Terrorismi d’Europa
di Giuseppe De Bellis
da Ideazione, maggio-giugno 2004

«La storia – disse Stephen – è un incubo da cui cerco di destarmi». Un giorno qualcuno dovrà spiegare a Stephen dell’Ulisse di James Joyce perché il brutto sogno era solo all’inizio. Perché la merita una risposta. Perché tutti la meritiamo. Perché bisogna capire che cosa, per più di mezzo secolo, ha fatto pensare che ci fosse un terrorismo buono. Dovranno dirci, insomma, perché l’Ira irlandese, l’Eta basca, le Farc colombiane erano “eserciti di liberazione” non per la loro gente (che sarebbe logico e in un certo modo comprensibile), ma per le masse di mezza Europa, simpatizzanti di un nazionalismo e di un indipendentismo che ispirava consensi e ammirazione solo perché alla fine non toccava nessuno fuori da certi confini. È più di una soddisfazione storica comprendere perché i 3700 morti dei Troubles dell’Ulster, le 900 vittime della guerra strisciante Paese Basco-Spagna, hanno dovuto aspettare al Qaeda, l’11 settembre 2001 e l’11 marzo 2004 per meritare una riflessione.

Ce lo siamo tenuto dentro il terrorismo, nel cuore dell’Europa, nostro come facce e lingue, ma l’abbiamo scoperto davvero quando parlava della morte dell’Occidente. Eppure dal 1969, almeno in Gran Bretagna qualcosa è accaduto: Troubles, tumulti, termine con cui la storia ha imparato a chiamare il conflitto nord-irlandese combattuto dalle milizie paramilitari dell’Esercito repubblicano irlandese, (l’Ira appunto) e i soldati inglesi. Nell’introduzione della Storia segreta dell’Ira, Ed Moloney scrive: «I Troubles dell’Irlanda del Nord hanno una qualità che ha contrassegnato la violenza in quei luoghi come speciale, nessuno poteva realmente vederne la fine. Al tempo del primo cessate il fuoco dell’Ira, nel 1994, i Troubles duravano da un quarto di secolo. Altri conflitti sarebbero esplosi, avrebbero raggiunto il proprio apice e quindi si sarebbero spenti, i loro nomi presto dimenticati, ma le bombe e le sparatorie a Derry e Belfast sembravano dover durare per sempre. Più di 3.700 persone furono uccise durante le violenze, una media di due persone a settimana. Quasi lo stesso numero di persone morirono in un paio d’ore l’11 settembre 2001, a Manhattan, ma concludere che i Troubles furono uno scherzo sarebbe un errore. Se un simile conflitto si fosse consumato negli Stati Uniti, il numero equivalente di vittime sarebbe stato di oltre seicentomila persone».

Le compiacenze verso Eta e Ira

Una guerra che oggi è silenziosa, appesa a una tregua sempre costantemente a rischio, ma almeno esistente e formale. Quello che non c’è invece nel Paese Basco, dove i terroristi di Euskadi Ta Azkatasuna le armi non le hanno deposte ancora. E non promettono di farlo. Eta-Ira, ovvero il nazionalismo armato che ha sconvolto un continente, trovando complici (come la Libia nel caso degli irlandesi) oppure un sottile compiacimento da parte delle masse, delle piazze, di alcuni partiti e gruppi politici che identificavano la guerra di baschi e nord-irlandesi come la lotta degli oppressi. Hanno attirato simpatie per decenni i terroristi, passando spesso per quelli che in fondo avevano ragione, sbagliavano magari nella forma, ma alla fine erano legittimati dall’assenza di alternative.

C’è ancora oggi qualcuno che giustifica, che difende, che puntualizza. S’è visto subito dopo gli attentati di Madrid: «Non può essere l’Eta, non è mai stata così feroce», con quel tono di assoluzione preventiva per un gruppo che al di là dell’accertata estraneità alle bombe dell’11 marzo, ha comunque fatto più di 850 morti in trent’anni. Ed è vero: mai aveva mirato così nel mucchio il terrorismo basco. Ma gli incappucciati che sconvolgevano i palinsesti televisivi per annunciare il prossimo colpo e il prossimo morto non scherzavano. Non l’hanno mai fatto: basti vedere la storia di fuoco, fatta di omicidi a bruciapelo contro gli avversari, fossero poliziotti, magistrati, giornalisti. Così come neppure una volta ha scherzato l’Ira, nata per riportare un paese all’unione, per riunire un popolo unico diviso da un accordo scellerato, ma poi diventata un’organizzazione che ammazzava innocenti, che distruggeva anche al suo interno chi soltanto poteva aver avuto un contatto con gli inglesi. Anche se fosse stato uno di famiglia. Perché “la causa” era più importante della vita.

