Pena di morte nell’Iraq post Saddam
di Marta Brachini

MakekDohan al Hassan, ministro della giustizia iracheno, ha affermato il 6 giugno 2004 che il suo paese avrebbe ripristinato la pena di morte e che Saddam Hussein ne sarebbe stato passibile. Dopo il 30 giugno, data ufficiale del passaggio di sovranità, la custodia legale dell’ex dittatore dell’Iraq è passata al governo iracheno. Con molta probabilità il processo si terrà dopo le elezioni nazionali previste alla fine del gennaio 2005. “Gli iracheni devono ricordare gli orrori del trentennio di Saddam. Il processo ci aiuterà a costruire le basi della nuova democrazia”, sono le parole di Iyad Allawi, capo del nuovo governo di Baghdad, il quale però non fa alcun cenno al ripristino della pena capitale in Iraq. Tuttavia le accuse che pendono sopra il capo di Saddam sono paragonabili a quelle dei processi della fine della seconda guerra mondiale: impiego delle armi chimiche nel conflitto con l’Iran dal 1980 al 1988; genocidio dei curdi, sterminati col gas nervino; invasione del Kuwait, con 700 pozzi di petrolio in fiamme; massacro degli sciiti dopo la prima guerra del Golfo; attacco con missili scud su Israele nel 1991 e infine la responsabilità di 270 fosse comuni ritrovate dopo la caduta del regime. Ma non ci sarà una nuova Norimberga, poiché Saddam non sarà giudicato da un tribunale di guerra internazionale ma da una delegazione di cinquanta giudici iracheni, con competenza estesa ai crimini di guerra, guidata da Salem Chalabi, leader dell’Iraqi National Congress.

Il rapporto 2004 di “Nessuno tocchi Caino” sulla pena di morte nel mondo (Marsilio Editore) ci ricorda che l’Iraq, prima del 9 aprile del 2003, primeggiava per numero di esecuzioni insieme a Cina e Iran nella lista dei 48 paesi dittatoriali, autoritari e illiberali. E’ interessante riflettere sul fatto che nel rapporto sono compresi anche 15 paesi liberali mantenitori della pena di morte e meditare sulla possibilità che l’Iraq possa giungere alla democrazia mantenendo la pena capitale. Infatti la condanna a morte in un paese che deve dimostrare di aver superato trenta anni di dittatura non può non passare attraverso procedure almeno formalmente democratiche. A cominciare dalla capacità di rispettare i diritti civili della persona, di monitorare le modalità di detenzione e la regolarità dei processi, e infine di cercare di mitigare il grado di brutalità dell’esecuzione.

Queste considerazioni fanno la differenza tra l’applicazione della pena capitale in paesi democratici e in paesi non democratici. Il processo ai crimini dell’ex dittatore aiuterà certamente gli iracheni a voltar pagina, per quanto questa transizione si annunci difficoltosa per la collocazione geografica del paese, per la sua cultura politica e religiosa, per la composizione etnica e infine per la difficoltà della stessa popolazione ad abituarsi alla libertà, di pensiero, di parola e d’espressione. La democrazia non appartiene, infatti, alla cultura e alla storia politica dell’Iraq. L’Iraq prima del conflitto era uno stato autocratico paragonabile all’Iran, che applica ancora la pena di morte in base alla Sharia per decapitazione, ma più simile alla Cina o al Vietnam dove si praticano esecuzioni per dissidenza politica o per pratica religiosa non conforme a quella consentita dallo stato. In Iraq ci si apetterebbe una esecuzione popolare, platealmente violenta, con la quale si fa vendetta del sangue sparso dal regime baathista.

Una prima grande prova dunque per il governo iracheno. O forse una doppia prova, considerando in aggiunta le aspettative di un’opinione pubblica internazionale attenta agli sviluppi nello scenario mediorientale. “Io sono il Presidente dell’Iraq”,è stata la prima dichiarazione del Raìs di fronte al tribunale iracheno il primo luglio. Un’ affermazione capace di creare un’ insormontabile difficoltà per i giudici iracheni se pensiamo alle resistenze che questa susciterà nei nostalgici del regime e nei difensori dell’orgoglio baathista. Avranno bisogno di prove forti e schiaccianti per la condanna poiché tra coloro che vogliono vedere la sconfitta definitiva di Saddam, oltre agli sciiti e ai curdi, vi è anche l’America di Bush, che ha tutto l’interesse a dare rilievo internazionale al processo e perciò non permetterà giustizie sommarie. La posta in gioco è alta. Si gioca la stabilità della regione e il futuro della piena sovranità dell’ Iraq democratico, nonché il successo, l’opportunità e l’utilità della guerra americana contro l’Iraq.

12 luglio 2004

m.brachini@libero.it

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