Sarà ancora un'elezione al fotofinish
intervista a Maurizio Molinari di Alessandro
Gisotti
Ora si fa sul serio. Intascato il successo decisivo nel Supertuesday,
John F. Kerry ha tuonato: è tempo di voltare pagina. Una pagina chiamata
George W. Bush. La risposta del presidente non si è fatta attendere. Ed
è arrivata sotto forma di spot elettorali. “Safer and stronger”. Il
messaggio scelto dalla Casa Bianca è chiaro: grazie a Bush, l’America è
più forte e più sicura, dopo il dies horribilis dell’11 settembre. Sui
protagonisti e la posta in gioco alle presidenziali di novembre, abbiamo
intervistato Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa dagli Stati
Uniti.
Dai caucus dell'Iowa, in un mese e mezzo, John
Forbes Kerry ha sbaragliato i suoi rivali tanto quelli alla sua destra,
come Joe Lieberman, quanto quelli alla sua sinistra, vedi Howard Dean.
Che cosa della figura e del messaggio del nuovo JFK ha conquistato la
base democratica?
Kerry ha prevalso per tre motivi. Primo: gli errori altrui. Fino al
debutto delle primarie in Iowa il favorito era l'ex governatore del
Vermont Howard Dean ma questo ha commesso alcuni errori, dalle minacce
rivolte ai vertici del partito di far restare a casa i propri elettori
se non fosse stato lui il candidato in novembre alle posizioni
anti-guerra sull'Iraq, quando arrivò a dire che l'America non poteva
considerarsi un Paese più sicuro dopo la cattura di Saddam. La scelta di
Dean di cavalcare la sinistra radicale lo ha isolato dentro il partito,
privandolo del sostegno dell'elettorato moderato. Anche John Edwards,
senatore del North Carolina, ha commesso prima del Super-Martedì un
errore simile, scegliendo di fare propria un'avversione al libero
commercio tale da farlo presentare come un protezionista vecchio stampo.
Tanto il pacifismo di Dean che il protezionismo di Edwards erano, e
sono, incompatibili con la svolta moderata che Clinton impresse al
partito democratico nel 1992. Kerry ha avuto gioco facile a sfruttare
gli errori altrui, presentandosi come l'unico vero portavoce dei
moderati centristi, il continuatore e garante del clintonismo. Secondo:
l'essere stato combattente in Vietnam e senatore a Washington per 19
anni gli garantisce l'affidabilità in politica estera a cui i
democratici tengono per marcare la differenza con Bush, considerato come
un estremista ideologico, dimostrando al contempo affidabilità nella
gestione della guerra al terrorismo. Terzo: dietro Kerry c'è una moglie
miliardaria, Teresa Heinz vedova del re del ketchup, e c'è il sostegno
della famiglia Kennedy che conserva grande prestigio fra i democratici.
Quanto conta per Kerry, in vista del duello con
Bush, la scelta del suo vice e chi sono i principali papabili per
completare il ticket democratico?
Nella scelta del vice Kerry deve fare una scelta. Può privilegiare il
tentativo di strappare voti ai repubblicani designando Edwards, senatore
del Sud, un ex generale come Wesley Clark o addirittura un repubblicano
moderato come il senatore dell'Arizona John McCain. Oppure può scegliere
di accattivarsi la sinistra radicale con Howard Dean o con un nome di
forte richiamo alla Hillary Clinton per evitare che l'indipendente Ralph
Nader scippi un quoziente decisivo di suffragi come avvenuto nel 2000 ai
danni di Al Gore.
I democratici dipingono Bush come il presidente
che ha spaccato in due la nazione. Dal canto loro, i repubblicani
definiscono Kerry un flip-flopper, un impenitente voltagabbana. Ma sono
davvero così antitetici i due ex studenti di Yale?
Tradizione vuole che lo scontro politico nella campagna presidenziale
sia molto duro nei toni anche se nella sostanza i candidati hanno
posizioni meno dissimili di quanto appare. Ad inasprire il duello c'è il
fatto che l'ostilità democratica per l'operato di Bush è profonda tanto
quanto lo era quella dei repubblicani per gli scandali
dell'amministrazione Clinton nel 2000. La guerra al terrorismo, l'Iraq,
il Patriot Act, i tagli fiscali ed i matrimoni omosessuali hanno creato
una spaccatura nel Paese che sarà protagonista del duello elettorale. Ma
in realtà, andando a vedere da vicino cosa dice Kerry le differenze con
Bush sono limitate. Sui tagli fiscali propone di azzerarli ai
super-ricchi ma di lasciarli agli altri, sull'Iraq è favorevole ad
passaggio dei poteri all'Onu (già previsto per giugno) e non chiede il
ritiro dei soldati, per la guerra al terrorismo vuole 40 mila soldati in
più (che neanche il Pentagono oggi chiede) e sulla politica estera si
pronuncia a favore di un maggior coordinamento con gli alleati, non
dissimile da quanto fatto da Bush prima in Liberia e poi ad Haiti.
Prima dell'incoronazione di John Kerry al
Supertuesday, i repubblicani sono sembrati guardinghi, attendisti. Poi è
iniziato il cannoneggiamento di spot elettorali del presidente. Qual è
la strategia più probabile che lo staff di Bush adotterà per intaccare
il momentum di Kerry, decisamente sugli scudi in questa fase?
Kerry gode del vantaggio di aver iniziato prima la corsa, come spetta
allo sfidante. In realtà i sondaggi confermano che il Paese è diviso a
metà come lo era nel novembre del 2000. Saranno decisivi i voti di quei
16-17 Stati che Bush quattro anni fa perse o vinse per una differenza
massima del 5 per cento. Si va dal New Mexico al Tennessee, dall'Ohio
alla Louisiana. I democratici tenteranno di prevalere cavalcando lo
scontento per la perdita di milioni di posti di lavoro, i repubblicani
già rispondono con un'offensiva che mette in luce le contraddizioni
continue che distinguono le dichiarazioni rilasciate da Kerry in 19 anni
di permanenza al Senato. L'obiettivo è far apparire Kerry un politicante
inaffidabile, un opportunista disposto a dire tutto ed il contrario di
tutto pur di ottenere ciò che vuole.
Dal Vecchio Continente, si è portati a pensare che
l'Iraq sarà il tema centrale della campagna elettorale. E' davvero così
oppure lo slogan di clintoniana memoria "It's the economy, stupid!" è
valido anche oggi?
Alle elezioni del 2002 per il rinnovo parziale del Congresso si pensava
che sarebbe stata decisiva l'economia - a causa degli scandali
finanziari a Wall Street - ed invece vi fu un referendum nazionale a
favore della gestione della guerra al terrorismo da parte di Bush. I
molti rischi della ricostruzione irachena consigliano ai repubblicani
più prudenza in questa occasione. Alla fine comunque l'elemento decisivo
sarà la fiducia nel candidato-presidente ovvero di chi si fideranno di
più gli americani per sperare di vivere in un Paese più prospero e
sicuro.
8 marzo 2004
gisotti@iol.it
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