Islam, lo scisma del sangue
di Carlo Panella
da Ideazione, maggio-giugno 2004

La cultura politica occidentale su nessun tema registra divergenze così radicali di analisi, di visione, di strategie di contrasto, come sul terrorismo islamico che, dall’11 settembre 2001 (ma in realtà da molti decenni prima), devasta il mondo. Ancora oggi divergenze radicali dilaniano i suoi avversari, infiacchendone l’azione repressiva, aprendo varchi in cui il terrorismo penetra con forza, addirittura suscitando la più grave crisi politica tra gli Stati Uniti ed una parte dell’Europa degli ultimi cinquant’anni. Tutto questo sconquasso, questa Babele di analisi e rimedi ha in realtà una origine molto semplice: il terrorismo islamico non esiste. Affermazione forte, provocatoria, ma vera. Quello che opera da decenni è infatti ben di più e ben oltre un fenomeno terrorista: è un radicale, popolare, esteso, scisma religioso che scuote l’Islam.

Di questo bisogna occuparsi, questo bisogna analizzare: se non si scava nelle viscere di questo scisma religioso, non si comprende nulla di quella che è solo la sua manifestazione più visibile e pericolosa, nell’immediato, ma che non ne esaurisce affatto la carica eversiva, esattamente come lo squadrismo non esauriva affatto la complessità del nazismo e del fascismo. Se si lavora attorno al fenomeno terrorista così come ci appare nelle sue manifestazioni, non si comprende nulla del suo retroterra, della sua forza, della sua storia e ancor meno si afferra il bandolo dei rimedi, della logica che bisogna assumere per contrastarlo. Hanno così spazio le tesi economiciste di inerziale scuola marxista; quelle che lo legano a movimenti nazionalisti; trionfa la “colpa dell’Occidente”, il furto di materie prime, “l’imperialismo culturale” e via banalizzando. Analisi tanto radicate e ripetute, quanto false, indifendibili, a fronte di un minimo di verifica concreta. I paesi che hanno fatto da culla al terrorismo islamico, Iran, Arabia Saudita e Algeria, sono infatti tra i più ricchi al di fuori dell’Europa e degli Usa (peraltro nei paesi islamici più poveri, Mauritania, Mali, la stessa Somalia dilaniata dalle bande armate, i terroristi islamici non si radicano); il paese in cui più si è scatenato il terrorismo islamico in tutte le sue patologie, provocando più di 100.000 morti, l’Algeria, non soffre di alcuna costrizione nazionale, è straordinariamente ricco di materie prime, è assolutamente estraneo alla sfera di influenza americana, non ha e non ha mai avuto a che fare con Israele.

Accanto a queste analisi di poco spessore, hanno poi spazio le insopportabili descrizioni tecnicistiche di specialisti che si dilungano a spiegare la differenza tra organizzazioni “a rete”, rispetto a quelle “a piramide” o a “cerchi concentrici”. Unico punto di convergenza pare essere la convinzione che sia un fenomeno che intende combattere come proprio nemico strategico l’Occidente. Ma anche questo è falso. Anche questo non è assolutamente vero. Il terrorista islamico – che, lo ripetiamo, non esiste, perché in realtà è uno “scismatico” – non ha per nemico l’Occidente, ma la “deviazione dalla retta via” dei paesi islamici. Gli Usa e l’Europa sono solo “nemici secondari” da colpire – e vengono colpiti – perché alleati dei governi corrotti che esercitano un potere impuro sul Territorio dell’Islam.

A suffragio di questa nostra tesi, bastano e avanzano le parole di uno dei primi obbiettivi dei terroristi islamici, re Abdullah di Giordania, che così ha dichiarato al Corriere della Sera del 22 marzo: «L’obbiettivo dei terroristi islamici non è la distruzione dell’Occidente, ma la distruzione dell’Islam moderato, per prendere il potere nei paesi arabi; l’Europa è un obbiettivo secondario: indebolendola si vuole condizionare il futuro del mondo musulmano all’interno della comunità internazionale».

Questa analisi di re Abdullah lo porta diritto anche alla conclusione che non vi è alcuna relazione meccanica tra la presenza di contingenti militari in Iraq e la possibilità di divenire bersaglio di attentati: «Non legherei il problema della presenza o meno di soldati in Iraq e la possibilità di essere presi di mira da terroristi. Direi che questa è solo parte di un quadro più ampio, legato a una lotta all’interno dell’Islam, con gli estremisti che cercano di creare conflitti tra Oriente e Occidente e guerre interreligiose». Giudizi che ribaltano radicalmente le analisi di Parigi, Berlino, di Prodi, di Zapatero e che sono ascoltate in Europa solo dai governi inglese, italiano e da Aznar.

