Kerry, tanto rumore per nulla
di Andrea Mancia
Per gli analisti di Newsweek, quello della premiata ditta Kerry-Edwards
è stato il "più modesto rimbalzo post-convention di sempre". Per
l'istituto di sondaggi Gallup, si è trattato addirittura di un "rimbalzo
negativo", che ha visto lo sfidante democratico perdere 5 punti
percentuali nei confronti del presidente in carica George W. Bush. Il
Rasmussen Report, che da metà aprile analizza quotidianamente
l'andamento della corsa alla Casa Bianca, ha registrato un "bounce"
quasi inesistente, scomparso del tutto dopo appena 24 ore. Secondo ABC e
Washington Post, si è trattato di un rimbalzo "tiepido" tra i votanti
registrati ed "insignificante" tra quelli che probabilmente voteranno il
prossimo novembre. Perfino per John Zogby, sondaggista di provata fede
democratica, il rimbalzino si è fermato al di sotto della soglia di
pericolo: quel 5 per cento che, alla vigilia della convention
democratica di Boston, veniva considerato il risultato minimo per le
sorti del ticket Kerry-Edwards.
Tanto rumore per nulla, insomma. Palloncini, coriandoli, rockstar,
veterani-pacifisti, ex presidenti ed ex quasi-presidenti, registi ed
attori di Hollywood: la faraonica kermesse bostoniana dell'America
"buona" (quella che piace anche a Fassino ed Epifani, per intenderci)
non ha spostato di una virgola i termini della questione. Con grande
disappunto di chi confidava in una precoce "fuga per la vittoria" del
candidato democratico. La realtà, però, è assai diversa. A meno di
clamorosi colpi di scena sul fronte della lotta al terrorismo
internazionale, le prossime elezioni presidenziali statunitensi si
giocheranno sul filo di un pugno di voti, combattendo fino all’ultimo
istante utile per conquistare la maggioranza in quattro o cinque
stati-chiave che determineranno, con ogni probabilità, l’esito finale
della sfida. I sondaggi condotti a livello nazionale sono forse utili
per tentare di percepire un grossolano trend nelle preferenze degli
elettori, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti swing-voters, ma
sono anche del tutto fuorvianti se si vuole comprendere l’effettiva
distanza tra i due candidati o valutare le loro reali chance di
vittoria.
A rendere ancora più fiacco il previsto rimbalzo post-convention di
Kerry ed Edwards, poi, ha contribuito anche l’estrema polarizzazione del
quadro politico statunitense, oltre al fatto che i grandi network
televisivi, dopo il mezzo-flop delle convention del 2000, hanno deciso
di rinunciare alla trasmissione integrale degli eventi. Ma se questi due
fattori giocheranno un ruolo importante anche nella convention
repubblicana prevista per la fine di agosto a New York, c’è invece un
altro dato che non può non preoccupare gli strateghi del partito
democratico. Sotto l’attenta regia di Terry McAucliffe, infatti, a
Boston i democratici hanno disperatamente tentato di sterzare verso il
centro, nella speranza di poter scrollare da dosso a Kerry l’etichetta
(mai tanto meritata) di “liberal del New England” che nel 1988 portò
Michael Dukakis verso una rovinosa sconfitta elettorale contro Bush
padre. Operazione assolutamente sensata, che si è però scontrata con la
realtà di un partito ormai da tempo identificatosi, non tanto con la
solita coppia-Clinton, quanto con la tenace arroganza di Al “the Loser”
Gore, con il radicalismo psicotico di Howard Dean e con la tristezza
esistenziale di Ted Kennedy. Figure forse spendibili con l’arrabbiata
comunità nera di Washington o tra i finti-miliardari-europei di Boston,
ma che restano distanti anni-luce da quell’America “mainstream” che, in
ultima analisi, deciderà l’esito delle elezioni di novembre.
Non basta certo un Kerry in tenuta da combattimento, accompagnato da un
nugolo di fedelissimi veterani del Vietnam, per conquistare i cuori dei
“patrioti” del Texas o del Nebraska. Come non basta la parlantina
sciolta di Edwards per riportare il Sud sotto la bandiera democratica
dopo decenni di strapotere repubblicano. Potrebbe forse bastare, invece,
il fantasma di Ted Kennedy o l’ennesima recriminazione di Al Gore sul
recount in Florida per convincere gli indecisi in Ohio e Pennsylvania a
non fidarsi della presunta svolta centrista del partito. Secondo il
Rasmussen Report, il numero degli americani che considera Kerry come un
rappresentante dell’ideologia liberal è cresciuto, dopo la convention,
dal 42 al 46 per cento. Soltanto il 36 per cento dei cittadini, oggi,
ritiene che il candidato democratico sia un moderato (erano il 40 per
cento prima della convention). Altro che rimbalzo: a Boston si è
consumata la prima, dura sconfitta dei democratici nella loro strategia
per la conquista della Casa Bianca. Soltanto i prossimi mesi potranno
dirci se Kerry sarà in grado di invertire questa tendenza. Con
l’anniversario dell’11 settembre alle porte, e con il numero di vittime
statunitensi in Iraq che negli ultimi mesi continua a diminuire, non
sarà affatto una passeggiata di salute.
3 agosto 2004
mancia@ideazione.com |