Rugova e Kharzai, primi passi nella democrazia
di Stefano Magni
“La mia esperienza nello sviluppo della democrazia e della società
aperta mi ha insegnato che la democrazia non può essere imposta con
mezzi militari”. Così ha scritto George Soros solo pochi giorni fa. È
inutile replicare citando esempi lontani nella storia: è inutile,
quindi, citare il caso della Germania, in cui la democrazia è stata
portata dagli eserciti delle tre democrazie occidentali, inglese,
francese e americana. Inutile portare l’esempio del Giappone, che in
passato non era mai stato democratico e che non ha mai avuto una
tradizione fondata sulla libertà di scelta e sui diritti individuali, in
cui la democrazia è stata letteralmente imposta dalle forze
d’occupazione statunitensi. Si può guardare anche a due casi del
presente: l’Afghanistan e il Kosovo. Sia nella piccola regione balcanica
che nel grande Paese montuoso dell’Asia meridionale, la democrazia “è
stata esportata con la violenza”, come ironizzano i no-global. Ed ha
funzionato: nella stessa settimana, in entrambi i Paesi si sono tenute
le prime libere elezioni senza incidenti. Le popolazioni locali hanno
fatto capire a chiare lettere che vogliono la democrazia, che vogliono
scegliere liberamente i loro leader.
In Afghanistan la percentuale dei votanti si aggirano su una media del
75 per cento sugli aventi diritto al voto in tutto il paese, con punte
superiori all’80 per cento a Kabul. La gente non era obbligata a votare,
come accadeva in tutte le “democrazie popolari” comuniste o nelle
“repubbliche” arabe. Anzi, i talebani e gli estremisti islamici volevano
imporre il boicottaggio e minacciavano di mozzare le mani a chiunque
avesse votato. In Afghanistan molti cittadini sono sprovvisti di
documenti di identità, così, per non votare due volte, l’elettore doveva
imbrattarsi un dito con l’inchiostro indelebile, esponendosi
inevitabilmente al riconoscimento e alle eventuali rappresaglie
talebane. Il loro coraggio è stato oscurato dalle polemiche
sull’inchiostro usato che, in molti seggi, per problemi di
organizzazione, non era indelebile. La stessa settimana, in Kosovo, le
prime elezioni hanno dato risultati meno esaltanti in fatto di
affluenza: ha votato il 53 per cento degli aventi diritto, fra cui
pochissimi appartenenti alla minoranza serba. Si calcola che appena l’1
per cento dei Serbi che abitano ancora in Kosovo si sia recato alle
urne. Nella regione vi sono molti più problemi di riconoscimento della
legittimità del governo che non in Afghanistan.
Il Kosovo, infatti, non è indipendente, ma è e rimarrà ancora a lungo
sotto il mandato dell’Onu. Il rappresentante speciale del segretario
generale delle Nazioni Unite, Hans Haekkerup, mantiene saldamente il
controllo di tutti i settori chiave della politica kosovara: esteri,
ordine pubblico e controllo finale del bilancio. La difesa e l’ordine
pubblico sono assicurate dalle forze internazionali della Kfor. Per
questo molti albanesi considerano inutile l’elezione di istituzioni non
indipendenti, mentre i serbi non accettano l’esistenza di istituzioni
kosovare autonome dalla Serbia. Tuttavia, a votare è stata pur sempre la
maggioranza degli abitanti e, cosa ancor più importante, non vi sono
stati gravi incidenti nel corso delle elezioni in una terra dove, ai
tempi di Milosevic, c’erano occupazione, guerriglia, pulizia etnica e
rappresaglie. Quanto dureranno queste nuove democrazie? Nessuno può
dirlo. Una cosa è certa: né i kosovari, né gli afghani hanno scelto
degli estremisti. In Kosovo ha vinto il leader moderato per eccellenza:
Ibrahim Rugova, il protagonista di una decennale resistenza non-violenta
contro il colonialismo serbo. I leaders della guerriglia albanese, Thaci
e Haradinaj, sono stati severamente puniti dall’elettorato. Anche in
Afghanistan ha vinto il candidato più filo-occidentale fra i pretendenti
alla presidenza: Ahmid Kharzai, il presidente ad interim asceso al
potere in seguito alla detronizzazione dei talebani. Nessun signore
della guerra, né alcun estremista islamico è stato premiato dalle urne.
4 novembre 2004
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