La sfida di Kerry a Bush (e a se stesso)
di Andrea Mancia
E' stata una telefonata di Bush, pochi minuti dopo i primi exit-poll del
Super Tuesday, a decretare la fine delle primarie democratiche. Il
presidente si è congratulato con John F. Kerry, ieri vincitore in nove
stati su dieci, aprendo di fatto una lunghissima campagna elettorale che
si concluderà con il voto del prossimo novembre. Soltanto il "fantasma"
di Howard Dean, ritiratosi dalla corsa già da qualche settimana, è
riuscito a battere Kerry in Vermont. Mentre il senatore del
Massachusetts si è imposto sull'unico avversario superstite, il senatore
del North Carolina John Edwards, in California (64-20), Connecticut
(58-24), Georgia (47-41), Maryland (60-26), Massachusetts (72-18),
Minnesota (51-27), New York (61-20), Ohio (52-34) e Rhode Island
(71-19). Numeri schiaccianti (Georgia a parte), che hanno assicurato a
Kerry la stragrande maggioranza dei delegati in palio e, soprattutto, il
ritiro di Edwards dalla competizione.
Vinta la
prima battaglia, ora per Kerry "il combattente" inizia la guerra vera.
Non a caso, il candidato democratico ha tenuto il suo discorso di
ringraziamento a Washington, mentre un manipolo di suoi sostenitori
sfilava nei pressi della Casa Bianca in una estemporanea manifestazione
anti-Bush. Il senatore più liberal d'America (secondo la valutazione
concorde delle fondazioni della sinistra e della destra statunitensi) ha
l'assoluta necessità di tenere alto il livello di mobilitazione del
partito, evitando quel pericoloso rilassamento che spesso colpisce gli
attivisti politici dopo una vittoria importante. Kerry ha speso paroline
dolci per Edwards, ricordandone le qualità e i meriti, ma anche per
Dean, sottolineando l'importanza dell'unità dei democratici contro
l'amministrazione repubblicana. L'attenzione di tutti, ora, si sposta
sulla futura scelta del candidato alla vice-presidenza: oltre ad
ipotizzare un complicato (per motivi caratteriali) "dream team" con
Edwards, si fanno i nomi di Dick Gephardt e Wesley Clark, anche loro
sconfitti da Kerry nelle primarie, oppure quelli di Bill Richardson
(governatore del New Mexico) e Robert Graham (senatore della
Florida). Un sofisticato soppesamento di equilibri ideologico-geografici
porterà al ticket che sfiderà Bush e Cheeney alle elezioni
presidenziali.
A parte
novità clamorose, comunque, gli analisti credono poco in un impatto
rilevante dei candidati alla vice-presidenza. L'unica cosa certa, per
ora, è che tutti i sondaggi danno Bush e Kerry impegnati in un furioso
testa a testa a livello nazionale. Ma sono numeri che hanno poco senso a
più di otto mesi dalle elezioni. Più interessanti, per valutare i
potenziali spostamenti di voto, sono i sondaggi condotti nei singoli
stati, visto che molto probabilmente - come nel 2000 - la partita
decisiva sarà giocata in pochi stati-chiave capaci di determinare il
risultato finale. Le buone notizie per Kerry arrivano dal piccolo New
Hampshire (4 voti elettorali), perso dai democratici per poche migliaia
di voti nell'ultima corsa alla Casa Bianca, e dalla emorragia di
consensi dei repubblicani in Arizona (10 voti elettorali, conquistati da
Bush nel 2000 con il 6% di scarto). Segnali positivi per George W.
giungono invece dalla Florida (27 voti elettorali), in cui il vantaggio
repubblicano negli ultimi sondaggi sembra assai più consistente di
quello, risicatissimo, che portò al recount. E segnali di un cedimento
democratico arrivano anche dalla Pennsylvania (21 voti elettorali), dove
Kerry e Bush sono praticamente alla pari, mentre nel 2000 Al Gore aveva
vinto con il 5% di margine.
Si tratta
in ogni caso di un quadro in evoluzione, in cui manca del tutto la
potenza di fuoco repubblicana, visto che Bush deve ancora mettere mano
al "tesoro" (stimato in oltre 150 milioni dollari) raccolto dai
suoi sostenitori prima e durante la campagna per le primarie
democratiche. Gran parte di questo capitale, è lecito prevedere, verrà
speso per "definire" l'immagine di Kerry di fronte ai milioni di
cittadini americani che ancora non lo conoscono. E soltanto quando la
macchina elettorale del Gop avrà iniziato ad evidenziare i suoi continui
mutamenti d'opinione sugli argomenti-principe della campagna elettorale,
il suo imbarazzante "record" senatoriale degli ultimi 20 anni, il suo
pedigree da perfetto liberal del New England e le sue relazioni
pericolose con gli esponenti più odiati dell'estrema sinistra americana,
soltanto allora sarà il caso di dare un'occhiata ai sondaggi. Per capire
se davvero i democratici hanno scelto un candidato in grado di battere
Bush.
3 marzo 2004
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