Il culto della morte

Esiste e si amplifica invece un nuovo scisma islamico. Uno scisma che si basa sul culto della morte. La morte propria. La morte altrui. Mai, mai nella storia, un’iniziativa terroristica ha riscosso da una così vasta platea popolare tanti e tali applausi, intimi ed espliciti entusiasmi. Mai il terrorismo si è presentato sulla scena mondiale non come un fenomeno “a margine”, ma come il centro di una radicata visione del mondo, fatta propria da milioni e milioni di correligionari.Mai un popolo ha educato i propri bambini nel miraggio di diventare delle bombe, di farsi esplodere in mezzo ad altri bambini, chiamati “scimmie e porci” dai pulpiti delle moschee. Scimmie e porci perché ebrei.

Infiniti sono gli esempi di popoli che hanno condotto per anni guerre di liberazione, che si sono difesi armi alla mano, che hanno combattuto per la loro terra, anche per impedire di essere spazzati via in feroci pulizie etniche, dal genocidio. Ma non esiste nulla di simile all’ideologia e alla pratica del martire-assassino islamico che ha iniziato il suo cammino in Iran nei primi anni Ottanta e che dopo quindici anni ha preso piede in Palestina. Il mondo è pieno di eserciti di soldati-bambini e anche in Palestina al Fatah, Hamas e Hezbollah organizzano campi estivi di soldati-bambini. Ma in nessun paese del mondo si allenano i bambini a diventare bombe per uccidere altri bambini.

Tutto questo non può essere spiegato con il termine “terrorismo”. È un fenomeno ben più complesso, profondo, radicale. Il terrorismo, che opera, che fa stragi, che ha già migliaia di vittime, è solo una manifestazione di un’ideologia, di una religione i cui adepti hanno adottato questi nuovi, terribili riti che divorano i loro stessi figli.Il mondo sta subendo una messe sanguinosa di attentati al cui centro risalta il nuovo fenomeno del martirio-assassinio, strumento per il raggiungimento del fine strategico: l’allargamento della società dei saggi (salafita), in cui si ripercorrano i fasti della prima comunità (umma) musulmana che si riunì attorno al profeta Maometto alla Medina e poi alla Mecca.

Le radici dello scisma

Un fine strategico che si muove su alcuni capisaldi, su alcuni dogmi, che rappresentano una novità di rottura rispetto alla tradizione islamica, alle tradizioni islamiche. In un alveo religioso musulmano in cui gli scismi non si contano, l’iniziativa cultural-religioso-politica di alcuni pensatori musulmani, si è intrecciata con alcuni grandi avvenimenti politici. Uno scisma religioso che ha dunque una dinamica interna tutta politica, che si colloca per intero nelle grandi crisi politiche che da decenni attraversano tutti i paesi islamici.

Uno scisma che ha inizio negli anni Venti, quando il mondo islamico si confronta con la straordinaria e terribile crisi d’identità (e anche d’orgoglio, di percezione di sé), conseguente alla fine ingloriosa del califfato. Ancora oggi, in Occidente, non si comprende quale peso straordinario abbia avuto per la comunità islamica l’abolizione di fatto (nel 1918) e poi di diritto (nel 1924, ad opera di Ataturk) del califfato. Crisi che è stata uguale a quella che avrebbe colpito il mondo cattolico se all’improvviso fosse scomparso dalla storia il Pontefice romano, con un di più, perché il Califfo rappresentava anche l’aspirazione all’unione politica di tutte le nazioni dell’Islam.

La reazione a questo straordinario vulnus delle coscienze, della memoria storica, addirittura dell’identità dei musulmani, è stata assolutamente diversificata. Accanto alla formazione – lenta e impacciata – di gruppi dirigenti politici su base nazionale, in genere condizionati da una visione laicista e filonazista di contagio europeo (il Baath in Siria e Iraq, il gruppo dirigente palestinese del Gran Muftì Hussein, i Giovani Ufficiali di Nasser e Sadat, la Falange libanese, i Pahalavi in Iran), tutti destinati a prendere il potere, si sviluppano e radicano altre leadership improntate al conflitto-collaborazione con l’Europa, in una prospettiva di integrazione nella diversità (gli Hashemiti in Iraq e Transgiordania, il Waqf in Egitto, il Destour in Tunisia, l’Istiqual in Marocco).

