La Germania qui tombe
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004

Alla fine, dopo numeri e numeri inutilmente dedicati a evidenziare la crisi strutturale dell’economia tedesca, il settimanale Der Spiegel, bibbia incontrastata dell’intellighenzia socialdemocratica, ha rifilato ai suoi lettori – tra i quali non manca mai il cancelliere Gerhard Schröder – una copertina choc: su uno sfondo istituzionale rosso porpora ha ripreso pari pari i caratteri storici della testata per comporre una parola di otto lettere: Reformen. Come dire: da qui non si scappa, o si riforma il sistema o si muore. Era la seconda settimana del mese di ottobre. Ma bisogna riconoscere alla storica testata amburghese di aver condotto da anni, quasi in solitudine, una decisa campagna giornalistica a favore del cambiamento, di aver analizzato e spiegato l’inderogabilità di riforme strutturali ai lettori e al mondo politico di riferimento, e di averla sostenuta anche di fronte alle incertezze del governo amico e alle resistenze dell’elettorato rosso-verde. Dopo i tagli ai sussidi dei disoccupati, il recente accordo bipartisan fra maggioranza e opposizione sul varo del travagliato Reformpaket, il complesso di tagli fiscali e riforme al welfare, è un importante passo avanti sulla via del rilancio economico. Governo e opposizione hanno compiuto, in un momento di grande conflittualità politica, un atto coraggioso che restituisce al sistema-Germania lo smalto da tempo smarrito.

I prossimi mesi ci diranno se a questo primo passo ne seguiranno altri lungo la strada del risanamento complessivo di quello che era il motore d’Europa. L’ultimo anno della vita politica ed economica tedesca era trascorso sull’onda lunga di un declino annunciato. Si può forse dire che dopo le paure e le angosce del 2002, i tedeschi abbiano imparato a convivere con questo declino, quasi rassegnandosi alla perdita di vecchie certezze con filosofico distacco. E con la tentazione di cedere a una sorta di tirare a campare. Non sarà più la locomotiva d’Europa, la Germania, ma almeno ci si potrà godere quel tanto di benessere che un cinquantennio di Wunderwirtschaft ha consentito di mettere in cassaforte. Non sarà mai una storia di successo economico, l’integrazione dell’ex Germania Est, ma almeno ci si potrà consolare con la ventata di ostalgie, la nostalgia degli anni comunisti (“ost” in tedesco vuol dire “est”, dunque letteralmente “nostalgia dell’est”) che sembra inondare l’intero paese attraverso film, libri, prodotti commerciali, spettacoli di cabaret e trasmissioni televisive: una specie di meglio gioventù real-socialista per quarantenni disoccupati e disillusi che hanno troppo presto appeso i sogni al chiodo e marciano ignavi a distanza di sicurezza dalle responsabilità al grido di Good bye Lenin.

Per raccontare la “Germania qui tombe” è più utile ricorrere allo stile di un racconto tra le pieghe di questo strano paese addomesticato dal sopore schröderiano piuttosto che affidarsi a cifre, dati, statistiche e ragionamenti di strategia industriale come ha per anni tentato di fare Der Spiegel. Che infatti non ha trovato interlocutori pronti a farsi carico di responsabilità tanto grandi.
Questo sembra un paese profondamente mutato nell’ultimo decennio, come se dal lungo laboratorio del processo di riunificazione fosse uscito un uomo nuovo, un tedesco nuovo, che lungi dall’assolvere al compito straordinario di cementare un paese per cementare l’intero continente (il sogno di Helmut Kohl, non a caso padre della patria misconosciuto), ha preferito rituffarsi nel liquido amniotico pre-ottantanove aggrappandosi a uno Stato che non deve rinunciare alle generosità del welfare, rifiuta le asprezze delle sfide contemporanee, si rinchiude metaforicamente in un vecchio appartamento di Berlino Est costruendo attorno scenari di cartapesta che rimandano al bel tempo andato mentre attorno tutto cambia. Ecco dunque che la metafora della Germania diventa la metafora dell’Europa e che il tanto premiato Good bye Lenin del furbo regista Wolfgang Becker diventa la colonna sonora della Europa qui tombe.

