Iraq: una ricostruzione lunga e difficile
di Rodolfo Bastianelli

Il problema di ogni conflitto non è tanto la vittoria quanto amministrare con successo il processo di ricostruzione politica ed economica del paese ed il difficile dopoguerra che sta vivendo l'Iraq non fa che confermarlo. Tuttavia nel caso iracheno per rimediare agli errori commessi nella gestione della crisi vengono avanzate una serie di proposte e soluzioni, spesso presentate solo per ragioni ideologiche o di consenso elettorale, che non solo non migliorerebbero la situazione ma con ogni probabilità costituirebbero un rimedio ancora peggiore.

Il primo errore compiuto dagli Stati Uniti è stato quello di non aver avviato un piano che favorisse il dialogo tra le diverse componenti religiose del paese. Le situazioni della Bosnia e del Kosovo, dove tra i vari gruppi nazionali oggi di fatto non esiste alcun rapporto, dimostrano come senza la ricostruzione del tessuto sociale e della società civile l'azione militare non basti a riportare la stabilità e la sicurezza. Ad ormai cinque anni dalla conclusione del conflitto in Kosovo ed a nove dalla firma degli accordi di Dayton, quello che si sta delineando nei Balcani non è infatti un processo di pace ma semplicemente una tregua illimitata garantita solo dalla presenza di un contingente internazionale.

Un altro elemento che ha contribuito a rendere ancora più complicata la transizione è stato poi quello di non disporre di un ricambio in grado di rappresentare una valida alternativa al regime di Saddam Hussein. A differenza di quanto accaduto in Afghanistan, dove esistevano dei gruppi di opposizione che contavano sull'appoggio di settori della popolazione locale, in Iraq Washington poteva fare affidamento solo su personalità da tempo residenti all'estero e che non disponevano di un effettivo seguito nel paese. Questo ha costretto l'amministrazione americana ad appoggiarsi o sui leader religiosi o cui capi tribali, senza contare che la stessa decisione di dissolvere l'esercito e la struttura amministrativa del precedente regime baathista ha fatto apparire agli occhi di molti iracheni l'autorità di governo provvisoria istituita dagli alleati più come una forza d'occupazione che non di liberazione. Va poi sottolineato come forse il Pentagono ha sottostimato il numero di forze militari necessarie per controllare il territorio e le capacità di resistenza della guerriglia irachena.

Tutto questo però non giustifica assolutamente la tesi di chi sostiene che l'unica soluzione è quella di un ritiro immediato dall'Iraq. Sarebbe utile che qualcuno spiegasse ai sostenitori del “tutti a casa” che un disimpegno militare non aprirebbe la strada alla ricostruzione, ma significherebbe o l'implosione dell'Iraq - con la probabile nascita di uno Stato teocratico sciita a sud ed un intervento armato turco al nord per impedire la formazione di un'entità autonoma curda - o il collasso di ogni autorità esistente e la trasformazione del paese in una terra di nessuno controllata dai gruppi terroristici. Irrealistica appare poi l'ipotesi di sostituire le truppe americane e britanniche con quelle di nazioni che non hanno preso parte al conflitto o provenienti dagli Stati arabi. Al di là del fatto che solo pochi paesi dispongono di eserciti con le capacità ed i mezzi tecnici adatti per impegnarsi in Iraq e sostituire validamente i reparti inviati da Londra e Washington, nessuno di questi sarebbe comunque in grado di mobilitare un numero di uomini pari a quello impiegato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.

Allo stesso modo pensare che i paesi arabi nel momento in cui attraversano una difficile fase politica e si trovano a fronteggiare al loro interno l'azione dei fondamentalisti islamici partecipino alla missione con dei propri contingenti militari è quantomai improbabile. L'ultima considerazione riguarda la presunta maggiore autorevolezza che avrebbero le Nazioni Unite nel gestire le crisi internazionali. I veti opposti da Pechino alle missioni in Macedonia e Liberia perché questi paesi avevano rapporti diplomatici con Taipei, i silenzi sulle repressioni in tante aree del mondo dettate da ragioni di convenienza politica ed i fallimenti delle missioni in Ruanda e Bosnia dovrebbero far riflettere sull'efficienza e la credibilità dell'organizzazione. Portare la democrazia in Iraq sarà un compito lungo, difficile e pericoloso. Pensare di riuscirci con le manifestazioni e gli slogan è solo un'illusione che non aiuta nessuno.

20 maggio 2004
 

stampa l'articolo