La notte del giudizio
di Andrea Mancia
Proviamo a fotografare la campagna elettorale americana a 48 ore dal
voto. C'è grande incertezza tra gli analisti sul possibile impatto del
"comizio" di Osama bin Laden trasmesso da Al-Jazeera. I Kerry-spinners
si dicono convinti che la sola esistenza di Osama (vivo) basti a
ricordare agli elettori la disastrosa politica militare di Bush in Medio
Oriente. Dall'altra parte della barricata, la parola d'ordine è che i
riflettori puntati su Osama non possono che favorire il presidente, in
tutti i sondaggi preferito di gran lunga al suo rivale sul tema della
sicurezza nazionale e della guerra al terrorismo. Qualcun altro, infine,
pensa che la vicenda non influenzerà, in un verso o nell'altro, l'esito
delle elezioni. Proviamo a ragionare seguendo quest'ultima ipotesi.
I sondaggi a
livello nazionale si dividono in due categorie: i tracking-poll
quotidiani (Rasmussen, ABC/Washington Post, Zogby, Tipp) e quelli
condotti, di solito con frequenza settimanale, dagli istituti di ricerca
per conto di testate televisive o della carta stampata (Gallup, Opinion
Dynamics, Tarrance/Battleground, ICR, Pew, Princeton Survey, Ipsos,
SRBI). Analizzando i risultati di queste rilevazioni statistiche nel
loro complesso, una metà scarsa dei sondaggi vede Bush e Kerry
esattamente alla pari (o quasi), mentre l'altra metà giudica il
presidente in vantaggio con un margine che va dal 3 al 5%. La differenza
può sembrare vistosa, ma i metodi di identificazione dei "likely
voters", il margine di errore strutturale nella selezione del campione e,
soprattutto, i diversi "pesi" demografici o di affiliazione ai partiti
scelti dai sondaggisti, ci spingono a pensare che la verità - quella
statistica, almeno - sia da qualche parte lì in mezzo. RealClear
Politics utilizza un metodo forse brutale, ma probabilmente corretto,
elaborando una media dei risultati di tutti i sondaggi. E questa media
vede Bush in leggero vantaggio sul suo sfidante, con un margine che
oscilla tra il 2 e il 2.5%. Un margine che è rimasto stabile nell'ultimo
mese di campagna elettorale.
Se
nessuno dei due partiti, insomma, riuscisse a prevalere nettamente nel
"ground-game" del 2 novembre, si potrebbe affermare che il presidente
sia leggermente favorito nella corsa alla Casa Bianca. Anche in questo
caso, però, le due opposte fazioni hanno un'interpretazione
assolutamente opposta della questione. I democratici fondano le loro
speranze su un "turnout" elettorale massiccio, intorno al 60% (quello
del 2000 è stato leggermente inferiore al 52%), spinto da una forte
affluenza alle urne di giovanissimi (18-24 anni) e cittadini che non
hanno mai votato. I repubblicani, scottati dal turnout delle scorse
presidenziali, affermano di aver adottato un piano GOTV (Go to Vote)
molto più efficiente di quelli utilizzati in passato. E la sorprendente
affermazione alle elezioni di mid-term del 2002 sembrerebbe assecondare
questa loro convinzione. Sul numero di elettori registrati da ciascun
partito, poi, è guerra aperta. E l'analisi dei dati può, a seconda del
metodo, portare a conclusioni diverse. Proviamo però ad immaginare un
turnout medio-alto e un ground-game leggermente a favore dei
democratici, ma non così nettamente da frustrare ogni velleità di
rielezione da parte di Bush.
Secondo
questa ipotesi, Bush sarebbe probabilmente in leggerissimo vantaggio nel
voto popolare, con un margine intorno allo 0.5-1%, ma senza la certezza
di trasformare questo distacco in una vittoria nel collegio elettorale.
Tutto, dunque, si giocherebbe sull'esito della sfida in una decina di
stati-chiave su cui l'attenzione degli analisti si è concentrata negli
ultimi mesi. Spesso a sproposito.
Scartiamo
immediatamente i cosiddetti "battleground states" in cui, in realtà, la
bilancia sembra pendere nettamente dalla parte di uno dei candidati,
almeno secondo gli ultimi sondaggi disponibili. Missouri, West Virginia
e Colorado dovrebbero quasi certamente andare a Bush, proprio come
Maine, Oregon e Washington sono destinati ad occupare spazio nella
colonna di Kerry. Rimangono una dozzina di stati, tra cui spicca la
presenza delle Hawaii (4 voti elettorali), storico bastione democratico
che però i sondaggi più recenti attribuiscono incredibilmente a Bush.