Il declino economico

In questa Germania che ha inventato una sorta di dolce vita alla rovescia, non in funzione di un miracolo economico post-bellico ma in funzione di un declino cui non si vuol far fronte, le cifre dell’economia restano sullo sfondo con la loro crudezza. Ce ne occupammo quasi un anno fa (Ideazione, marzo-aprile 2003) snocciolando i segni meno al fianco dei tanti settori trainanti del comparto industriale tedesco. Di quei segni meno, nessuno s’è tramutato in valori positivi. La disoccupazione coinvolge ancora oltre 4 milioni di cittadini, la ripresa dell’export è limitata dall’euro forte e dal costo del lavoro troppo alto che appesantisce i costi dei prodotti tedeschi. La salvezza arriverà solo dal piano di riforme strutturali appena concordato con l’opposizione e da nuove, più incisive iniziative che dovranno seguire nei prossimi mesi. Le crisi economiche possono essere cicliche e passeggere, il declino della Germania è invece inscritto nel dna del suo modello economico-sociale: quel Modell-Deutschland passato alla storia come capitalismo renano fatto di crescita lenta ma costante, concertazione nelle decisioni industriali, assistenzialismo diffuso ed efficiente, pace sociale.

Un modello che non regge la concorrenza delle aggressive e dinamiche economie globalizzate del ventunesimo secolo. L’Europa sognava di strutturare il proprio sistema economico attorno al modello sociale di mercato tedesco. Riteneva di aver trovato la terza via dorata fra le frenesie del turbo-capitalismo americano e le rigidità dei sistemi statalisti. Ma l’ascesa delle giovani tigri asiatiche, il peso crescente di due giganti mondiali come Russia e soprattutto Cina, le sorprendenti performance degli ex parenti poveri dell’Est europeo hanno rimesso in dubbio l’essenza stessa del progetto europeo basato sul Modell-Deutschland. La Germania ha dovuto subire l’onta dei richiami della Commissione di Bruxelles per aver sforato il tetto del 3 per cento di deficit del Pil; ha richiesto deroghe al patto di stabilità che con sicumera aveva voluto fissare quando furono stabiliti i criteri che portarono all’adozione dell’euro; ha dovuto infine affidarsi con la Francia al salvataggio realizzato dall’Ecofin sotto il semestre di presidenza italiano. Un esercizio di equilibrismo che il cancelliere ha compiuto con disinvoltura non apprezzata dal suo elettorato che nelle rigidità dell’economia ha sempre visto (forse a torto) un binario sicuro per non deragliare. Se l’asse franco-tedesco vuol essere il motore dell’Europa sarebbe bene che questo motore non fosse ingrippato.

Il declino geopolitico

Al declino economico, in Germania si somma una perdita di ruolo geopolitico che ha dell’incredibile. Perché essa non è dovuta ai rivolgimenti epocali che hanno scombinato gli equilibri della Guerra Fredda, come è accaduto per la Francia, ma all’insipienza politica dell’attuale governo. In sei anni la Germania è stata ricacciata au bout de l’Europe, al fondo del continente, proprio mentre tutte le condizioni l’avrebbero dovuta spingere a svolgere il ruolo di pivot della riunificazione. All’indomani del crollo del muro di Berlino sembrò aprirsi per l’Europa un inevitabile destino tedesco. Per contenere e guidare questo processo, che alla memoria di tanti europei faceva balenare inquietudini legate alle tragiche esperienze del Novecento, i leader degli altri paesi occidentali accelerarono l’unificazione europea, imbrigliarono il marco nella rete monetaria che avrebbe prodotto l’euro, fecero in modo che la riunificazione tedesca e l’inevitabile Drang nach Osten della Germania coinvolgesse tutto l’apparato della Vecchia Europa.

Helmut Kohl si fece garante del fatto che la ritrovata centralità geopolitica tedesca sarebbe stata messa al servizio della causa europea e spinse tutti gli altri leader ad una visione attiva del ruolo del continente negli scenari nuovi e affascinanti che si andavano dischiudendo con il crollo dei regimi comunisti ad Est. La Germania di Schröder ha invece smarrito questa missione, l’ha ripudiata, rinunciando di fatto a percorrere l’unica strada che avrebbe dotato il suo paese e l’Europa tutta di un ruolo strategico nel mondo globalizzato. Il ritrovato asse franco-tedesco ripropone, in uno scenario del tutto mutato, la vecchia dicotomia degli anni della Guerra Fredda: leadership economica alla Germania e leadership politica alla Francia. E’ il mondo di cartapesta alla Good bye Lenin. Intorno è tutto cambiato, Berlino annaspa nella sua crisi economica e Parigi arranca dietro la grandeur perduta, la globalizzazione asiatica ha fatto emergere nuovi paesi e nuove sfide e il terrorismo islamico infiamma le polveriere arabe minacciando nella leadership americana l’essenza stessa dell’Occidente.

