necessità esige un
impegno attivo da parte degli alleati. Se non si riuscirà ad affrontare
queste sfide insieme e cautamente, ci saranno maggiori disordini e
sconvolgimenti a livello globale. Alla fine, tutti ne pagheremo le
conseguenze.
3 febbraio 2005
traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti
* Marco Vicenzino è stato Deputy Executive
Director dell'International Institute for Strategic Studies statunitense
e docente di Diritto internazionale alla School of International Service
dell'American University di Washington. Come analista e commentatore di
affari internazionali, ha collaborato con Financial Times, Le Figaro, El
Mundo, El Pais, La Vanguardia, Al Hayat e Panorama.
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