Degli altri 11 stati, sei sono stati vinti da Al Gore nel 2000
(Pennsylvania, Iowa, Michigan, Minnesota, Wisconsin e New Mexico, per un
totale di 70 voti elettorali), mentre cinque sono stati vinti da Bush
(Florida, Ohio, New Hampshire, Nevada e Arkansas, per un totale di 62
voti elettorali).
Per
arrivare alla fatidica soglia di 270 (ma anche 269 potrebbero
bastare al presidente), Bush ha fondamentalmente tre strade. La prima è quella più
lineare: riconquistare Florida, Ohio e Arkansas (arrivando a 269) e
disinteressarsi di tutto il resto. Il problema, in questo caso, è
rappresentato soprattutto dall'Ohio, visto che in Florida e
Arkansas il presidente conserva un vantaggio significativo. La seconda
strada implica la rinuncia all'Ohio e ai suoi 20 voti elettorali,
conservando però la Florida (27). Si trattava, fino a pochi mesi fa, di
un'ipotesi da fantapolitica. Ma oggi, grazie alle ottime performance in
Iowa (7), Wisconsin (10), Minnesota (10) e New Mexico (5), Bush
potrebbe, vincendo in Nevada, "sostituire" i voti mancanti dell'Ohio con
una qualsiasi di queste possibili combinazioni: Iowa e Wisconsin (271);
New Mexico e Wisconsin (269); New Mexico, Iowa e New Hampshire (270);
Iowa e Minnesota (271); Minnesota e Wisconsin (274); New Mexico e
Minnesota (269). Conquistando due stati del Midwest, dunque, il
presidente potrebbe essere eletto anche senza l'Ohio. La terza ed ultima
strada per la Casa Bianca, invece, resta quasi fantapolitica. In caso di
sconfitta contemporanea in Florida e Ohio (e Pennsylvania), infatti,
Bush potrebbe teoricamente essere eletto strappando a Kerry il Michigan
(17) e spazzando via il proprio avversario dal Midwest (Iowa, Wisconsin
e Minnesota, più almeno uno tra New Mexico e New Hampshire). Non si
tratta di un'impresa assolutamente impossibile, ma proprio non riusciamo
ad immaginare uno scenario in cui Bush sia in grado di ribaltare i pronostici in maniera
così clamorosa al Nord, perdendo contemporaneamente Florida e Ohio.
Le opzioni per Kerry
sono molto più limitate. In pratica, il senatore del
Massachusetts non può permettersi di perdere la Pennsylvania (21) o il
Michigan (17). E deve fare di tutto per vincere almeno uno stato tra
Florida (27) e Ohio (20). In caso contrario, l'unica possibilità per
Kerry è quella di vincere in tutti gli stati del Midwest e strappare a Bush
il New Hampshire (4) e il Colorado (9) o l'Arkansas (6). Il resto, più
che fantapolitica, sono pie illusioni.
Arriviamo
al dunque. Malgrado i milioni di dollari spesi da entrambi i candidati
durante la campagna elettorale e il livello di veleno e fango sparsi
coast-to-coast negli ultimi mesi, la "Fifty-Fifty Nation" sembra essere
rimasta bloccata alla polarizzazione delle elezioni del 2000, forse resa
ancora più estrema dalla lotta al terrorismo, dalla guerra in Iraq e
dallo slittamento a sinistra del partito democratico negli ultimi anni.
Se hanno ragione gli opinionisti, i dirigenti e gli attivisti liberal,
quella del 2 novembre sarà una notte lunghissima, che non
necessariamente vedrà eletto uno dei due sfidanti e che potrebbe avere
una coda interminabile nelle aule dei tribunali. Se invece ha ragione
chi crede che la Right Nation abbia lentamente conquistato una
maggioranza strutturale nel paese e che il partito repubblicano non
abbia più alcuna ragione per invidiare l'organizzazione territoriale dei
democratici, Bush sarà rieletto presidente degli Stati Uniti d'America
senza troppi problemi. E potremo finalmente chiedere spiegazioni a chi,
negli ultimi mesi, ci ha voluto raccontare una storia diversa.
30 ottobre 2004
*
Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione,
è il titolare del blog
The Right Nation
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