A cavallo tra questi, la setta wahabita dei sauditi riesce a conquistare l’Arabia, dando vita ad un regno basato su una drammatica doppiezza: il più duro integralismo antioccidentale come ideologia sul piano interno, affiancato però alla più smaccata alleanza con l’Occidente sul piano internazionale e militare (da qui il brodo di cultura da cui nasce al Qaeda di Bin Laden, quando le due strade entrano in conflitto nel 1990-’91 con “Desert Storm”).

Esiste ed opera però, già a partire dalla fine degli anni Venti, un piccolo gruppo di religiosi con grande prestigio e seguito (Hassan al Banna e poi Sayyd Qutb e infine al Turabi, Sayyd al Mawdudi, Ruollah Khomeini), che in Pakistan, Iran, Egitto e Sudan elabora, spesso in maniera interdipendente, ma convergente nelle linee di fondo, una strategia di “ricostituzione del califfato” (inteso non tanto come ruolo personale, quanto come ricostruzione dell’unitarietà universale della comunità musulmana). Strategia improntata ad un “ritorno alle origini”, alla necessità di riprendere con rigore i paradigmi politici della prima comunità musulmana guidata da Maometto alla Medina, sulla base delle interpretazioni rigoriste e formaliste di Ibn Taymmiyya, filosofo integralista, vissuto a cavallo tra il Tredicesimo e il Quattordicesimo secolo. Tra questi, fondamentale è il rispetto formale, non evolutivo, meccanicistico, della shar’ia, la legge islamica, accompagnato dalla pratica del più rigido antisemitismo, in una visione degli ebrei quale quinta colonna dei politeisti, impregnati di jayllyyia (ignoranza empia), tipica della seconda fase della predicazione maomettana alla Medina (quando sgozzò 600 ebrei Banu Quraish, colpevoli solo di avere appoggiato politicamente, non militarmente, i suoi avversari).

Non si tratta naturalmente solo di un richiamo antiebraico astratto, ma del supporto ideologico che fa sì che la questione sionista (intimamente legata al fatto che gli ebrei hanno combattuto a fianco delle democrazie franco-inglesi, mentre tutti i palestinesi e gli arabi – esclusi gli hashemiti – hanno combattuto nel fronte delle autocrazie turco-europee), esca da subito dai binari del conflitto nazionale e venga considerata dalla leadership del Gran Muftì un impegno religioso, col territorio della Palestina considerato un Waqf, un lascito eterno di Allah all’Islam, sottratto quindi alla possibile mediazione politica e diplomatica (da questa rigidità teologica discendono le continue sconfitte palestinesi, il loro reiterato rifiuto di siglare mediazioni).

Ideologia e leadership

Abbiamo dunque la definizione di una nuova ideologia, i primi germi dello scisma che iniziano a maturare già negli anni Venti (nel 1928 Hassan al Banna fonda i Fratelli Musulmani in Egitto), che da subito si interseca con il conflitto israelo-palestinese che incredibilmente l’Europa e la sinistra pensano tuttora su basi nazionali, e che invece, da parte araba, è essenzialmente ideologico-religioso. Da qui, l’alleanza stretta tutta la leadership palestinese con il nazismo, che di nuovo viene equivocata in Europa tutt’oggi, perché la si pensa motivata da scelte tattiche provocate dagli scenari bellici, e invece era intrinsecamente omogenea sul piano ideologico, ivi compresi gli entusiasmi tutti teologici del Gran Muftì nei confronti della Shoà.

Terminata la guerra, questa componente estremista, fondamentalista, trascina il mondo arabo non solo al conflitto del 1948 con Israele, ma soprattutto impedisce alla cultura arabo-islamica di prendere atto della sconfitta e di rielaborarla politicamente. Da questa componente, va ricordato, discende anche la crisi perenne dell’Onu che si vede rifiutato – a tutt’oggi – da 18 paesi della Lega Araba su 23, l’atto fondante la nuova legalità internazionale post-bellica: la nascita dei due Stati, israeliano ed arabo, in Palestina, decretata dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

Seguono decenni in cui si consumano in pieno tutte le ideologie e le leadership che a partire dagli anni Venti avevano tentato la strada del laicismo nazionalista paranazista e che poi approfittano ampiamente della benedizione provvidenziale di “socialisti e progressisti” che l’Urss impartisce loro negli anni Cinquanta (Nasser in Egitto, sfiancato dalla pulsione di “distruggere Israele”, Numeyri in Sudan, Arafat e l’Olp, il Baath in Iraq e Siria, il Fln in Algeria). Intanto, i gruppi islamici ideologicamente estremisti si radicano sempre più, diventano sempre meno marginali, sia pure in maniera carsica, non avvertibile e non avvertita: i Fratelli Musulmani si espandono a macchia d’olio; Khomeini conquista il controllo di buona parte della gerarchia sciita; Mawdudi si radica nelle élite pakistane.