Diversi, ma per molti versi affini i terroristi dell’Irish republican army e gli etarra baschi hanno avuto rapporti tra loro e con altri gruppi armati. Quando l’Eta era neppure un embrione, l’Ira aveva già un’organizzazione militare forte e radicata: mezzi, cervelli, braccia per la sua battaglia contro la Gran Bretagna. Non fu un caso che tra i fondatori della violenza Euskadi ci fosse Iker Gallastegui. Per diversi anni questo figlio della nazione basca aveva vissuto in Irlanda entrando in contatto con l’Ira. Erano gli anni Cinquanta. Nel 1952, alcuni studenti e intellettuali delle province di Vizcaya, Alava e Guipuzcoa diedero vita al gruppo clandestino Ekin (Fare). Sei anni dopo avrebbero rotto i rapporti con il Partido national Vasco, anima politica dell’indipendentismo: era troppo morbido, troppo remissivo nei confronti del regime di Francisco Franco. Risultato: nel 1959 nacque l’Eta. Il suo manifesto programmatico la definiva un’organizzazione apolitica, aconfessionale, democratica, schierata in difesa dell’autodeterminazione, fautrice dei diritti dell’uomo come cittadino e come lavoratore. Cambierà molto nella sua vita il gruppo. La politica diventerà fondamentale: appoggio alla lotta operaia e di classe. Poi una nuova scissione intestina riporterà le parole e i sogni fuori dagli schemi per inseguire soltanto la guerra al nemico spagnolo.

Una storia simile a quella dell’Ira. Quando comparve per la prima volta “l’Esercito” aveva come fondamento la religione. Cattolica, ovviamente, perché dall’altra parte l’avversario era protestante, era straniero, era una corona colonialista e usurpatrice. Ma come per l’Eta l’avvicinamento alla classe operaia segnò il punto fondamentale della storia dell’Army. Nel 1969, la crisi interna al movimento portò la divisione: da una parte la Provisional Ira, di stampo socialista e cattolico, improntata su una struttura fortemente militaristica. Dall’altra parte l’Official Ira, di stampo marxista e ateo, sosteneva la necessità del supporto della classe operaia protestante puntando sull’importanza della lotta in campo politico e sociale. Le analogie non sono soltanto nell’evoluzione. Anzi, la prima, principale e fondamentale è nell’appoggio, nel consenso silenzioso su cui le organizzazioni hanno contato per decenni. Nell’Ulster si è accertato che almeno diecimila persone abbiano fatto parte dell’Ira nella fase calda dei Troubles. Una massa enorme, ma assolutamente minima rispetto al numero di quelli che non facevano parte dell’organizzazione, ma l’approvavano, la sostenevano, la finanziavano. Il cinema e la letteratura l’hanno spiegato soltanto in parte: quando un militante era inseguito, braccato dalla polizia britannica, aveva sempre un rifugio pronto per lui. Sapeva di poter contare anche sulla gente comune.

Un rebus complicato nel cuore d’Europa

Succedeva non solo a Belfast, Derry, Armagh. Stesso discorso anche per Bilbao, per Hernani, San Sebastian: un etarra in difficoltà non era mai solo. È questo che per anni ha fatto della questione nord-irlandese e di quella basca un rebus complicato: l’humus in cui sguazzava la violenza era fatto di reticenze e di livore, di generazioni di persone imbevute d’indipendentismo. Fosse la Regina o il dittatore Franco, il nemico. E chi combatteva i gruppi armati non poteva mettere agli arresti un popolo intero. Ci hanno provato sia gli inglesi sia gli spagnoli. Ed è stata una scelta pessima. Le leggi speciali approvate dal parlamento di Westmister, quando l’Ira piazzava autobombe ogni giorno, permettevano di internare chiunque fosse soltanto sospetto. In prigione finirono tutti: anziani, donne, adolescenti. La conseguenza fu che l’Ira diventò l’unica forma di protezione: «Se devo andare dentro, tanto vale farlo ammazzando un inglese». La storia di Giuseppe e Gerry Conlon, diventata il film Nel nome del padre di Jim Sheridan è un esempio tipico. C’erano centinaia di persone estranee alle bombe torturate e catturate quasi senza motivo. Era la punizione, era l’insegnamento per gli altri.
Uguale trattamento per i baschi. Il momento peggiore per la Spagna coincise con il processo di Burgos (1970), quando il regime franchista condannò 15 persone ritenute di essere militanti dell’Eta. Nove condanne erano a morte, contro sei imputati. Il pugno di ferro provocò un’ondata di proteste e di scioperi generali che non fecero altro che aumentare l’appoggio verso i “combattenti”. Franco considerava mezza provincia affiliata ai terroristi. Strinse la cinghia all'inverosimile, ma il numero dei fiancheggiatori salì per davvero, così come crebbe la forza e l’autonomia dei più violenti, fino a portare l’organizzazione a compiere l’attentato più importante e dimostrativo della sua storia. Ecco, il 20 dicembre del 1973, a Madrid l’Eta fece saltare in aria l’auto dell’ammiraglio Carrero Blanco, capo del governo franchista e successore già designato del Caudillo.

