“Tra i democratici cresce il nervosismo” 
        intervista a Marco De Martino di Alessandro 
        Gisotti 
         
        Le convention di partito e i faccia a faccia sono ancora lontani. 
        Tuttavia, la complessa situazione in Iraq, lo stato dell’economia e il 
        dibattito sulla lotta al terrorismo contribuiscono ad arroventare il 
        confronto politico tra Bush e Kerry. Il presidente repubblicano e lo 
        sfidante democratico ricorrono, in queste settimane, a spot televisivi e 
        a tour elettorali in pullman, in attesa dell’autunno caldo, che 
        precederà lo scontro finale del 2 novembre. Intanto, la ferita inferta 
        l’11 settembre 2001 continua a sanguinare. Proprio da qui, dalla 
        lacerante ricerca della verità sul giorno più buio per l’America, inizia 
        la nostra intervista con Marco De Martino, corrispondente di “Panorama” 
        dagli Stati Uniti. 
         
        Con quale spirito, con quali reazioni l’opinione 
        pubblica americana sta vivendo lo psicodramma collettivo delle 
        deposizioni del gotha politico di fronte alla commissione parlamentare 
        sulle stragi dell’11 settembre?  
         
        Dipende dal punto di osservazione. A Washington i lavori della 
        commissione hanno monopolizzato l’attenzione di una capitale, che ha 
        trovato in quella sede il teatro più adatto per consumare rancori e asti 
        reciproci che sono oggi più forti che mai. La deposizione di Richard 
        Clarke, e quella successiva di Condoleezza Rice, avevano per chi vive 
        “inside the beltway” motivi di interesse e chiavi di lettura che vanno 
        ben oltre la semplice differenza di opinioni su quello che si poteva 
        fare per evitare l’11 settembre e che non è stato fatto. Si è consumata 
        la vendetta di un veterano della politica americana nei confronti di una 
        nuova classe dirigente che lo aveva escluso, ma a molti esperti di 
        terrorismo è parso strano ritrovare nella parte dell’eroe un personaggio 
        come Clarke, che era stato molto criticato per il modo in cui aveva 
        reagito alla minaccia di Al Qaeda. (Clarke aveva contribuito a dare il 
        via libera all’evacuazione via aerea di decine di sauditi, tra cui 
        esponenti della famiglia Bin Laden nelle ore immediatamente successive 
        all’attacco dell’11 settembre). Diverso è il discorso nel resto del 
        Paese, dove la “soap opera” della commissione è stata ignorata o ha 
        modificato di poco i pareri della gente. Come emerge nei sondaggi, le 
        deposizioni non hanno fatto altro che radicalizzare nelle proprie 
        posizioni un Paese già diviso.  
         
        La stabilizzazione irachena è tutt’altro che a 
        portata di mano. Quanto influirà la questione Iraq sulle elezioni di 
        novembre e quali sono le possibili opzioni dell’amministrazione Bush per 
        sottrarsi ai continui attacchi dei democratici?  
         
        A questo punto non sono più solo i democratici ad attaccare Bush. 
        L’apertura alle Nazioni Unite ha scatenato le proteste di molti 
        conservatori, portando anche William Kristol, direttore del settimanale 
        neoconservatore Weekly Standard, a chiedere, in un editoriale, le 
        dimissioni del segretario della Difesa, Donald Rumsfeld, e a dichiararsi 
        più vicino, in questo momento, alla posizione di Kerry e dei “falchi 
        liberal” che non di Bush. Quello che ha finora sorpreso è la forza di 
        Bush nei sondaggi: nonostante tutti i problemi in Iraq, l’indice di 
        approvazione del presidente è rimasto molto elevato, anche in stati 
        tradizionalmente forti per i democratici come il Maryland, il New Jersey 
        o il Michigan. Il presidente sembra godere di un credito ancora alto 
        sulle due questioni decisive su cui viene attaccato dai democratici: la 
        giustezza dell’intervento in Iraq e la questione delle armi di 
        distruzione di massa. Solo nelle ultime ore, un nuovo sondaggio Cbs/New 
        York Times lascia intravedere i primi segni di cedimento: secondo questa 
        rilevazione solo il 32 per cento degli americani ritiene che quella di 
        Saddam fosse una minaccia talmente grave da giustificare un intervento 
        immediato (è la percentuale più bassa da sempre), mentre sale al 41 per 
        cento la percentuale di chi pensa che la guerra in Iraq abbia aumentato, 
        invece, che diminuire la forza del terrorismo.  
         
