Usa 2004. Per un pugno di voti
di Andrea Mancia
da
Ideazione, marzo-aprile 2004
A dispetto delle credenze popolari, la storia raramente insegna. Se lo
facesse, sarebbe probabilmente meno affollato il coro – vagamente
partigiano – di chi già prevede una sonora sconfitta di George W. Bush
alle prossime elezioni presidenziali di novembre. Qualche sondaggio
negativo, l’attenzione dei grandi network tutta spostata sulle primarie
democratiche, la riesumazione di veterani del Vietnam e amici dei
Vietcong in ordine sparso: non c’è voluto poi molto per trasformare il
presidente americano da indistruttibile commander-in-chief a candidato
debole, alla mercé di qualsiasi avversario decente, restituendo così al
mondo la speranza in una vittoria purificatrice del campione democratico
di turno. Ma tutti, o quasi tutti, sembrano dimenticarsi che l’ultima
corsa alla Casa Bianca è stata risolta in barba a qualsiasi sondaggio
elettorale, compreso quello, solitamente inappellabile, che coinvolge un
campione corrispondente alla totalità dei cittadini votanti nel paese.
George W. Bush, in quelle strane, emozionanti e contestate elezioni del
2000, ha battuto Al Gore per un pugno di voti: quelli di quattro anonimi
delegati al collegio elettorale degli Stati Uniti.
Gli elettori, negli Usa, non votano direttamente per eleggere il proprio
presidente. Con un sistema che prende spunto dall’assemblea delle
centurie nell’antica Repubblica romana, ma anche dall’elezione del Papa
da parte dei Cardinali, ad ogni Stato dell’Unione è assegnato un certo
numero di delegati che, nelle intenzioni originarie, avrebbero dovuto
votare per il presidente senza vincoli di partito o provenienza
geografica. Pur con l’affermarsi del sistema bipartitico, questo metodo
ha continuato a tutelare un’esigenza di equilibrio tra gli interessi
degli Stati più piccoli e di quelli più grandi, visto che il numero dei
delegati a disposizione è pari alla somma dei membri eletti al Senato
(sempre due, a prescindere dalla popolazione dello Stato) e di quelli
eletti alla Camera dei Rappresentanti, assegnati invece in base alla
popolazione censita ogni dieci anni. La prima buona notizia di questa
lunga campagna elettorale, per Bush, arriva proprio dai risultati
dell’ultimo censimento del 2001.
Qualcuno la chiama “fuga dalle città”, per altri si tratta di una
conseguenza del diffondersi degli impianti di aria condizionata a basso
costo, ma il risultato è lo stesso: gli Stati del nord-est, tradizionale
roccaforte democratica, stanno perdendo popolazione, mentre quelli del
Sud e dell’America profonda, da anni fedeli al partito repubblicano,
guadagnano cittadini e delegati. Nell’inverno del 2000, Bush conquistò
271 electoral votes, contro i 267 di Al Gore. Se si votasse oggi, con lo
stesso risultato a livello nazionale, ne porterebbe a casa 278, contro
260 del suo avversario. Mentre Connecticut, Illinois, Indiana, Michigan,
Mississippi, New York (2), Ohio, Oklahoma, Pennsylvania (2) e Wisconsin
perdono delegati, Arizona (2), California, Colorado, Florida (2),
Georgia (2), Nevada, North Carolina e Texas (2) guadagnano popolazione e
peso all’interno del collegio elettorale. Non si tratta di una
differenza di poco conto. Con 18 voti di vantaggio invece di 4, i
repubblicani potrebbero permettersi di perdere un paio di Stati
marginali, come Nevada e New Hampshire, senza grandi problemi. O perfino
rinunciare agli 11 voti del Missouri, a patto di racimolare qualche
briciola magari in New Mexico. In ogni caso, si tratta di un margine di
vantaggio assai più rassicurante di quello, risicatissimo, che ha
portato Bush alla presidenza nel 2000. Un margine che potrebbe rivelarsi
decisivo, nel caso di un’altra campagna elettorale condotta sul filo di
un sostanziale equilibrio tra le due parti.
Mentre i sondaggisti nazionali scrutano gli umori delle metropoli,
dunque, l’America vera attende nell’ombra il momento giusto per far
sentire la sua voce. Mentre gli strateghi democratici organizzano cene
di fundraising a New York e Los Angeles per neutralizzare l’impatto di
Rudolph Giuliani e di Arnold Schwarzenegger sull’elettorato locale,
quelli repubblicani cercano di ristabilire il legame profondo con
l’America dei Nascar Dads che ha votato Bush e lo voterà ancora.
Quell’America che ha portato il Grand Old Party alla Casa Bianca, per un
pugno di voti, che lo ha sostenuto nella guerra contro il terrorismo
internazionale e che gli ha permesso, con una storica elezione di mezzo
termine, di controllare entrambi i rami del Congresso oltre alla Casa
Bianca. Quella stessa America che oggi, dopo un conflitto armato non
voluto, l’espansione della spesa pubblica e il faticoso contenimento
della recessione mondiale, si merita finalmente quattro anni di pace
“aggressiva”, un governo meno invadente e la ripresa economica.
Se poi, durante questa interminabile corsa verso la Casa Bianca,
arrivasse – dopo la cattura di Saddam Hussein – qualche altra notizia
positiva dal fronte della guerra al terrorismo, allora lo scenario
potrebbe cambiare radicalmente. E i Democratici si ritroverebbero di
fronte al loro incubo peggiore: le sconfitte landslide di Jimmy Carter,
Walter Mondale e Michael Dukakis negli anni Ottanta. Quando la mappa
elettorale degli Stati Uniti si colorò da costa a costa del rosso acceso
del partito dell’elefante, per consegnare l’asinello e i suoi seguaci ad
oltre un decennio di meritato oblio.
4 maggio 2004
mancia@ideazione.com
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