Kossovo, la guerra dimenticata
di Stefano Magni

L’intera Europa non si era ancora ripresa dalla shock dell’attacco terroristico dell’11 marzo, quando sono incominciate ad apparire sui teleschermi le immagini delle chiese ortodosse in fiamme in Kossovo. Era dal 1999 che non si era abituati a vedere scene così violente nei Balcani. Sembrava una questione finita, invece si è scoperto drammaticamente che la fiamma non era spenta ma covava sotto le ceneri. L’intensità della violenza etnica non è solo un’impressione televisiva: gli scontri hanno finora provocato 29 morti e più di 600 feriti, cioè le perdite più gravi dai tempi della guerra in Kossovo del 1998-99. Nel momento in cui questo articolo viene scritto, sono in corso altri scontri e il bilancio delle perdite si sta alzando. Oggi (19 marzo) le forze del contingente francese sono rimaste coinvolte in un primo scontro diretto contro miliziani albanesi. Si è trattato di una scaramuccia: un cecchino albanese è stato ucciso mentre bersagliava i Francesi. Tuttavia può essere un primo segnale di allarme per la Nato, che, nel frattempo aveva già deciso l’invio rapido di rinforzi dalla Bosnia e truppe fresche nella regione. Si prevede l’invio di 3000 uomini, fra cui 600 Italiani.

I primi atti di violenza sono avvenuti all’inizio della settimana. Scene di odio etnico, quasi ordinarie in Kossovo: un adolescente serbo ferito, due bambini albanesi spinti a gettarsi in un fiume dalla violenza dei serbi. Poi sono iniziati gli scontri veri e propri, con gli albanesi all’assalto delle chiese e delle abitazioni dei serbi. Particolarmente intensi sono stati gli scontri a Mitrovica, dove è dovuta intervenire la Nato per dividere le parti. Dividerle fisicamente, si intende, bloccando il ponte che collega i quartieri albanesi a quelli serbi. Intanto il governatore Onu Harri Holkeri, affiancato anche da Rugova, invitava, inutilmente, alla calma. In Serbia l’odio è improvvisamente scoppiato di nuovo, contro gli albanesi e contro gli Stati Uniti. Moschee sono state date alle fiamme a Nis e nello stesso centro di Belgrado. Una folla inferocita di Nazionalisti serbi ha manifestato contro l’ambasciata statunitense, rovesciando e incendiando veicoli. C’è voluto un intervento massiccio della polizia, con lancio di lacrimogeni per disperdere i Nazionalisti.

Questa volta, però, dalla parte degli aggressori sono gli albanesi. Anche se si tratta di azioni apparentemente spontanee, l’Onu mette in guardia contro azioni organizzate contro i serbi. “Questa pulizia etnica deve cessare perché è per questo che siamo venuti in Kossovo” ha dichiarato Harri Holkeri, suggerendo che gli albanesi agiscono scientemente per scacciare i serbi dalle loro enclave kosovare. E il compito della Kfor, in questi giorni, consiste soprattutto nella protezione/evacuazione dei cittadini serbi. Che siano sommosse o una parte del temuto (ma non ancora dimostrato) disegno di “Grande Albania” che sarebbe stato architettato dall’Uck, non si può ancora sapere. Ed è ancora da comprendere il perché di questa improvvisa fiammata di violenza. Benché gli obiettivi siano soprattutto religiosi e non solo limitati al Kossovo (chiese ortodosse sono state incendiate anche in Bosnia), la natura della violenza scatenata contro i serbi non è tipica dell’integralismo islamico. E’ difficile pensare che i responsabili della nuova escalation siano i mujaheddin accorsi durante le guerre nei Balcani o le organizzazioni terroristiche islamiche di cui si sospetta la presenza in Bosnia, Kossovo e Macedonia. Non siamo di fronte a quel sistematico stillicidio di attentati contro i civili che si è abituati a vedere in tutte le guerre in cui sono coinvolti i radicali islamici. E’ vero che gli albanesi sono musulmani e i serbi cristiani, ma quella che è scoppiata all’improvviso in Kossovo, ha più l’aspetto di una guerra di popolo, motivata da odio etnico, dalla vendetta per le violenze subite fino a pochi anni fa.

Semmai i segnali per un rinnovato conflitto nel Kossovo erano visibili già da mesi, ma a Belgrado. A gennaio, all’indomani delle elezioni, si temeva un peggioramento generale della situazione: i Nazionalisti del Partito Radicale Serbo, guidati ancora, formalmente, da Sesheli (attualmente processato per crimini di guerra e contro l’umanità) avevano ottenuto ben un terzo dei consensi. Kostunica, attuale premier, aveva puntato il dito contro l’Aja: secondo lui sono il processo a Milosevic e la pressione internazionale che umiliano il popolo serbo e lo spingono a radicalizzarsi. In realtà, a ben vedere, i Nazionalisti e i nostalgici di Milosevic non hanno ottenuto più consensi rispetto alle ultime (non libere) elezioni del 2000, quindi la tesi dell’“umiliazione” non trova riscontro empirico. Ciò che appare evidente nella scena politica serba è che non ci sono forti alternative democratiche ai nostalgici dell’ancien régime di Milosevic. Il governo di Kostunica si è formato solo in marzo, grazie a una coalizione instabile e all’appoggio dell’SPS, il partito di Milosevic. Il fatto che lo stesso Kostunica si presenti come l’unica alternativa possibile ai Nazionalisti, la dice lunga.

Gli effetti delle elezioni in Serbia avevano avuto ripercussioni immediate nelle regioni che ancora fanno parte della Federazione Jugoslava e soprattutto in Kossovo. Un po’ per attirare il consenso dei serbo-kosovari, un po’ per distrarre dal malcontento la popolazione della Serbia, Kostunica aveva puntato su quella regione, proponendo la sua “cantonalizzazione” (rigorosa separazione amministrativa su base etnica), aveva fatto capire a chiare lettere che il destino di quella regione contesa si doveva decidere a Belgrado e aveva decisamente negato la possibilità di un’indipendenza del Kossovo. Kole Berisha, il vice-presidente della Lega Democratica del Kossovo, aveva dichiarato, in un’intervista rilasciata a Radio Free Europe il 3 marzo 2004 che “Belgrado è responsabile per il bagno di sangue e della guerra in Kossovo e non è nella posizione di decidere il destino del Kossovo. Sono il popolo albanese, i leader kosovari e naturalmente Bruxelles e Washington che possono decidere sul Kossovo. Di conseguenza non prendo sul serio le proposte di Kostunica”. La situazione, dunque, era già tesissima. E’ bastata la minima pressione per spezzarla.

20 marzo 2004
 

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