Iraq, è lunga la strada della ricostruzione
di Stefano Magni

Che fare dell’Iraq? La ricostruzione di un paese dopo una guerra non è cosa di tutti i giorni. Principi come libertà e democrazia escono dai dibattiti teorici per essere calati sul campo e proprio per questo si scopre, come prevedibile, che possono porre dilemmi e scelte difficili. Quello a cui si sta assistendo in Iraq è il “dilemma della tolleranza”, per usare i termini di Karl Popper: “Si può essere tolleranti con gli intolleranti?”. Che tradotto nella realtà mesopotamica vuol dire: “E’ giusto dare retta agli Sciiti e indire subito elezioni dirette?”. Trovare una risposta diventa sempre più urgente, visto che gli sciiti sono la maggioranza del paese e la loro pressione per indire subito elezioni dirette cresce di giorno in giorno. Chi vuole eleggere da subito un governo indipendente e sovrano, scelto dal popolo iracheno, è soprattutto l’ayatollah Ali Al Sistani, seguito da quella parte di popolazione sciita che non vede affatto di buon occhio la presenza di truppe anglo-americane nel Sud dell’Iraq. Benché le posizioni di Al Sistani (che nei mesi scorsi arrivò a minacciare una fatwa contro il governo provvisorio) si siano notevolmente ammorbidite e nonostante gran parte degli osservatori concordino nel dire che sentimenti anti-occidentali non sono così diffusi fra gli sciiti iracheni, è proprio nella maggioranza sciita che si è potuto osservare il maggior numero di manifestazioni e dichiarazioni anti-occidentali dalla fine della guerra. L’esempio più recente è costituito dalle manifestazioni contro le truppe statunitensi, dopo lo scoppio dell’autobomba al centro di reclutamento della polizia a Iskandariya, in cui i manifestanti sciiti erano convinti che l’attentato facesse parte di una strategia del terrore statunitense.

Cosa può accadere in caso di vittoria sciita alle elezioni? Come potrebbe essere un governo guidato da ayatollah come Al Sistani? Una repubblica islamica di tipo iraniano sarà anche impossibile, ma che ne sarebbe del 40 per cento di popolazione non sciita (Curdi e Sunniti)? Che fine farebbero le libertà personali? Sono tutti interrogativi su cui è legittimo essere pessimisti, soprattutto considerando che gli sciiti sono il 60 per cento della popolazione irachena. Per non parlare, guardando alla minoranza, di un eventuale voto dei sunniti nostalgici di Saddam: quali rappresentanti potrebbero esprimere? C’è poi un terzo problema, a cui non si pensa mai abbastanza: i comunisti, che durante il regime di Saddam erano dissidenti e che ora vogliono una loro rappresentanza legittima nel futuro governo, oltre a chiedere fondi tratti dagli aiuti internazionali per ricostruire la loro organizzazione. Che politica potrebbe mai promuovere un partito comunista nato una quarantina di anni fa per volontà di Mosca e da sempre sostenitore di una politica di nazionalizzazione del petrolio e lotta internazionale agli Stati Uniti?

E’ questo il prezzo inevitabile da pagare per la democrazia? Avevano ragioni i non-interventisti, o i realisti alla Powell? Colui che riteneva una pura utopia la realizzazione di una “democrazia del deserto”? A ben vedere non tutte le speranze sono perdute. C’è ancora la possibilità di creare in Iraq una democrazia funzionante, così come è avvenuto in altri paesi non occidentali, come il Giappone del dopoguerra, Taiwan, Hong Kong e la Corea del Sud negli anni Ottanta. Le idee non mancano per la sua realizzazione. Un prima idea è quella di dilazionare le elezioni alla fine di giugno. Bremer e l’amministrazione Bush hanno indicato la data del 30 giugno per l’elezione di un primo governo iracheno di transizione. Sembra che anche Kofi Annan, convenga ed è probabile che, con l’approvazione dell’Onu (che darà una risposta alla fine del mese), un primo governo indipendente potrà insediarsi solo dopo aver risolto il fondamentale problema dell’ordine pubblico, il peggior flagello del dopoguerra e la fonte prima di esasperazione per la popolazione. Ma sarà possibile sconfiggere la guerriglia dei nostalgici di Saddam prima dell’estate? E anche se dovesse essere risolto il problema più grosso dell’ordine pubblico, che dire degli altri problemi che frenano la democrazia irachena? Diverrebbero tutti democratici, o si rischierebbe ancora di assistere a una competizione elettorale dominata da partiti antidemocratici?

