Il
futuro di Taiwan
di Rodolfo Bastianelli
La contestata rielezione del presidente Chen Shui-bian, avvenuta con un
margine di appena 30.000 voti al termine di una campagna segnata da
accuse di corruzione al partito presidenziale e dal ferimento dello
stesso capo dello Stato avvenuto alla vigilia del voto in circostanze
per molti aspetti ancora da chiarire, apre per Taiwan una serie di
scenari nei rapporti con la Cina Popolare che vanno attentamente
analizzati. Leader dell'indipendentista "Partito democratico
progressista" (Dpp), Chen Shui-bian era stato eletto alla presidenza
quattro anni fa, interrompendo il dominio dei nazionalisti del
"Kuomintang" che per oltre mezzo secolo avevano guidato le sorti
dell'isola. Un'elezione che aveva suscitato non poca irritazione e tra i
dirigenti di Pechino, preoccupati del fatto che il nuovo presidente
potesse spingere il paese sulla strada dell'indipendenza. La questione
dello status internazionale dell'isola rimane tuttora estremamente
complessa. Quella che viene chiamata Taiwan in realtà si chiama
ufficialmente "Repubblica di Cina" e costituisce l'erede della nazione
fondata nel 1912 da Sun Yat-sen sul territorio cinese.
Dopo l'avvento al potere dei comunisti di Mao Zedong a Pechino nel 1949,
i nazionalisti di Chiang Kai-shek si rifugiarono proprio nell'isola di
Taiwan dove, secondo la formula ufficiale usata dal "Kuomintang", il
governo si era "temporaneamente trasferito" nell'attesa di riassumere il
controllo della parte continentale del paese. Forte dell'appoggio degli
Stati Uniti, il governo di Taipei venne riconosciuto dalle Nazioni Unite
come il legittimo rappresentante di tutta la Cina, decisione questa che
sollevò le proteste sovietiche e del regime comunista di Pechino, che
per oltre vent’anni si vide escluso dai lavori dell'organizzazione. Tale
situazione rimase immutata fino al 1971, quando l'Assemblea generale
delle Nazioni Unite approvò la "Risoluzione 2758" con la quale si
attribuiva alla Repubblica Popolare Cinese il seggio spettante alla Cina
e si espellevano contemporaneamente i rappresentanti del governo
nazionalista affermando che l'isola era da considerarsi nient'altro che
una provincia cinese. La decisione dell'Onu segnò l'inizio del
progressivo isolamento politico di Taiwan, tanto che oggi il paese è
riconosciuto ed intrattiene formali relazioni diplomatiche con appena 27
Stati, in gran parte centroamericani ed africani, tra i quali solo il
Vaticano riveste un'importanza internazionale. A rendere difficile
l'azione della diplomazia taiwanese contribuisce poi il sempre maggiore
peso economico della Cina Popolare ed il fatto che questa sia un membro
permanente del Consiglio di Sicurezza.
Il caso della Macedonia, che nel 1999 non si vide prorogare dalle
Nazioni Unite la missione Unpredep proprio per aver allacciato rapporti
diplomatici con Taipei o più recentemente quello della Liberia che ha
dovuto rompere con Taiwan per ricevere l'appoggio cinese all'invio di
una forza militare internazionale, dimostrano di come il governo di
Pechino ricorra a tutti i mezzi a sua disposizione per contrastare le
iniziative taiwanesi. Tuttavia nonostante il difficile contesto
diplomatico Taiwan comunque non è stata completamente isolata sul piano
internazionale. Taipei mantiene infatti relazioni "semi-ufficiali" con
oltre cento paesi attraverso altrettanti "uffici di rappresentanza", i
quali, tranne che nel nome, svolgono le funzioni tipiche delle
ambasciate, e può aderire alle organizzazioni internazionali
non-governative a scopo scientifico economico e culturale. Uno dei
successi più importanti conseguiti dall'isola è stata l'ammissione al
Wto, mentre recentemente la sua domanda per l'ingresso all'Oms non è
stata accettata per via della forte opposizione cinese. La spinta ad una
maggiore visibilità internazionale per Taiwan è venuta poi dai
cambiamenti avvenuti nel paese.
Dominata per oltre mezzo secolo dai nazionalisti, la scena politica è
cambiata con la sempre maggiore presenza nel governo di elementi nativi
dell'isola favorevoli a rivendicare una distinta identità nazionale
taiwanese piuttosto che i legami con la Cina come fatto dal
"Kuomintang". Non va poi dimenticata la persistente sfiducia della
popolazione verso il regime cinese; con un reddito pro capite stimato in
12.659 dollari contro i 970 della Cina Popolare e delle istituzioni
democratiche, gran parte dei taiwanesi non è attratta dalla prospettiva
di un'eventuale riunificazione con la Cina Popolare. Secondo un
sondaggio pubblicato due anni fa, il 69% degli abitanti dell'isola
rifiutava la formula "un paese, due sistemi" proposta da Pechino, mentre
oltre l'80% era favorevole al mantenimento dell'attuale "status quo"
taiwanese. Proprio questa è la formula con cui in questi anni Taiwan ha
cercato di non irritare troppo Pechino e nello stesso tempo di frenare
le tentazioni indipendentiste presenti, ovvero quella di ritenere Taiwan
come uno Stato "de facto" indipendente ma che formalmente si considera
ancora parte del territorio cinese e quindi, pur se in un progetto a
lungo termine, continua a perseguire il progetto della riunificazione
con la parte continentale della Cina. Con la conferma di Chen Shui-bian
alla presidenza è probabile che la spinta autonomista di Taiwan si
rafforzi ulteriormente, anche se, a dire il vero, la linea politica
finora seguita dal presidente taiwanese è stata improntata al
pragmatismo, come dimostra la decisione presa poco dopo il suo
insediamento di istituire dei collegamenti marittimi diretti tra le
isole di Quemoy e Matsu e la costa cinese, una misura questa da tempo
richiesta dagli ambienti economici di Taipei.