        Economia, Iraq, terrorismo… c’è un tema decisivo 
        nella sfida di novembre? Quanto peserà la componente ideologica del voto 
        su questioni come l’aborto e i matrimoni gay, che sembrano spaccare in 
        due gli Stati Uniti?  
         
        Economia, Iraq e terrorismo sono gli argomenti che determineranno 
        l’orientamento della parte più volatile dell’elettorato, quella che nei 
        sondaggi compare alla voce indecisi, che rappresenta circa il 15-20 per 
        cento di chi andrà alle urne. Prevedere quale tema sarà più importante è 
        impossibile dirlo, ma è significativo l’aumento del nervosismo tra i 
        democratici, molti dei quali cominciano a intravedere una sorta di 
        “worst case scenario” profilarsi 
        all’orizzonte. Ci sono già segnali, infatti, che portano a pensare che a 
        ridosso del voto l’economia avrà dato inequivocabili segni di ripresa 
        (con la creazione di nuovi posti di lavoro a rimpiazzare quelli persi 
        negli ultimi tre anni) e la situazione in Iraq si sarà stabilizzata 
        (dopo tutto la rivolta di Fallujia non sta contagiando altre aree 
        sunnite, e gli uomini di Muqtada Al Sadr rappresentano ancora una 
        fazione isolata all’interno della popolazione sciita). Se le previsioni 
        si riveleranno esatte, Kerry si ritroverà con entrambe le sue principali 
        armi elettorali (Iraq ed economia) spuntate. La questione cambia quando 
        si parla di voto “ideologico”: sono temi come l’aborto, le armi e i 
        matrimoni gay che dividono l’America dei “rossi” e dei “blu”, dal colore 
        degli Stati che hanno votato repubblicano e democratico nel 2000. Sono 
        appena tornato da un viaggio in uno stato “rosso”, la Georgia, dove ho 
        visitato in particolare la contea di Cobb dove, quattro anni fa, Bush 
        conquistò circa il 65 per cento dei voti. Ci ero già andato nel 1995 per 
        raccontare la rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich che allora 
        aveva casa nel paese principale, Marietta. Ora Gingrich ha traslocato, e 
        i suoi ex vicini ne parlano male, perché ha divorziato due volte: dieci 
        anni dopo chi era su posizioni conservatrici si è quindi ancora più 
        rafforzato nelle sue convinzioni. Nel paese di fianco, Kennesaw, hanno 
        passato una risoluzione che riconosce Dio come fondamento dell’eredità 
        nazionale americana. Sono stato intervistato da un quotidiano locale: si 
        sono sbalorditi di sentirmi dire che gli italiani amano gli americani, 
        perché i locali pensano che tutti gli europei abbiano voltato le spalle 
        agli Stati Uniti. E Kerry non è molto conosciuto. Venendo da New York 
        sembra di visitare una nazione diversa.  
         
        In attesa del momento forte con le convention dei 
        partiti democratico e repubblicano, come si sta svolgendo la campagna 
        elettorale di Bush e dello sfidante Kerry?  
         
        La macchina elettorale repubblicana lavora alla registrazione di nuovi 
        elettori, soprattutto in “swing state” come l’Ohio, dove i volontari 
        sono impegnati in un minuzioso porta a porta. Nell’ultima settimana, 
        Kerry ha visitato gli Stati del Midwest in autobus parlando a chi ha 
        perso posti di lavoro durante l’amministrazione Bush. I candidati stanno 
        attraversando il deserto mediale, che li porterà alle convenzioni di 
        luglio e agosto: è anche per la mancanza di eventi che sui quotidiani si 
        gioca lo scontro sul passato militare dei candidati, dibattito che 
        probabilmente si rivelerà di scarsa importanza. Come dicevo, però, tra i 
        democratici aumenta il nervosismo: anche se Bush perde nei sondaggi, 
        Kerry non guadagna. Senza gli sfidanti del periodo delle primarie Kerry 
        sembra essere tornato il candidato senza qualità che aveva portato a 
        emergere Dean prima ed Edwards poi. E ora i democratici si chiedono se 
        sia possibile vincere solo in virtù dell’odio verso Bush, o se non ci 
        sia bisogno di un candidato capace di convincere non solo chi è già 
        sicuro di volere un altro presidente. 
        
        
        4 maggio 2004 
         
        gisotti@iol.it 
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