La svolta matura nel 1979, quando contemporaneamente si verificano due radicali cambiamenti di scena: in Iran crolla sotto i colpi di una rivoluzione di massa guidata da Khomeini il regime dello scià, mentre in Egitto, Sadat rinnega le basi ideologiche del nasserismo, ma anche dell’islamismo fondamentalista “delle origini”, non tanto facendo la pace con Begin (scelta tattica che anche l’Islam più radicale poteva ben accettare), ma soprattutto riconoscendo in pieno il diritto ad esistere dello Stato di Israele. Contemporaneamente, dunque, irrompono sulla scena dell’Islam due fenomeni sconvolgenti: una rivoluzione popolare che prende il potere (sino ad allora octroyé dalle potenze europee che avevano sconfitto l’Impero turco), e il più grande paese arabo che abbandona la pregiudiziale del rifiuto ideologico e teologico della possibilità degli ebrei di avere un loro Stato in Palestina. Sadat rende omaggio alla Knesseth (gesto sacrilego per tutti i capisaldi antiebraici della cultura legata alla “comunità maomettana delle origini” e al carattere sacro per l’Islam di Gerusalemme).

Di più, e fondamentalmente: la rivoluzione in Iran vince grazie al consenso universale – nuovissimo, un inedito anche nell’Islam – riscosso dalla pratica del martirio. È una rivoluzione non violenta – è difficile oggi ricordarselo – che letteralmente spacca il quarto esercito del mondo, che si sfarina durante la repressione sanguinaria di manifestanti che accettano di morire a migliaia, inermi. Da quelle giornate di Teheran del ’78-’79, dunque, il martirio islamico assume l’identico rapporto con la rivoluzione islamica che lo sciopero generale ha con la rivoluzione comunista. Così come non c’è rivoluzione comunista, tentata, riuscita o fallita, che non sia legata ad una strategia che si basa sullo sciopero generale, così l’unica rivoluzione islamica vittoriosa, quella iraniana, ha trionfato solo ed esclusivamente grazie ad una strategia basata sul martirio islamico.

Se non si ha presente questo legame, non si comprendono né la storia, né l’essenza del martirio islamico nell’era moderna. Non si coglie la straordinaria mutazione che la concezione del martirio nell’Islam vive dopo il 1979. Soprattutto non si capisce come e perché il martire musulmano, lo shahid, si trasformi all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, in un assassino di civili, in un terrorista. Dopo che per secoli era stato, come in tutte le religioni, un “testimone” della fede, cui offre il proprio sacrificio, la propria morte, diventa altro, si trasforma in un suicida-assassino, in una bomba umana che attraverso la propria morte moltiplica per mille la potenza omicida del tritolo che porta addosso.

La teologia del martire-assassino

Questa trasformazione da martire in suicida-assassino, in terrorista, non ha affatto origine – come si crede e si scrive – nella questione palestinese, non si innesta nella vicenda dei campi profughi, non nasce con la povertà, la miseria, la perdita della propria terra dopo il 1967, né come conseguenza del sottosviluppo in altri paesi islamici. La successione delle date e degli eventi chiarisce che il fenomeno è assolutamente ideologico, intrinseco allo sviluppo del radicalismo islamico e alla rivoluzione islamica trionfante con l’ayatollah Khomeini, in un contesto iraniano che nulla ha a che fare con Israele e la Palestina.

La verità storica si incarica anche di spiegarci che il terrorista islamico, suicida-assassino, nasce e si afferma non quale arma per combattere gli israeliani, o gli americani. Il cammino di questo contagio di morte è invece inverso: il suicida-assassino, lo shaid-killer, il civile che – uccidendosi – fa strage di civili innocenti, viene “inventato” come strumento di lotta politica tutto interno alla società islamica, come arma formidabile di musulmani per uccidere musulmani (re Abdallah di Giordania lo sa bene). Arriva in Israele e nei Territori molto tardi, dopo 13 anni dalla sua apparizione, dopo avere seminato di morte centinaia e centinaia di piazze musulmane, soprattutto in Afghanistan, Egitto, Libano e Algeria. Arriva con l’attentato di Afula, del 6 aprile 1994, che è organizzato da Hamas per impedire, come i tanti che lo seguono (facendo centinaia di vittime prima del 2000, della seconda Intifada), gli accordi Arafat-Rabin. Il martire-assassino palestinese, dunque, compare in Israele per combattere contro la logica dei “due popoli-due Stati”, a clamorosa smentita di tutte le tesi giustificazioniste che ancora oggi si sentono in Europa nei confronti del terrorismo palestinese.

