Repubblicani: chi sono, cosa vogliono
di Alessandro Gisotti
[02 dic 04]
Chi sono oggi i Repubblicani? Capire cos’è il Grand Old Party di fine
2004 e qual è la sua agenda politica si rivela la lente migliore per
leggere il successo di Bush e le sue conseguenze. Molti commentatori di
casa nostra che prefiguravano, e forse si auguravano, un successo del
campo democratico hanno offerto, infatti, un’immagine piuttosto
pittoresca del partito che oggi guida gli Stati Uniti. Un’analisi
ragionata del mondo repubblicano la troviamo sul numero autunnale della
rivista americana di cultura politica “The Public Interest”. Un saggio
articolato, dal titolo “A New GOP ?”, scritto a quattro mani da James W.
Ceaser e Daniel DiSalvol, due studiosi della University of Virginia.
Ideazione.com lo ha letto per voi.
La lunga marcia
La premessa è di carattere storico. Se oggi il partito Repubblicano -
oltre ad esprimere il capo dell’Esecutivo - dispone di una maggioranza
consolidata nei due rami del Congresso, meno di 25 anni fa i rapporti di
forza erano diametralmente rovesciati. “The Public Interest” ricorda
come, alla vigilia del 1980, il GOP non solo era, ma soprattutto si
comportava come una componente minoritaria. Tuttavia, la percezione da
parte dell’elettorato di una leadership fallimentare del democratico
Jimmy Carter, in patria come all’estero, ha aperto una “stagione di
revival repubblicano”. Un riposizionamento degli elettori americani,
innescato da Ronald Reagan, massimo artefice del riscatto conservatore
dopo gli anni difficili del post Watergate. Da allora, spiegano Ceaser e
DiSalvol, i Repubblicani hanno fatto molto di più dei Democratici per
definire l’agenda della politica statunitense. Due dei maggiori
risultati della presidenza Clinton – l’accordo commerciale NAFTA e la
riforma del welfare – sono in realtà il frutto di idee repubblicane.
Secondo molti detrattori del partito Repubblicano, constata “The Public
Interest”, il GOP è oggi una “coalition of the willing” composta da
razzisti bianchi del Sud e delle regioni rurali, fanatici religiosi,
ricchi multimilionari e un pugno di intellettuali ebrei neoconservatori.
Proprio da questa cruda caratterizzazione muove il ragionamento dei due
politologi della University of Virginia che, pezzo dopo pezzo, smontano
gli stereotipi più in voga sul Grand Old Party.
Quando il Sud era Democratico
E’ vero. Oggi i Repubblicani godono di un largo consenso nel Sud
dell’Unione. Ma il Sud non è mai stato così favorevole alla segregazione
razziale come negli anni in cui, in quell’area, era il partito
Democratico a disporre del consenso maggioritario. La realtà è che oggi
il GOP è diventato il principale partito sudista, “proprio nel periodo
in cui si registra la fase meno razzista” nella storia di questa regione
degli Stati Uniti. D’altro canto, nessuno dei leader repubblicani del
Sud – dall’ex governatore del Texas, George W. Bush, a suo fratello Jeb,
governatore della Florida, al senatore del Tennessee, Bill Frist – può
essere accostato alle idee del vecchio partito Democratico.
America Rossa contro America Blu
I Repubblicani sono sovente descritti come il partito delle campagne e
delle piccole città. Viene subito in mente la cartina degli Stati Uniti:
un mare rosso (colore che indica gli Stati repubblicani) tra due strisce
blu, le Coste con le sue metropoli, bastioni democratici. Per David
Brooks si tratta di “due Americhe” differenti persino a livello
antropologico: “Nell’America Rossa le chiese sono ovunque. In quella blu
sono ovunque i ristoranti tailandesi”. Un esame più ravvicinato, però,
mostra che molte “aree rosse” fanno parte del Bush country per pochi
voti, mentre in alcune roccaforti dell’America blu – vedi New York e
California – sono stati eletti dei governatori repubblicani. Siamo ben
lontani, quindi, da una versione domestica dello “scontro di civiltà” à
la Huntington. Ogni elezione “divide” il Paese in due. Ciò, però, “non è
indice di ostilità tra le due parti”. Insomma, l’America è una,
nonostante l’immagine di irrimediabile spaccatura fatta passare da
questa parte dell’Atlantico.
One nation under God
“F” come Faith. Veniamo, così, al tanto discusso fattore religioso della
vittoria di Bush. Certo, afferma “The Public Interest”, c’è una
connessione tra il partito Repubblicano e i church-goers, quelli che
vanno in chiesa, soprattutto nell’ambito del protestantesimo evangelico.
Ma non è sempre stato così. Nel 1976, era stato il Democratico Jimmy
Carter ad assicurarsi il voto evangelico, poi approdato, con Reagan, su
lidi repubblicani. Peraltro, in un primo tempo, la destra religiosa ha
formato proprie organizzazioni distinte come la “Moral Majority” e la
“Christian Coalition”, presentando addirittura un proprio candidato alla
Casa Bianca (Pat Robertson nel 1988). D’altro canto, “il legame tra
religiosità e partito Repubblicano è rafforzato” dalla presenza di
“segmenti attivi del secolarismo” tra gli “accesi sostenitori del
partito Democratico”.
