Ma Kerry non è Zapatero
di Alessandro Gisotti

Nella crisi irachena, “Francia, Germania e Russia non hanno mai sostenuto o presentato una politica praticabile per accertare che le risoluzioni delle Nazioni Unite fossero messe in atto in quel paese. Ed è evidente che la Francia stia accarezzando la fantasia rediviva di Charles de Gaulle di fare dell’Europa un contrappeso indipendente dalla potenza statunitense, naturalmente guidato da Parigi”. Queste parole non le ha pronunciate George W. Bush. Le ha scritte John F. Kerry. Coloro che in Europa - specie a sinistra - pensano che il candidato Democratico alla Casa Bianca sia uno Zapatero a stelle e strisce, dovrebbero leggere con attenzione “A call to service”, il libro per metà autobiografico e per metà programmatico scritto dallo sfidante di Bush. Pubblicato in Italia dalla Piemme con il titolo “Un’America Nuova”, il volumetto di poco più di 200 pagine alterna ricordi ed esperienze del senatore del Massachusetts alle proposte politiche per guidare la nazione una volta alla Casa Bianca. Pagina dopo pagina, Kerry sottolinea - con un leit motiv della sua campagna presidenziale - gli insegnamenti tratti dall'esperienza in Vietnam.

Per dimostrare che, rispetto al presidente in carica, ha la politica estera nel sangue, Kerry mette l’accento sulle sue origini familiari: “Ho cominciato a fare pratica di internazionalismo democratico fin da bambino. Sono figlio di un diplomatico […] l’esperienza – scrive – si è rivelata preziosa sotto due aspetti importanti: passare buona parte dell’infanzia all’estero ti mette in contatto con molte altre culture, linguaggi, tradizioni politiche e storie. Ti insegna anche molto su ciò che l’America difende e su come buona parte del mondo dipenda da noi per difendere questi valori”. Idee che Kerry applica al suo modo di vedere il mondo, soprattutto riguardo ad aree roventi del pianeta come il Medio Oriente. Anche in questo caso, le affermazioni del veterano prestato alla politica deluderanno, nel Vecchio Continente, più di qualche suo superficiale supporter. “Israele – evidenzia Kerry – è nostro alleato non solo perché è l’unica vera democrazia del Medio Oriente, ma anche perché è una roccaforte della sicurezza statunitense in una regione che pullula di minacce”.

Se, dunque, sul ruolo degli Usa nello scenario internazionale, Kerry non sembra poi così distante da Bush, in politica interna le differenze sono più marcate. Per il senatore del Massachusetts, il modello vincente è Bill Clinton e il suo “centrismo moderato”. Proprio l’ultimo presidente democratico viene più volte richiamato come esempio di mix ben riuscito tra ideali e pragmatismo. Sulla scia di quel successo, Kerry lancia sei sfide all’Amministrazione repubblicana: proteggere l’America e promuoverne i valori e gli interessi; espandere la ricchezza collettiva; creare scuole migliori; riformare il sistema sanitario; difendere l’ambiente e conquistare l’indipendenza energetica; dare nuovo vigore alla democrazia e alla partecipazione attiva.

Promesse d’impegno sorrette dalla convinzione molto kennediana, che ogni americano può fare la differenza. “Insieme – afferma Kerry, al termine del capitolo “Perché mi candido alla presidenza” – possiamo essere all’altezza del patriottismo e del coraggio che gli americani mostrano ogni giorno e fare dell’America la prova vivente delle possibilità dell’animo umano”.

2 settembre 2004

gisotti@iol.it

 

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