La scommessa di Ariel Sharon
di Marta Brachini

Decisione storica per il governo israeliano. Storica per due ragioni: perché è stato il primo ministro Ariel Sharon a volerla fortemente, e perché, questa volta, è un capo di governo della destra a prendere decisioni importanti per il futuro della nazione israeliana. Nessuno si aspettava da Sharon, stereotipato come un nazionalista della peggior specie, una decisione che andasse contro la linea politica del suo stesso partito, il Likud, che da sempre ha favorito l’insediamento dei coloni nelle aree palestinesi dopo il 1967. Il ritiro da Gaza, unilaterale e programmato, è stato approvato ieri dalla Knesset, il parlamento israeliano, con 67 voti a favore, 45 contrari e 7 astensioni. Scelta storica ma soprattutto sofferta sia dentro l’aula parlamentare, con diciassette ore dibattito, che fuori, con imponenti manifestazioni contro il ritiro. Questa decisione ha provocato la rottura della coalizione di governo: una rottura alla quale Netanyau, leader alla destra dello stesso Likud, ha voluto sottrarsi, anche se a tempo determinato. Infatti gli ultra nazionalisti e i partiti religiosi invocano un referendum popolare sul ritiro minacciando l’uscita dal governo nel caso in cui il premier si rifiuti di annunciarlo nelle prossime due settimane. Ma Sharon ha la determinazione del leader politico e l’aggressività del generale. Sarà difficile fermare la sua corsa.

Da trentasette anni a questa parte nessun politico israeliano aveva osato affrontare a viso aperto la questione degli insediamenti israeliani nei territori occupati dopo la vittoria della guerra dei Sei Giorni. Nessuno, ovviamente, dopo Menachem Begin e Ytzhak Rabin. Sono loro i due uomini politici che hanno portato Israele a una pace con parte del mondo arabo. E’ una storia di ritiri e concessioni in cambio della pace. Begin, uomo della destra storica israeliana, firmò l’accordo con l’Egitto di Sadat nel 1979, ponendo fine a trent’anni di conflitto. In cambio della pace completò il ritiro, previsto a tappe, dalla penisola del Sinai nel 1982. E Rabin fu l’artefice e negoziatore degli accordi di pace di Oslo: diede l’opportunità al suo interlocutore, Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberaione della Palestina, di costituire un embrione di Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Così entrambi, dopo la firma a Washington, ottennero il premio Nobel per la pace. Ma Rabin firmò anche la sua condanna a morte quando, nel 1994, restituì alla Giordania i territori rivendicati sempre in cambio di pace. Morì assassinato a Tel Aviv nel 1995 da un estremista. Paradossalmente in questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte.

Oggi, è Sharon ad entrare nella storia nazionale. La sua decisione, impopolare tra gli abitanti degli insediamenti più nazionalisti e religiosi, come quella dei suoi storici predecessori, è però ancora più difficile. Nessuna pace gli viene offerta. Deve accontentarsi di un mero vantaggio strategico per aumentare la sicurezza dei suoi soldati, del suo Paese e dei suoi cittadini. Nell’impossibilità di offrire di nuovo alla parte palestinese quello che quattro anni fa è stato offerto e rifiutato, non resta che chiudersi dietro confini difendibili, come permette ora la barriera in Cisgiordania, e aspettare che, questa volta, una mano venga tesa dalla parte avversa. Dato di fatto così esecrabile, questo, per gli avversari del ritiro unilaterale al punto che sui muri di Gerusalemme cominciano ad apparire graffiti rabbiosi: “We killed Rabin, Sharon is next”. Ma tutto ciò non dissuade il premier israeliano e tutti i membri del Parlamento, con quelli dello Shas e del Labour in prima fila, che lo hanno appoggiato, a realizzare nell’estate 2005 l’evacuazione volontaria o forzata di 1581 famiglie; e a stanziare fondi sufficienti per il cospicuo risarcimento che spetta a ciascun nucleo familiare. Per ultimo sarà l’esercito a lasciare definitivamente Gaza, pur mantenendo il controllo sui confini, i cieli e le acque territoriali. Il progetto è stato approvato, anche se una coalizione di governo a rischio di sfaldamento non assicura la sua prossima realizzazione. Una sola cosa è certa: dovremo aspettare ancora molto tempo, prima di poter lodare o biasimare Sharon per la sua scelta, perché, in realtà, nessuno sa dove conduce.

27 ottobre 2004

m.brachini@libero.it

 

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