Il muro? E' un affare. Anche per Arafat
di Barbara Mennitti

Quello appena condannato dal Tribunale dell’Aia e dall’Onu e comunemente chiamato “muro dell’apartheid e del razzismo”, non è un muro, se non per pochi chilometri. Per adesso è solo una barriera di vari materiali, reticolati, fili di ferro e via dicendo. Sembra però che presto diventerà una vera opera in muratura, lunga ben 700 chilometri, perché Israele sta effettivamente acquistando grandi quantità di cemento. E da chi lo stanno comprando? Da cinque ditte palestinesi, facenti capo a membri dell’establishment di Ramalah, per un affare che supera i 5 milioni di dollari: un piatto decisamente ghiotto.Questo, secondo un articolo di Mara Gergolet pubblicato dal Corriere della Sera, è quanto emerge da un rapporto del Parlamento palestinese appena trasmesso alla magistrautra. Ma cerchiamo di ricostruire le fasi di questo scandalo.

Nell’aprile del 2003, l’imprenditore ebreo Zeev Pelsinky cerca di comprare del cemento in Egitto, ma l’affare viene denuciato dalla stampa e sfuma all’ultimo momento. Pelinsky si rivolge allora al ministro degli Affari civili dell’autorità palestinese, Jamal Tarifi, la cui famiglia possiede due compagnie di cemento; a settembre i due si incontrano al Cairo e firmano un contratto per l’importazione di 20.000 tonnellate di cemento. Tarifi ha portato con sè un permesso firmato dal ministro dell’Economia, Maher Al Masri, che certifica che il materiale non arriverà in Israele. Senza questo documento non si potrebbe concludere l’affare. Il cemento di tipo Port Land, lo stesso usato per costruire la barriera, viene pagato a costi calmierati, 22 dollari alla tonnellata, in base agli accordi di Parigi del ’93 tesi a favorire la cooperazione nella regione. I palestinesi per i loro servizi hanno preso il 50 per cento: 5,6 milioni di dollari esentasse. E nessuno ha pagato la dogana all’ingresso del materiale nei Territori: 1,7 milioni di dollari.

Quando, però, la notizia arriva sulla stampa egiziana, Hassan Khreishe, vicepresidente della Camera palestinese (ora oggetto di minacce di morte) decide di istituire una commissione d’inchiesta. Le indagini durano sette mesi e poi il raporto finisce nelle mani dei magistrati: 420 mila tonnellate di cemento Port Land sono state importate nei territori; 33 mila sono state usate per usi civili e il resto è stato rivenduto agli israeliani. Le società coinvolte sono la Tarifi Comapany e la Qandeel Tarifi Company for Cement (una del ministro degli Affari Civili e l’altra di suo fratello), quelle dell’imprenditore di Gaza Yousef Barakeh e la Società generale dei Servizi commerciali palestinesi, una specie di finanziaria statale che fa capo a Mohammed Rashid, “Gran Tesoriere” di Arafat.

Qui la situazione si fa, ovviamente, molto delicata. Il rapporto non mette espressamente in collegamento Rashid e Pelsinky. Ma è impossibile non domandarsi se il leader palestinese Arafat fosse a conoscenza di questi traffici. Fra i documenti a cui il Corriere ha avuto accesso, c’è una lettera indirizzata al Raìs, in cui il capo dell’ufficio di controllo del governo, Jarar Al Qidweh, spiega per filo e per segno la vicenda dell’acquisto e aggiunge: “Abbiamo scoperto che il cemento arriva al valico di Oja. Lì il carico viene trasferito sul nome di un businessman israeliano e portato subito alle aree della Linea Verde. Abbiamo scoperto che il cemento è composto in modo tale da venire usato per le lastre del muro di sicurezza israeliano.” A quanto pare Arafat ordinò di continuare a investigare. Intanto il 23 febbraio, mentre all’Aja si istituiva il processo al muro, il ministro dell’Economia firmava un altro permesso per un carico proveniente dall’Egitto.

31 luglio 2004

bamennitti@hotmail.com

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