Bocciato il piano ma Sharon va avanti
di Stefano Magni
Il piano di Sharon è stato bocciato a larga maggioranza dalla base del
Likud, ma va avanti lo stesso, con o senza il consenso di quelli che
sono i diretti interessati: i coloni israeliani della striscia di Gaza e
i membri del partito di maggioranza. Sharon aveva indetto il referendum
di domenica 2 maggio per tastare il terreno sul consenso del suo stesso
partito sul piano di disimpegno, che prevede l’evacuazione delle colonie
israeliane nella striscia di Gaza. Il 56 per cento secondo gli exit poll
più pessimisti o il 62 per cento dei votanti, secondo altri exit poll,
ha optato per il “no”. Sharon non demorde: il piano deve andare avanti.
I suoi motivi? Quella che ha votato è in realtà una minoranza e non
riflette la volontà della popolazione israeliana: ai seggi si è
presentato il 51 per cento dei membri del Likud, quindi una maggioranza
risicata all’interno di uno solo dei due grandi partiti israeliani. “Io
so che la maggior parte degli Israeliani condividono il mio piano. Io so
che provano, come me, un forte senso di amarezza per i risultati del
referendum. Abbiamo giorni difficili davanti a noi, in cui scelte
difficili devono essere compiute”. Anche se le cifre gli danno ragione,
Sharon non riesce a nascondere il fatto di aver subito una sconfitta:
cercava una legittimazione della base alla sua politica e non l’ha
avuta. Il suo vice primo ministro, Ehud Olmert insiste con la politica
del ritiro da Gaza, considerandola uno “sforzo supremo”: “L’alternativa
al disimpegno è: più omicidi, più terrorismo e più attacchi”, spiega
Olmert a Radio Israele.
Ma quali sono le ragioni della vittoria del “no”? Perché questi che sono
definiti dai media come i “falchi” della destra israeliana si sono
opposti alla politica di ritiro unilaterale di Sharon, che già i nostri
media definiscono come una soluzione da estremista guerrafondaio? Come
si fa a battere da destra, ciò che è considerato il massimo della
destra? “Si può solo immaginare la rabbia, il dolore e la tristezza di
chi, come noi, ha resistito a tre anni di attacchi da quando è scoppiata
la seconda Intifada, e ora si ritrova con un primo ministro che è pronto
a regalare a chi ci vuole annientare, le nostre case, le sinagoghe e le
scuole” spiega Rachel Sapperstein, insegnante di inglese in una scuola
dell’insediamento di Neve Dekelim e cita ad esempio l’attentato di
domenica, in cui una madre con le sue quattro figlie (dai 2 agli 11 anni
di età) sono state uccise dai cecchini palestinesi su una strada di
collegamento fra gli insediamenti ebraici: “Abbiamo oggi il simbolo del
ringraziamento che stiamo per ricevere dagli Arabi per tutti i regali
che stiamo facendo loro”. I coloni di Gaza sono sempre stati fra i più
tranquilli e non hanno quasi mai indetto manifestazioni di protesta, ma
in questi giorni si sono mobilitati in massa. Una grande manifestazione,
indetta in occasione del Giorno dell’Indipendenza, ha attirato 60 mila
Israeliani dalla parte dei coloni, fra cui anche noti politici del
Likud. “Sharon ha fatto una scelta che non è motivata dal buon senso” -
ha dichiarato Moshe Arens, del Likud, durante la manifestazione - “Se
smantellare le infrastrutture del terrorismo è stato parte della
politica del Likud per così tanto tempo, come si può pensare che
qualcuno possa sostenere i piano del ritiro?”. E Uzi Landau, analista
della difesa e altro membro rilevante del Likud, nella stessa occasione
ha messo in guarda di fronte ai pericoli che possono derivare
dall’abbandono completo della zona di Gaza: possono nascere dei
“micro-stati” terroristici sul modello di quelli sorti in Libano alla
fine degli anni ’70, da cui possono partire raid terroristici e lanci di
katyushe contro lo stesso territorio metropolitano israeliano.
Lo smantellamento degli insediamenti nella striscia di Gaza non pone
solo un problema strategico, ma anche etico. “Cosa dire di una società
quando prende in considerazione un trasferimento forzato di Ebrei? E
cosa c’entra questa possibilità con gli ideali del Sionismo e con il
rispetto dei diritti individuali di vita, libertà e perseguimento della
propria felicità?” scriveva un altro membro del Likud, Michael Freund,
vice-direttore dell’ufficio di comunicazione politica di Benjamin
Netanyahu, pochi giorni prima del referendum “Il voto di questa domenica
è ben più che un referendum sugli Ebrei che vivono a Gush Katif. E’ un
voto sullo spirito di Israele, un verdetto sulla natura e la moralità di
quello che la società israeliana è diventata e di quello che vorrebbe
diventare in futuro. Perché, in fondo al cuore, sappiamo che se gli
abitanti delle colonie di Gaza fossero stati Palestinesi, tutto questo
non sarebbe mai accaduto. Se un governo israeliano dovesse mettere al
voto la decisione di sradicare gli Arabi israeliani dalle loro terre,
sarebbe stato giustamente tacciato di razzismo e di immoralità”. E anche
un ricercatore indipendente, Ariel Natan Pasko, sottolinea il pericolo
della legittimazione di una vera e propria pulizia etnica: “Questi bravi
cittadini, da Sharon a Netanyahu, da Olmert a Peres e ai suoi colleghi
laburisti, hanno aperto il Vaso di Pandora della pulizia etnica, che non
potrà più essere chiuso”.
7 maggio 2004
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