Ma non si tratta – come comunemente si crede – solo di un arma, di uno strumento di lotta, di una nuova e micidiale tecnica terroristica: è invece parte integrante nel progetto di società islamica nella sua versione fondamentalista. Una società in cui trionfa il culto della morte, base della concezione teocratica e militaresca del proselitismo come del vivere comune. La stessa codificazione teorica e teologica del nuovo shahid-killer, la sua collocazione all’interno di una visione moderna della Guerra Santa, della jihad, avviene in ambito esclusivamente musulmano, quale connotato qualificante del nuovo scisma islamico, tanto che il primo esempio storico, il primo attentato in cui questi appare è l’uccisione dell’ayatollah di Tabriz ad opera dei Moejjhaedin del Popolo (la “sinistra” rivoluzionaria iraniana, emarginata da Khomeini) in una data che appare incredibile: l’11 settembre 1981! A quell’attentato ne seguiranno decine d’altri, sempre con la tecnica dell’attentatore imbottito di tritolo.

Il martire-assassino nasce come strumento di lotta politica tutta interna alle società islamiche iraniana, egiziana, afgana, libanese e algerina. Solo alla fine del suo rapidissimo percorso espansivo dentro l’Islam, arriva ad Israele. La teologia del martire-assassino nasce per santificare l’uccisione di un musulmano da parte di un altro musulmano, naturalmente dopo che il primo è stato degradato ad “empio ed apostata”, con la specifica condanna di rito, il takfir. Il tutto, shahid e jihad, martirio e guerra santa, nel nome di una strategia di un obbiettivo religioso preciso: imporre ovunque l’applicazione della shar’ia, la legge islamica. I sensi di colpa che alcuni commentatori hanno voluto risvegliare vuoi nell’Occidente vuoi negli Stati Uniti vuoi in Israele per avere, con la loro azione “imperialista”, “meritato” tante devastazioni da parte dei martiri-assassini, non hanno ragion d’essere.

Punire i corruttori dell’Islam

La logica assassina del moderno “martirio islamico” non nasce infatti assolutamente come risposta ad azioni “imperialiste”, ma si afferma come strumento per punire l’apostasia, “la corruzione dell’Islam”, la jiayllhyya (l’ignoranza in cui trionfa il caos pagano e politeista pre-islamico) di musulmani nei confronti di altri musulmani. Tutta la vicenda – moderna, assolutamente nuova alla tradizione islamica – della comparsa del fenomeno martire-assassino è dunque racchiusa dentro la storia della rivoluzione iraniana, dentro l’affermazione politica delle dottrine dell’ayatollah Ruollah Khomeini, dentro il movimento popolare che contrappone il movimento rivoluzionario islamico e il regime dello scià e poi dentro lo scontro che lacera le forze rivoluzionarie islamiche vincitrici.

Dopo il 1979, ben al di là dei confini della comunità sciita, tutto l’Islam, compresa la sua componente sunnita, ma anche quella salafita (wahabita) e tutti gli altri mille scismi sono coinvolti e convinti dalla strategia rivoluzionaria che si impone in Iran e dalla Repubblica Islamica teocratica che viene instaurata. Il martirio, la disponibilità di centinaia di migliaia di iraniani a subirlo per abbattere lo scià, è l’arma segreta che Khomeini manovra per piegare e sconfiggere uno dei più moderni ed efficaci apparati repressivi del mondo: l’esercito dello scià. Il martire-assassino, lo shahid-killer è la sua immediata evoluzione e nasce e viene impiegato nel sanguinoso regolamento di conti che attraversa la dirigenza rivoluzionaria iraniana nei primi due anni dopo la vittoria. È tutta interna alla rivoluzione iraniana, a fronte della guerra con l’Iraq, anche la seconda evoluzione del martire islamico (dopo la sua trasformazione in arma di assassinio), che porta allo sconvolgente proselitismo di bambini plagiati e trasformati in suicidi-killer. Con un effetto contagioso in tutto l’Islam, anche quello sunnita, in cui lo scisma si afferma con straordinario vigore. Di nuovo è l’ayatollah Khomeini in persona a introdurre questa teoria-prassi dell’Islam rivoluzionario, a spronare centinaia di migliaia di ragazzini dai dodici anni in su a suicidarsi-uccidendo sul fronte dell’Iraq (molte testimonianze iraniane entusiastiche parlano anche di bambini di dieci anni, di intere classi “martirizzate”).