Kohl aveva ritagliato per la Germania un ruolo di guida europea che facesse da sostegno e da contraltare a quello statunitense: Berlino, in nome dell’Europa, avrebbe condiviso con Washington la responsabilità di ridisegnare equilibri mondiali adeguati agli scenari della globalizzazione. Schröder ha abdicato alle ambizioni e, delegando a Chirac il timone di un revanscismo vetero-europeo, ha imboccato la via senza uscita di una contrapposizione devastante con l’America. Ha solleticato il pacifismo del suo popolo, ha dato fondo alla demagogia anti-americana che covava sotto la cenere di un paese depresso ed è uscito senza rimpianti dalla storia. Le giovani democrazie dell’Europa centro-orientale si sono trovate spiazzate dal vuoto che improvvisamente si è aperto ad Ovest. Non hanno più trovato ad attenderle una Germania consapevole del proprio ruolo storico ma un paese dubbioso e distratto che si è rifugiato nel mito conservatore della Framania (la versione aggiornata dell’Europa carolingia).

La Nuova Europa nasce così in contrasto con Francia e Germania: nel momento cruciale dell’ingresso nell’Unione europea, i paesi che furono satelliti dell’Unione Sovietica si smarcano dall’abbraccio soffocante con un’Europa che non capiscono (e che non li capisce) e guardano agli Stati Uniti come punto di riferimento, con la riconoscenza che devono al paese che in fondo li ha liberati dall’oppressione comunista. Lo spostamento verso Nord-Est dell’asse continentale non trova più solo la Germania al centro dei nuovi equilibri: sembra prevalere l’area baltica intesa nella sua valenza più nordica, con la Scandinavia pronta ad assorbire con maggior dinamismo le opportunità che i nuovi vicini possono offrire. Nella partita dell’allargamento, l’Europa artica fa concorrenza all’Europa carolingia, forte di una vivacità economica maggiore (riforme al welfare già varate) e di un senso geopolitico più ardito (meno supponenza e più diplomazia nel trattare con le élite politiche dei paesi centro-orientali). Avessero il prodotto interno lordo della Germania e la tradizione politica della Francia, fossero geograficamente meno decentrati, i paesi scandinavi potrebbero davvero candidarsi a guidare la Ue nel nuovo secolo.

Il declino culturale

Un settimanale da solo, per quanto autorevole come Der Spiegel, non basta a smuovere le acque stagnanti del mondo intellettuale tedesco. Anche perché la critica del magazine amburghese non si spinge mai oltre la linea d’ombra di un riformismo cauto. Mettere mano al welfare sì, ma guai a parlare di modello americano, anche se gli esperti dicono la ripresa prossima ventura gonfierà le vele dei paesi le cui economie ricalcano il modello americano piuttosto che quello euro-continentale. Silenzio, inoltre, sul ruolo internazionale smarrito. Uniformità nell’appoggiare l’opposizione del governo alla conduzione americana della guerra al terrorismo. La Germania non ha avuto, al contrario della Francia, i suoi Nicolas Bavarez che hanno sferzato l’opinione comune cercando di far riflettere le élite sul declino reale. Nessun libro intitolato L’Allemagne qui tombe ha visto la luce nelle librerie tedesche. Anzi, la patria di Kant ed Hegel, di Goethe e Mann, di Böll e Grass ha mantenuto per mesi in testa alla classifica di saggistica un guitto americano come Michael Moore, regista cinematografico e autore di una dissacrante biografia di George Bush, evidentemente scambiata per un saggio rivelatore di chissà quali segreti.

Delegata a un teatrante la nuova ventata di anti-americanismo, la cultura tedesca ha seguito senza alcun sussulto la tendenza della politica e s’è assopita nella contemplazione del proprio ombelico. Opera che sarebbe meritoria in sé, se non fosse anche qui evaporata nel rimpianto del passato, in quel buco nero della nostalgia che fa rimpiangere tutti i muri. Ciò che di tedesco inonda librerie e sale cinematografiche è solo apparentemente il tentativo degli intellettuali di digerire la riunificazione. In realtà il laborioso lavorìo chimico non è riuscito se spopola un libro come quello di Claudia Rush, La mia libera gioventù tedesca, che racconta una felice adolescenza nella Ddr interrotta dal crollo del muro. Questa visione consolatoria del passato rassicura anche la metà occidentale della Germania che non ha sperimentato sulla propria pelle i dolori del totalitarismo comunista ma lega le incertezze dell’ultimo decennio alle conseguenze della riunificazione: la nostalgia per il tempo perduto è la malattia di una Germania senile. Non aveva del tutto sbagliato il saggista americano Francis Fukuyama: c’è almeno un posto in Occidente dove la fine della storia s’è realizzata. Questo posto è la Germania. E se non correrà ai ripari, pensiamoci bene prima di affidarle i destini della Nuova Europa.

29 gennaio 2004
 

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