«Bisogna conoscere il nemico che si ha di fronte. Non c’è una strategia unica per combattere il terrorismo. In passato sono stati fatti molti errori. Hanno tentato di battere i gruppi armati soltanto con la repressione e non c’è stato risultato. Poi, per esempio in Irlanda del Nord, l’Ira è stata contrastata davvero quando da un lato il governo britannico ha cominciato a fare concessioni politiche, dall’altro è andato a scovare uno per uno i vertici dell’organizzazione». L’analisi è di Louise Richardson, responsabile dell’istituto Radcliffe e principale esperta di terrorismo e sicurezza internazionale dell’Università americana di Harvard.

Strade divergenti per baschi e nord-irlandesi

È andata così in Ulster, dove l’Ira ha dichiarato il cessate il fuoco nel 1994 e l’ha rispettato per dieci anni. Almeno quelli della Provisional, ovvero il nucleo principale. Resta la Real Ira, il gruppo di reduci violenti e nemici della pace che proprio subito dopo la firma dell’armistizio fece scoppiare una bomba a Omagh uccidendo 38 persone. È andata così perché probabilmente il partito nazionalista Sinn Feinn, guidato da Gerry Adams, ha iniziato alla fine degli anni Ottanta un lungo processo di evoluzione che in più di un’occasione ha portato il “braccio politico dei terroristi” a chiedere scusa, a distaccarsi, a disarmare le unità e i battaglioni. È andata così perché per primo proprio Adams, ex capo della Brigata Belfast Ovest e quindi di un settore fondamentale, ha abbandonato la lotta e oggi è il principale artefice per parte irlandese del progetto di pace firmato con l’Accordo del Venerdì Santo del 1998. È andata diversamente nei Paesi Baschi. In Spagna la scelta dell’accordo politico non ha pagato. Ci sono stati due tentativi, ma sono falliti. E allora il governo popolare ha lanciato la più grande campagna antiterroristica che il paese potesse ricordare. È stata un’operazione enorme. Da un lato la messa al bando del partito Herri Batasuna, l’equivalente Euskadi del Sinn Feinn, dall’altro l’azione di polizia. Uno per uno sono caduti in trappola i responsabili delle sezioni logistica e militare dell’Eta. Erano tutti in Francia, laddove per troppo tempo avevano goduto di una specie d’immunità. José Maria Aznar è stato il primo premier di Madrid riuscito a convincere Parigi che bisognava collaborare. Alla fine del 2003, il ministro degli Interni spagnolo Angel Acebes l’ha detto: «Abbiamo decapitato l’Eta». Non era solo uno slogan: in pochi giorni la polizia ha messo dentro Gorka Palacios, responsabile dei gruppi di fuoco dell’organizzazione e Inaki de Renterìa, detto “Susper”.

Avevano partecipato ad un vertice per la ripresa dell’attività armata. Poi ci sono state la strage dell’11 marzo e le elezioni. La morsa attorno agli Etarra non si è fermata. L’ultimo arresto è stato quello di Felix Lopez, detto “Mobutu”, praticamente uno dei due capi supremi dell’organizzazione. Oggi resta soltanto un leader storico in libertà, l’altra “testa” della violenza Euskadi: Mikel Albizu, nome di battaglia “Antza”. A lui fanno riferimento l’apparato politico e quello finanziario. Preso lui l’Eta diventerebbe una lucertola senza testa: viva, ma definitivamente monca. Il problema è che non sarebbe morta. Come non è morta l’Ira. Imbavagliata, arginata, emarginata. «Il terrorismo non si può sconfiggere – avverte Louise Richardson – è una pura utopia. L’avete visto in Italia: pensavate che le Brigate Rosse appartenessero al passato. Poi vi siete svegliati e avete trovato altre vittime, altre minacce, altra paura. Sarà così ovunque: il terrore non finisce, nessuno potrà impedire a qualcuno di procurarsi un po’ di Semtex, un candelotto di dinamite, una pistola, una mitraglia e tornare a colpire».

31 maggio 2004

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