Sindrome francese
di Ludovico Incisa di Camerana
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
Ogni tanto senza una scadenza fissa la Francia si guarda allo specchio e
non si piace. Comincia allora un esame di coscienza in senso
autocritico, che in alcuni casi resta circoscritto all’ambito
intellettuale, anzi letterario, in altri dà luogo a crisi che si
ripercuotono nel resto d’Europa. L’esame di coscienza costituisce un
campanello d’allarme ed ovviamente, per meglio comprenderne le
conseguenze non è male ricordarne i precedenti con le loro cause
determinanti e i loro sbocchi, prima di analizzarne i segnali più
recenti. In questo senso posso offrire una testimonianza personale
avendo seguito attentamente per anni le vicende francesi a partire della
crisi del maggio del 1958, dal movimentato passaggio tra la IV e la V
Repubblica. Mi trovavo, infatti, da più di un anno in una città di
provincia francese, Le Havre, il porto della Normandia.
Venendo da un’Italia ancora misera, ma furiosamente laboriosa ed avida
di modernità, un’Italia che ritrovava con un candore e un entusiasmo
giovanili una speranza di ricupero e di crescita, quel primo anno di
vita in Francia mi aveva deluso: un sentore di muffa, di senilità, di
stanchezza pervadeva il paese. Le vestigia della seconda guerra
mondiale, in Italia, rapidamente rimosse, sembravano in Francia
permanenti, monumentali, invincibili, come i bunker del Vallo Atlantico
che costellavano ancora le spiagge della Manica. Quello stesso superiore
tenore di vita, che attirava in massa gli emigranti italiani, era
controbilanciato da un modo di tirare avanti ingordo ma sciatto,
monotono, scolorito, ed appariva anziché il frutto di un reddito di
lavoro e di impresa, come una rendita patrimoniale ancora cospicua ma
prossima all’esaurimento. La Francia si aggrappava all’impero
d’Oltremare e all’Algeria, che ne era il simbolo, nel timore di perdere
più che un gioiello dell’eredità famigliare, la sua stessa identità
storica.
Di fronte ad una simile prospettiva le formule ideologiche dei partiti
si dissolvevano in un trasformismo indistinto. Intorno ad un centro,
ancora incarnato nel radicalismo, la religione laica della Repubblica,
ruotavano i cattolici del Movimento repubblicano popolare, i socialisti
che avevano conservato la denominazione tradizionale Section française
de l’Internationale Ouvrière (Sfio), i gollisti del Rassemblement,
nonché una pletora di formazioni minori come l’Udser di François
Mitterrand e i gruppi indipendenti. Al di fuori del sistema un partito
comunista ottusamente stalinista, ma consistente, cercava invano di
approfittare delle disgrazie coloniali del paese. L’insieme era così
scoraggiante da meritare da un giornalista autorevole, Jacques Fauvet,
un giudizio spietato: “I partiti politici francesi non sono tra loro
contemporanei.
Alcuni appartengono all’età della pietra, altri all’età dell’atomo. Vi
sono dei fossili la cui specie si perpetua dopo che la vita li ha
abbandonati. Vi sono dei vertebrati che resistono alle prove peggiori e
molluschi che non reagiscono ad alcuna. Si può parlare di un marxismo
che divora carne cruda e di un marxismo ruminante”. I contrasti tra i
partiti si risolvevano al momento della formazione dei governi grazie
all’appiattimento su programmi minimi e alla proroga delle scelte
fondamentali.
I governi della IV Repubblica esitavano tra la liquidazione dell’impero
coloniale e il suo mantenimento, tra un isolamento imperiale e l’Europa,
tra la paura della Germania e l’intesa con la Germania. In realtà essi
non avevano più un progetto nazionale, non avevano più per usare
un’espressione del generale de Gaulle “una certa idea della Francia”.
Anzi non avevano più nessuna idea della Francia.
Al pari dall’arco politico non aveva nessuna idea della Francia il
partito dell’intellighenzia. Gli intellettuali di sinistra, con la scusa
di trovarsi in un “paese di quint’ordine e in un’epoca sorpassata”,
erano più impegnati a definire un proprio esclusivo modo di vita,
stupendamente descritto da Simone de Beauvoir nel romanzo Les Mandarins,
che ad immaginare un programma nazionale. Per gli intellettuali delle
generazione di Sartre la gestione di un “privato”, divenuto
nell’esistenzialismo folklore e attrazione turistica, trovava l’alibi
obsoleto di una rivoluzione di là da venire nell’antiamericanismo. Il
partito degli intellettuali si allineava su una posizione d’élite che si
risolveva in fondo nel rifiuto di porsi una meta precisa ed era
nient’altro, come osservava un giornalista tedesco Herbert Luthy, che
“una scusa bella e buona per cuocere nel brodo grasso del
conservatorismo”.