A conferma di una linea di fermezza scelta verso Pechino, il presidente
taiwanese in un'intervista concessa al "Washington Post" ("Taiwan's
President Maintains Hard Line", del 29 marzo) poco dopo la sua
rielezione ha riaffermato che il suo governo respinge la formula per la
riunificazione proposta dalla Cina Popolare sottolineando, inoltre, come
le richieste di maggiore democrazia avanzate dagli abitanti di Hong Kong
dimostrino il fallimento della formula "un paese, due sistemi" proposta
da Deng Xiaoping e che se i dirigenti cinesi insisteranno
sull'accettazione da parte di Taipei di questa formula come
precondizione per la riapertura dei negoziati, chiederà ufficialmente
che la Cina riconosca Taiwan come uno Stato autonomo. Tra i progetti più
controversi del nuovo programma politico di Chen Shui-bian vi è
l'adozione di una nuova costituzione che dovrebbe entrare in vigore per
il 2008 e nella quale anche gli ultimi riferimenti alla comune
appartenenza di Taiwan alla nazione cinese verrebbero aboliti.
Se il varo di un nuovo testo costituzionale per i dirigenti taiwanesi
non implica automaticamente il cambiamento dello "status quo" attuale,
Pechino al contrario potrebbe intenderlo come una dichiarazione
d'indipendenza, un atto contro il quale il governo cinese ha sempre
affermato che avrebbe risposto con un'azione militare. Sul piano
diplomatico l'Unione Europea e gli Stati Uniti hanno più volte affermato
la loro contrarietà ad un'eventuale indipendenza del paese riaffermando
il principio dell'esistenza di "una sola Cina", anche se Washington ha
sempre ribadito che non accetterà nessuna azione di forza da parte di
Pechino. Pur avendo l'amministrazione Bush adottato una posizione più
favorevole a Taiwan rispetto a quella seguita a suo tempo da Clinton,
gli Stati Uniti temono però di venire coinvolti in uno scontro con la
Cina nel caso Taipei decidesse di proclamare l' indipendenza. Su quale
potranno essere gli scenari futuri per Taiwan, gli analisti esprimono
pareri contrastanti. Se da una parte vi è chi sostiene come la crescita
economica cinese, e la sempre maggiore integrazione che va realizzandosi
tra Pechino e le altre nazioni asiatiche, rischi di isolare Taipei che
per via del suo status politico incerto non può inquadrare in ambito
ufficiale i suoi rapporti economici con la Cina; dall'altra invece c'è
chi afferma come il tempo costituisca il maggior alleato di Taiwan, come
ricordava in un suo editoriale l' "International Herald Tribune"
(Patience Taiwan, del 17 marzo) proprio il boom economico potrebbe
portare in pochi anni all'emergere di una nuova generazione di cinesi
pronta a richiedere delle aperture democratiche al regime e più disposta
ad accettare la sovranità taiwanese.
Proprio le relazioni economiche costituiscono forse lo strumento più
valido per capire come si svilupperanno le relazioni tra i due paesi in
futuro. Se dal lato politico i rapporti tra Pechino e Taipei restano
tesi ed improntati alla diffidenza, da quello economico l'interscambio
non ha mai smesso di crescere. Taiwan rappresenta oggi il secondo
partner commerciale di Pechino, mentre gli imprenditori dell'isola hanno
investito nel 2002 nella Repubblica Popolare una cifra pari a 3,8
miliardi di dollari, senza contare che un gran numero di aziende
taiwanesi ha poi trasferito in questi anni la sua sede nella Cina
meridionale per il basso costo del lavoro e per le vantaggiose
condizioni offerte dal paese. Proprio la sempre maggiore integrazione
economica, a detta di alcuni osservatori, potrebbe però indebolire le
spinte autonomiste taiwanesi, facendo assumere al governo di Taipei un
atteggiamento più morbido verso Pechino che a lungo andare potrebbe
portare ad una riunificazione di fatto con la Cina Popolare. Come sempre
nel caso cinese è azzardato fare previsioni. Ma è chiaro che, da come si
evolveranno i rapporti tra le due Cine, dipenderà la stabilità dell'Asia
e dell'intero equilibrio internazionale.
14 aprile 2004
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