La nuova Nato inizia dalla nuova Europa
di Stefano Magni

Dal 29 marzo scorso, attorno alla rosa dei venti della Nato ci sono 7 bandiere in più: quelle dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Slovacchia, della Slovenia, della Romania e della Bulgaria. Le nuove adesioni rispettano, con la precisione di un orologio svizzero, le scadenze che Zbignev Brzezinski, ex consigliere di Carter e poi di Clinton, aveva previsto nel 1997: “entro il 1999” – scriveva il politologo di origine polacca – “i primi nuovi membri dell’Europa centrale avranno fatto il loro ingresso nella Nato, mentre è probabile che quello nell’Ue non si verifichi prima del 2002 o del 2003; nel frattempo, l’Ue avvierà i negoziati per l’adesione dei paesi baltici e la Nato farà altrettanto – anche nel caso della Romania – in vista di un loro probabile ingresso a pieno titolo entro il 2005. E in questa fase non è escluso che prima o poi anche gli altri Stati balcanici possano soddisfare i requisiti previsti”. Considerando che siamo ancora nella primavera del 2004, l’allargamento della Nato a Est è andato meglio delle migliori previsioni. Quando Brzezinski scrisse “La grande scacchiera”, da cui è tratta la citazione, l’allargamento non era una questione così scontata come è oggi e non tutti erano così ottimisti.

Samuel Huntington, in quegli stessi anni, era molto scettico e suggeriva un allargamento più prudente e più legato alle caratteristiche culturali dei nuovi membri: “Un’espansione della Nato limitata a paesi storicamente parte del cristianesimo occidentale, tuttavia, garantirebbe alla Russia l’esclusione di Serbia, Bulgaria, Romania, Moldavia, Bielorussia e Ucraina…”. Oggi, ben due dei paesi che Huntington avrebbe lasciato nell’area di egemonia russa sono membri della Nato. Ma l’adesione dei sette nuovi membri, non solo rompe il tabù del confine fra civiltà, ma anche quello dell’integrità territoriale degli ex Stati sovranazionali comunisti: anche se, a tredici anni dalla loro indipendenza, si tende ormai a dimenticarlo, Estonia, Lettonia e Lituania sono pezzi dell’ex Unione Sovietica, la Slovenia è un pezzo dell’ex Jugoslavia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia sono nati dalla divisione della Cecoslovacchia in due Stati indipendenti e sovrani ed hanno aderito alla Nato in due scaglioni differenti, a cinque anni di distanza l’uno dall’altro. Quando, nel 1999 e negli anni precedenti, si parlava di adesione alla Nato di Stati nati dalla secessione, il tema era considerato troppo scottante. I “realisti” suggerivano la creazione di aree di integrazione che ricalcassero i vecchi confini: ad esempio un’alleanza integrata fra Stati ex jugoslavi, o un’alleanza più stretta fra i membri della Csi ex sovietica. Ma la sola idea che l’alleanza delle democrazie occidentali, guidata dagli Stati Uniti, potesse includere le schegge degli ex imperi socialisti, era considerata alla stregua di una mera provocazione “imperialista” foriera di una nuova guerra fredda fra Est e Ovest.

Il valore simbolico e pratico dell’adesione alla Nato è notevole. Aderire alla Nato vuol dire riconoscere di appartenere, a tutti gli effetti, alle democrazie liberali, dato che questa è la condizione fondamentale per la “membership”. Lo spostamento ad Est dei confini della Nato, in pratica, non è che l’allargamento di un’alleanza difensiva, ma può anche essere letta come un monito per i vicini che non ne fanno parte: si tratta di tracciare una nuova linea di demarcazione fra quelle che sono democrazie e quelle che sono (o sono ancora) autocrazie, di costituire quella che può essere vista come una cintura protettiva per gli Stati che sono dentro o come un cordone sanitario per quegli Stati che sono rimasti fuori. E’ soprattutto per questi motivi che, nei primi anni di dibattito sull’espansione della Nato a Est, molti opinion leader giudicavano quella politica come un atto di aggressione. All’alba del 2004, invece, l’espansione della Nato fino ai confini della Russia (non dell’Unione Sovietica: della Russia) non provoca alcuna reazione, non suscita dibattiti feroci, non crea paure di nuove guerre fredde o calde. Un’Europa terrorizzata dal fondamentalismo islamico guarda all’adesione dei nuovi Stati con distrazione, considera l’evento con la stessa tranquillità con cui si apprende che il parlamento europeo ha emesso un nuovo regolamento sulla lunghezza delle zucchine. Ma soprattutto sconcerta il silenzio di Mosca. Perché nel 1999 Eltsin considerava l’adesione delle repubbliche baltiche alla Nato come una mezza dichiarazione di guerra, mentre oggi Putin non fiata?

Qualsiasi interpretazione si dia agli eventi di queste settimane, la mancata reazione russa all’espansione della Nato verso Est dimostra come le paure degli anni scorsi fossero, fondamentalmente, infondate. Si può pensare che, soprattutto dopo l’11 settembre, entrambe le ex superpotenze nemiche, Stati Uniti e Russia, abbiano capito che ci sono altre priorità per la loro sicurezza militare rispetto al ricordo della vecchia inimicizia. Questa è sicuramente la spiegazione più ottimista e rassicurante: a tutti piace pensare che le due potenze nucleari per mezzo secolo in guerra fra loro, ora si stringono la mano per combattere assieme i nemici del mondo. In parte sarà anche così, ma ci sono altri particolari che inducono a concepire un’interpretazione meno poetica. La Russia di Putin non si oppone all’allargamento della Nato fin dentro i confini dell’ex Urss, così come non riesce a far nulla per fermare le violenze degli albanesi contro gli alleati Serbi in Kosovo, così come non riesce a mobilitare un solo uomo per influenzare il nuovo governo (dichiaratamente filo-occidentale) georgiano. Le forze armate russe sono tanto decadenti da non riuscire a recuperare un sommergibile classe Oscar, il “Kursk”, un gigante da 26.000 tonnellate, orgoglio della ex marina sovietica, al largo della principale base del Nord; sono tanto povere da non riuscire a mantenere un incrociatore da battaglia classe Kirov, il “Pietro il Grande”, altro orgoglio della ex marina sovietica, fino a consigliare al suo comandante di non uscire dal porto per non rischiare un disastro ecologico e umano; sono tanto disorganizzate (o disumane?) da non riuscire a liberare gli ostaggi dei terroristi islamici nel teatro Dubrovka senza ucciderne la metà.

Che credibilità potrebbe avere una ex potenza ridotta in queste condizioni, nel caso dovesse “mostrare i muscoli”? Comunque sia, all’indomani della seconda ondata di adesioni alla Nato, un eventuale colpo di coda dei nostalgici (frustrati) della potenza sovietica, sarà molto più difficile di prima. E la stessa cosa si può dire per i nazional-comunisti della Serbia, ora che una ex repubblica/provincia jugoslava, quale la Slovenia, fa parte della Nato. Al contrario, i liberali e i democratici che operano all’interno di entrambi quei paesi, benché attualmente debolissimi, saranno sicuramente incoraggiati nella loro convinzione di modernizzare i loro sistemi, avvicinandoli all’Occidente.

14 aprile 2004

stefano.magni@fastwebnet.it


 

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