Nell’arco di pochi anni, tra il 1978 e il 1982, si definisce dunque uno sviluppo del martirio islamico nell’alveo del pensiero politico fondamentalista che, come si diceva, ha la stessa centralità che la teoria e la prassi dello sciopero generale hanno avuto per la rivoluzione comunista. Lo sviluppo della jihad contro l’invasione sovietica in Afghanistan, l’afflusso di combattenti da tutti i paesi arabi e islamici, radicano, esaltano e contemporaneamente assicurano una rapida e generalizzata diffusione di questo modello in tutti i settori della umma.

L’internazionalismo terrorista

La dottrina e la prassi insurrezionaliste hanno alle spalle una lenta, secolare evoluzione, dalle iniziali manifestazioni luddiste agli scioperi disperati e difensivi delle prime industrializzazioni, su su fino agli scioperi generali, ai dibattiti della prima Internazionale, al sorelismo, all’anarco-sindacalismo, alle insurrezioni, alla rivoluzione leninista. Momento centrale in tutta l’architettura rivoluzionaria del movimento operaio europeo, lo sciopero generale, non solo rappresenta uno strumento che può evolvere in insurrezione, che può assumere, come pochi altri, valenze eversive. Lo sciopero generale è il metodo principale della lotta rivoluzionaria del movimento comunista, soprattutto perché prefigura in sé il rifiuto del sistema di produzione capitalistico e l’esercizio del potere, del dominio operaio e proletario sulla società. È uno strumento di lotta, la cui applicazione evoca e illustra la nuova legge, l’ordine nuovo che reggerà la società comunista.

Tutto è rapido e compresso, invece, in ambito islamico, come se la lenta, secolare, incubazione del fondamentalismo dentro il grande e lento fiume del quietismo politico-religioso, abbia poi prodotto un’accelerazione incredibilmente urgente e sincopata. Ma anche qui lo strumento prescelto per conseguire la vittoria rivoluzionaria in Iran (con lo sciopero generale che blocca il paese per mesi, ma non è determinante affatto per la vittoria), il martirio islamico, la shahada, contiene in sé gli elementi portanti della nuova società che l’Islam rivoluzionario prefigura. Una società retta sulla shar’ia, in cui il ruolo del singolo, della persona, è costantemente subordinato alle esigenze della società, in cui l’uno e l’altra sono attraversate dalla normalità onnipresente della morte. Morte ricevuta e morte data.

Morte come strumento per raggiungere il Paradiso, la salvazione, la felicità eterna. Morte bramata. Morte agognata.«Voi amate la vita, noi amiamo la morte». Questa dinamica, si badi bene, trova un suo punto di contatto immediato tra Iran ed Egitto, tra rivoluzione iraniana e nascita del terrorismo islamico, a partire dall’ospitalità ed aiuto che Sadat offre allo scià Reza in esilio. Non è un punto di contatto casuale, perché lega due atti di terrorismo: l’occupazione della ambasciata Usa a Teheran con la presa in ostaggio dei diplomatici (legata proprio ai beni dello scià e al suo esilio protetto in Egitto) e l’uccisione di Sadat, il 5 ottobre del 1981, data che segna indiscutibilmente l’inizio del cammino trionfante del terrorismo islamico.

Gli attentatori di Sadat superstiti alla strage, tra cui il braccio destro di Bin Laden, al Zawahiri, danno vita infatti in tribunale ad un surreale dibattito teologico con la corte, in cui spiegano la loro teoria che li porta a dover uccidere i governanti takfir, apostatici dell’Islam, là dove Sadat si è macchiato di questa colpa per avere riconosciuto il diritto degli ebrei a disporre di un territorio sacro che Allah avrebbe invece destinato all’Islam, sino al Giudizio Universale. Contemporaneamente a questi fatti, Sayyd Mawdudi, riesce a inserirsi nella crisi pakistana e assieme a Zia ul Haq riforma in senso integralista tutto il vertice dello Stato, a partire dal quadro dirigente militare, portando l’intero Pakistan nell’ambito del “fondamentalismo praticato”, elemento fondamentale per la maturazione in senso estremista della crisi afgana.