E’ per questo motivo che il dibattito sul futuro della democrazia in Iraq ha fatto un passo avanti, verso un livello più profondo: che tipo di elezioni si devono tenere? Un sistema di voto maggioritario e diretto, come quello desiderato da Al Sistani, creerebbe i problemi peggiori per il rispetto dei diritti delle minoranze. E’ per questo che sia Bush che Bremer premono per un sistema di “caucus”, modellato sul sistema elettorale americano e già sperimentato con successo in Afghanistan, che rispetti le differenze etniche e religiose dell’Iraq. Ogni minoranza, insomma, dovrebbe poter esprimere i suoi rappresentanti, a partite da assemblee locali. Se si dovesse avere un governo iracheno rappresentativo delle minoranze, ci si troverebbe, però, di fronte a un altro problema: si risolverebbe la questione della protezione dei diritti delle minoranze, ma non quello dei diritti umani individuali all’interno delle minoranze stesse. Anche in questo caso non sarebbe raggiunto, nel lungo periodo, l’obiettivo che l’amministrazione Bush si è prefissato: un Iraq “libero e amico”. Come sosteneva il politologo Fareed Zakaria prima della guerra, nel suo “The Future of Freedom”, il dibattito non deve fermarsi alla forma del futuro governo iracheno, ma deve riguardare la libertà degli Iracheni. Senza una società indipendente dallo Stato e senza un’economia di libero mercato, qualsiasi forma di democrazia è destinata a fallire, nel breve e nel lungo periodo. Questa sembra la tendenza seguita dalla stessa amministrazione Bush, dall’inizio del 2004. O almeno, così sembra, stando al discorso che Bush ha tenuto alla National Endowment For Democracy nel novembre 2003 è più incentrato sulla libertà dell’Iraq che non sulla sua democrazia.

Bush, infatti, ha sostenuto che “una società di successo limita il potere dello Stato e dei militari (…) Una società di successo protegge la libertà con un forte e imparziale governo della legge (…) Una società di successo garantisce piena libertà di religione (…) Una società di successo privatizza la sua economia e garantisce il diritto di proprietà individuale”. Un vero e proprio programma liberale, che, se applicato con successo, può trasformare il popolo iracheno da un insieme di fazioni e clan, quale è adesso, in una moderna società aperta. Daniel Griswold, del Cato Institute, sostiene inoltre che: “Il libero mercato è sempre stato qualcosa di più di un sistema economico più vantaggioso rispetto agli altri in fatto di efficienza e prezzi più bassi. Queste ragioni sarebbero già sufficienti per sostenerlo, ma il libero mercato è soprattutto una questione di libertà individuale (…) Ma c’è anche un’altra importante ragione per cui i politici dovrebbero appoggiare il libero mercato: può essere un importante strumento della politica estera americana, ora più che mai utile per il Medio Oriente”. L’espansione di aree di libero scambio nel corso della Guerra Fredda, ha promosso la ricostruzione della Germania e del Giappone. Ovunque, le aree di libero scambio hanno garantito la pace e la stabilità al loro interno. Non ci sono state guerre tra paesi liberi, a conferma della tesi dell’economista liberale classico Frederic Bastiat: dove passano le merci non passano i cannoni. Così è stato per l’Europa occidentale, per l’America Latina e per l’Asia orientale. Perché non pensare a uno sviluppo simile anche per il Medio Oriente, a partire da un nuovo Iraq? Anche problemi di fondo tipici delle società mediorientali, come il fanatismo religioso e l’incapacità cronica di ribellarsi alle proprie istituzioni repressive, sono dovute a una mancanza di apertura e di alternative.

Il fondamentalismo islamico è subentrato a Stati dittatoriali, attirando la passione di giovani che hanno sempre vissuto in società chiuse, prive di prospettive al di fuori delle poche industrie nazionali, della burocrazia statale, dell’esercito e dell’assistenza fornita da una ristretta cerchia di enti statali o religiosi. Solo dove si sviluppa un mercato libero e solo dove è maggiormente garantito il diritto di proprietà individuale, sono nate democrazie funzionanti e solide: a Taiwan, in Corea del Sud, in Messico, in Cile. In termini di politica pratica, ci sono due vie che possono essere seguite per rendere più libera la società mediorientale: la nascita di aree di libero scambio e l’apertura unilaterale delle frontiere americane ai prodotti locali. La prima via è più lunga e necessita di profonde riforme interne dei sistemi locali. La seconda, che incomincia ad essere sostenuta da senatori e congressisti repubblicani, del calibro del senatore Mc Cain, può dare fin da subito i suoi risultati, permettendo ai primi imprenditori indipendenti di accedere a un mercato libero come quello statunitense, con tutti i vantaggi del caso, non solo di guadagno, ma anche di esperienza. Politiche unilaterali di questo genere non sono una novità per gli Stati Uniti: già aree ritenute di interesse strategico, come i paesi caraibici, dell’America Andina e dell’Africa Sud-Sahariana, godono di questo privilegio. Certo è che una politica di questo tipo è sempre difficile da accettare. Qualsiasi popolo, compreso quello americano, desidera proteggere i propri prodotti dalla concorrenza straniera. In un periodo di paura del mondo arabo-islamico, accettare la competizione diretta di aziende mediorientali può risultare ancora più ostico. L’apertura al mercato arabo richiederà certamente anche molta apertura mentale.

20 febbraio 2004
 

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