Avidi, ricchi e neoconservatori
Una delle accuse rivolte al GOP è di essere il partito che rappresenta
gli interessi degli “avidi ricchi”. Facile dimostrare che molti,
moltissimi americani facoltosi votano partito Democratico. Inoltre, the
“issue of wealth”, il dato della ricchezza crea non pochi turbamenti
agli analisti elettorali. Il fattore chiave che meglio esprime la
ricchezza è l’educazione. Ebbene, nessuna categoria del popolo americano
è più liberal dei professori dei college d’elite. Infine, l’elemento
neoconservatore. Gli avversari dei Repubblicani ritengono che i
“neocon”, un gruppo di intellettuali, abbiano “sequestrato la politica
estera dell’Amministrazione Bush. Se si dovesse dar credito a questa
teoria, “bisognerebbe essere pronti a credere che una politica estera
criticata per un eccesso di idealismo democratico” sia la conseguenza di
un “colpo di stato antidemocratico”.
Verso il centro
Guardando all’America di una generazione fa, assicurano i due studiosi,
Repubblicani e Democratici mostrano adesso al proprio interno una
maggiore omogeneità ideologica. Ci sono sicuramente meno Repubblicani
liberali e meno Democratici conservatori. Il senatore Jim Jeffords, che
dal GOP è passato tra le fila degli Indipendenti, e il senatore Zell
Miller, che dai Democratici è trasmigrato nel partito dell’Elefante,
sono gli unici casi recenti di un trend giunto quasi a conclusione.
Assieme a questo dato, se ne registra un altro molto significativo: per
vincere le elezioni i politici devono puntare al centro. Questa,
d'altronde, è l’esperienza dell’ultimo decennio. I “New Democrats”, che
hanno portato alla vittoria Bill Clinton, si sono spesso trovati più
vicini alle posizioni dei Repubblicani che dei Democratici tradizionali.
Sull’altro fronte, il “conservatorismo compassionevole” di Bush è più
vicino al partito Democratico di quanto possa essere ai conservatori
ortodossi. L’appello all’elettorato centrista – richiamo che ha
caratterizzato entrambi le convention di partito del 2004 – ha una
ragione ben evidente ai guru elettorali: “Nessun partito può vincere
contando solamente sulla propria base”.
I Repubblicani e il mondo
La politica estera ha sempre favorito il partito Repubblicano
nell’ultima generazione. Il deciso anticomunismo di Reagan ha garantito
al GOP una salda reputazione di difensore degli interessi nazionali.
Convinzione che si è rafforzata con la fine della Guerra Fredda e la
vittoria nella prima guerra del Golfo, condotta da Bush padre. Nelle
tornate elettorali del 1992, 1996 e 2000, però, la politica estera è
stata praticamente relegata ai margini del dibattito politico. L’11
settembre ha cambiato tutto. Seppur controversa, l’idea di guerra
preventiva e di una trasformazione del Medio Oriente, lanciata da Bush,
rappresenta una nuova strategia e non semplicemente una mera risposta
agli eventi. Il partito Repubblicano è, comunque, tutt’altro che un
monolite. Alcuni intellettuali conservatori hanno criticato l’idealismo
wilsoniano che sembra animare l’approccio al mondo dell’Amministrazione
Bush. In particolare è stato puntato l’indice contro l’obiettivo del
“nation building” democratico in Iraq, attribuito all’atteggiamento
universalistico dei neoconservatori. E’ rimasto celebre lo sfogo anti
“neo-con” di George F. Will – columnist del Washington Post – che ha
chiesto all’Amministrazione repubblicana di assumere “una dose di
conservatorismo, senza il prefisso”.
I Repubblicani e l’America
Tradizionalmente, i Repubblicani si sono sempre battuti per un
ridimensionamento del governo federale, “scoraggiando la dipendenza
individuale dallo Stato”. A partire dalla fine degli anni ’70, ricorda
“The Public Interest”, molti programmi della Great Society di Lyndon
Johnson si sono screditati, offrendo ai Repubblicani un’opportunità per
attrarre nuovi voti. Tuttavia, negli anni ’90, il GOP ha imparato a non
spingere troppo avanti la critica al “Big Government”. La reazione
dell’opinione pubblica all’antistatalismo aggressivo dei Repubblicani ha
indotto il partito, Bush jr in primis, a correggere la linea. Sul piano
culturale, il GOP ha difeso i valori tradizionali contro l’attacco
lanciato dalla “New Left” negli anni ’60 e ’70. Con Bush è entrato in
gioco il “conservatorismo compassionevole” che “combina la difesa della
morale tradizionale con un’accresciuta azione dello Stato in alcuni
settori”. All’inizio del primo mandato, con la politica estera
marginalizzata, è parso che l’ex governatore del Texas avesse trovato la
quadratura del cerchio per il suo partito. Da una parte, il 43.mo
presidente americano ha soddisfatto i conservatori tradizionali con
politiche restrittive in tema di aborto e l’opposizione al matrimonio
omosessuale. Dall’altra, ha ottenuto il favore dei libertari con i suoi
poderosi tagli alle tasse. Ma molti nel partito Repubblicano hanno
accolto con sconcerto i nuovi programmi federali per l’educazione e gli
anziani.
George W. Bush, sostengono Ceaser e DiSalvol, ha dato vita ad “una
rivoluzione di velluto” nella politica interna repubblicana. Anche per
questo, prevedono che la seconda vittoria di Bush eclisserà, come
impatto sulla vita politica degli Stati Uniti, non solo la rielezione di
Clinton nel 1996, ma perfino quella di Reagan nel 1984. Staremo a
vedere.
02 dicembre 2004
gisotti@iol.it
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