Negli anni Ottanta, dunque, quella che era incubata per cinquant’anni come una marginale deviazione ideologica nei paesi arabi, ma che era pur sempre riuscita a condizionare nell’intransigenza araba (e nel terrorismo) la crisi israelo-palestinese, diventa altro: irradia la sua leadership (anche organizzativa, attraverso Hezbollah) a partire dal “Comintern sciita di Teheran”, ramifica le sue cellule in tutte le società arabe, fa opera di proselitismo combattente sulle montagne di un Afghanistan che l’Urss ha invaso, non a caso, dopo la fine del regime dello scià.

Ad una rivoluzione popolare vittoriosa, fa infatti immediatamente seguito una guerra di resistenza contro l’invasore sovietico che mobilita una sorta di “Brigate Internazionali” dell’Islam, che naturalmente sono costituite dagli elementi più radicali, più vicini alle tesi fondamentaliste, anche se con una spiccata formazione bellicista “partigiana”. Si forma così una generazione di “militari irregolari dell’Islam” che si convince che “il potere sta sulla canna del fucile”, che ha solo una infarinatura ideologico-religiosa, che è ben simboleggiata dalla coppia Osama Bin Laden-Mullah Omar (due nullità dal punto di vista teologico, ma grandi leader di guerriglia) e che, purtroppo, vince. Vince non solo in Afghanistan, dove l’Armata Rossa subisce continui rovesci militari, ma vince addirittura – nell’immaginario collettivo islamico – a Mosca. Dal punto di vista dell’Islam, anche di molti moderati, il crollo dell’Impero sovietico va infatti ascritto alle armi dei combattenti islamici dell’Afghanistan, non alla vittoria Usa della Guerra Fredda. Un incredibile equivoco, ma radicato come non mai.

L’estremismo islamico dunque, nell’arco di dieci anni, conquista due invidiabili vittorie: umilia il “capitalismo liberale” Usa in Iran, sconfigge l’Armata Rossa a Kabul, e addirittura favoleggia di avere distrutto il “comunismo ateo” facendo esplodere l’Urss. Una progressione di successi – dal punto di vista musulmano – che spiega l’incredibile popolarità del fenomeno estremista. È poi importante, fondamentale – ma quasi sempre dimenticato – notare che la tappa successiva alla sequenza Iran-Egitto-Afghanistan, in cui Jihad e martirio si intersecano e trionfano, con immediate ricadute terroristiche, è l’Algeria. Questo è un paese che ha risolto trionfalmente la sua questione nazionale umiliando la Francia, è potenzialmente ricchissimo, è totalmente estraneo alla sfera d’influenza Usa, non si è mai minimamente occupato del conflitto arabo-palestinese. Ma è qui che tutte queste tensioni ideologico-politiche divampano.

Qui la rivolta jihadista è stata contenuta, sconfitta, i suoi leader imprigionati e umiliati, ma il fenomeno non è stato affatto estirpato nonostante l’immensa strage, si è cronicizzato, radicato, si è trasferito ad altri tipi di conflitto, come quello etnico con i berberi di Kabilya, e sta divorando dall’interno la vita della nazione. Contemporaneamente all’avvio della guerra civile algerina, il grande trauma: “Desert Storm”, la guerra arabo-americana contro Saddam Hussein per liberare il Kuwait annesso all’Iraq. Qui tutto si prende, tutto si tiene. Qui nasce al Qaeda, qui i “partigiani” afgani si sentono traditi, qui salta il grande inganno, il patto “blasfemo” che garantisce la vita della dinastia saudita. Il vulnus provocato nell’immaginario estremista dalla presenza di militari Usa con la croce al petto (e anche la stella di Davide), riporta, di nuovo, alle origini maomettane della società musulmana. Il quarto califfo, Omar, decretò infatti che il territorio della Mecca e della Medina, doveva essere haram, puro di cristiani ed ebrei, questo perché le due comunità dovevano essere coranicamente “umiliate” nel ruolo di dimmi, pagando una “tassa di sottomissione”, nelle società islamiche, ma erano comunque inaffidabili “quinte colonne” della cultura e delle armate “politeiste”. Con “Desert Storm”, invece, emerge lo scandalo: il regno dei “Custodi della Mecca”, accompagna la sua intransigenza fondamentalista della fede con un patto sacrilego in cui affida la sua difesa a “crociati e ebrei” con cui combatte un paese arabo e musulmano: l’Iraq di Saddam Hussein.

Nella sconfitta kuwaitiana, si consuma dunque la parabola della distinzione tra “laicismo” panarabo che perde (e Arafat viene sconfitto, di nuovo, a fianco del suo alleato Saddam) e fondamentalismo islamico che trionfa e che ora si schiera al fianco dei “laici” sconfitti. Il fenomeno appare evidente in Palestina, dove il corpo della “laica” al Fatah passa rapidamente, proprio a iniziare dal ’91, sotto l’egemonia politica e terroristica di Hamas ed Hezbollah e i militanti di Arafat diventano cultori della pratica dei martiri-assassini. Oggi, dunque, i terroristi islamici hanno esattamente lo stesso referente culturale composto da una nuova triade concettuale che è l’asse portante di uno scisma religioso: guerra santa-martirio-imposizione universale della Legge Coranica, jihad-shahada-shar’ia.

’Wala, una bellissima ragazzina palestinese, in un talk-show mandato in onda dalla televisione dell’Anp (il “martirio” stragista è propagandato senza scrupoli nella televisione ufficiale palestinese) il 9 giugno del 2002, così risponde, senza esitazioni, al presentatore che le chiede: «È meglio: la pace e i pieni diritti del popolo palestinese o il martirio?». «Il martirio!» è la sua risposta immediata e spiazzante, a cui segue la spiegazione, come da catechismo del nuovo scisma: «Otterrò i miei diritti dopo essere divenuta martire!». Nella sua spontaneità e nella piena soddisfazione del presentatore palestinese, troviamo la conferma dell’inadeguatezza di tutte le spiegazioni correnti sul terrorismo islamico e ancor più sullo specifico terrorismo palestinese.

La base fondamentale, il movente del terrorismo non è dunque la questione nazionale palestinese, non è l’occupazione dei Territori da parte di Israele dopo il 1967, non è neanche – e sembra un paradosso – la stessa contestata esistenza dello Stato di Israele su territorio dell’Islam, non è la miseria, la povertà dei popoli arabi (tra i più ricchi del mondo, peraltro) e tutte le piccole motivazioni meccaniciste ed economiciste della pubblicistica comune.

La soluzione finale

La base reale del terrorismo islamico, anche nella sua componente palestinese è un’altra: è una visione del mondo in cui la morte assume un valore finalistico totalizzante ed assoluto. In cui la morte è angelicata. In cui la morte è agognata perché è fonte di conoscenza (Gnosi) e quindi di perfezione per la persona umana, e vede moltiplicati nell’Eden i suoi effetti positivi se trascina con sé – precipitandola negli Inferi – la morte dell’empio, dell’apostata, dell’ebreo, dell’americano, del cristiano. Nella sua ingenuità la piccola palestinese ‘Wala, riassume tutti questi concetti e dà loro la forza del messianesimo infantile, del mito dell’eterna giovinezza, quando chiude la sua risposta con un ineffabile: «Noi vogliamo restare ragazzi per sempre!». Questo è il martirio, per questo ‘Wala si associa con entusiasmo alla celebrazione della strage della martire-assassina Ayyat al Akhras, che ha ridotto a pezzi una giovane adolescente ebrea di 17 anni, Rachel Levy e una guardia privata, per mantenere in eterno la sua purezza di ragazza.

Nell’ideologia del martirio, che dello scisma in atto è l’architrave, è totale ed assoluta l’identificazione tra purezza paradisiaca e morte violenta con assassinio di civili innocenti, di vecchi, di minori, di donne inermi. Mai, a memoria d’uomo, la centralità della morte e dell’uccisione di esseri umani, è stata così forte e con tanti consensi in un’ideologia di massa.

Nel fascismo e soprattutto nel nazismo il culto della morte è onnipresente, ma sempre come passaggio indispensabile per l’esplicitazione della volontà di potenza. Per il nazista e per il fascista il rischio della propria morte è una sfida irridente, ma non un appuntamento ambito. Assolutamente convinto della necessità di dominare ed eliminare gli untermenschen, i sotto-uomini, il nazismo però non arriva mai a teorizzarne apertamente, pubblicamente, ufficialmente la necessità di eliminazione fisica. La stessa strage degli ebrei, la stessa Shoà, è attuata e praticata, ma sempre in qualche modo occultata dai carnefici, relativizzata, persino nei documenti ufficiali interni, persino nei verbali della Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 in cui Heydrich, Eichmann e gli altri gerarchi nazisti varano la “Soluzione Finale”.

Nelle parole degli imam palestinesi, invece, la morte propria e la morte altrui sono spesso l’obiettivo, la mèta, il fine agognato del fedele, addirittura del giovane fedele, del ragazzino, del bimbo. Né questo è un Islam marginale, eccentrico, condizionato dalla tragedia israelo-palestinese. È sicuramente un Islam minoritario, ma dai consensi rapidamente crescenti e soprattutto radicato ovunque. Anche in Europa. Anche in Italia.

31 maggio 2004

 

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