Su un paese incerto si proiettava l’ombra messianica del generale de
Gaulle, colui che, avendo trasformato la sconfitta della Francia nella
seconda guerra mondiale in una vittoria e riportato la Francia tra le
grandi potenze, rimaneva, anche se appartato e severo verso tutti,
l’uomo capace di qualsiasi miracolo. La critica della IV Repubblica e
l’ostilità verso la guerra d’Algeria, accompagnata dalla degenerazione
della metodologia repressiva, offrivano agli intellettuali francesi una
legittimazione momentanea: ma il progetto accarezzato dal settimanale
L’Express di un governo di illuminati sotto la guida di Mendès France,
dell’unico uomo politico disposto ad avviare le decolonizzazione, non
convinceva. La proposta politica di questo de Gaulle della sinistra era
infatti pessimista e poco allettante, priva di una direzione definita:
né imperiale, né postimperiale, né europeista (si affretterà ad
affondare, la Ced, la Comunità europea di difesa), né antieuropeista, né
modernizzante, né antimodernizzante, né tecnocratica né
antitecnocratica. Sicché ogni volta che si contrapporrà a de Gaulle, il
contromito Mendès France si dissolverà come una bolla di sapone
dimostrando la sua inconsistenza.
Non avevano un programma credibile nemmeno i militari colonialisti di
Algeri che avevano sollevato sui loro scudi il generale de Gaulle.
Ossessionati dalla psicosi di un Occidente assediato dal marxismo
sovietico e dal Terzo Mondo, afflitti da una mentalità misticheggiante
da sentinelle di Pompei, i centurioni dell’Armée d’Afrique vagheggiavano
una cittadella militare nordafricana separata da una madrepatria
noncurante, un nuovo Stato crociato, retto da moderni templari, un sogno
romantico ed assurdo che con ammutinamenti e ribellioni affretterà la
fine dell’Algeria francese.
Richiamato al potere, de Gaulle giocherà gli uni contro gli altri.
Sconcerterà gli intellettuali mendesisti e si assicurerà grandi maestri
come il cattolico François Mauriac e l’excomunista André Malraux. Verrà
maledetto dai nuovi crociati delle truppe d’assalto, ma otterrà
l’appoggio degli ufficiali tecnici con la promessa di un esercito
moderno in grado di pesare, una volta alleggerito dei residui coloniali,
nell’equilibrio europeo ed anche in quello globale.
Le premesse del generale erano semplici: la Francia coloniale dipendeva
politicamente e militarmente dal favore degli Stati Uniti essendo priva
dei mezzi finanziari necessari per raggiungere tre obiettivi:
modernizzare le Forze Armate impegnate in operazioni di polizia
sanguinose e frustranti, aggiornare l’assetto economico e amministrativo
interno, esercitare un ruolo egemonico in Europa.
Solo rinunciando all’impero si poteva realizzare questo programma come
accadde effettivamente. Per valutare il successo gollista, basta
paragonarlo con quanto si verifica in quegli anni in un’Inghilterra,
anch’essa impegnata, parallelamente alla Francia, in una transizione
postimperiale, ma entrata in una fase di accasciamento e di decadenza,
di ristagno morale e politico, da cui si riprenderà solo vent’anni dopo,
quando la signora Thatcher restaurerà con energia il senso di una nuova
missione nazionale. Viceversa la Francia postimperiale disegnata da un
de Gaulle, convinto di essere “l’unico uomo di Stato europeo”, è un
paese che anziché perderla ricupera la sua grandeur: una Francia sicura
di sé, che dialoga con gli Stati Uniti e l’Urss, una Francia che non
respinge l’Europa, ma se ne mette a capo e la obbliga a marciare al
passo dettato da Parigi. Al timore della Germania si sostituisce nel
1963 un’alleanza, che impone la sua volontà agli altri paesi europei,
compresa l’Italia, che per una stupida forma di antigollismo rifiuterà
di associarsi all’asse Parigi-Bonn, e compresa l’Inghilterra che de
Gaulle manterrà fuori dalla Cee durante il suo governo.
Lo “strano episodio” del 1968
De Gaulle governa rinnovando quasi completamente i quadri politici e
amministrativi, accantonando perfino i propri seguaci, liberandosi dai
condizionamenti dei partiti tradizionali, isolando e riducendo
drasticamente, tramite un nuovo sistema elettorale, il peso parlamentare
del Partito comunista. La struttura governativa modello dell’epoca
gollista si articola nel 1962, quando primo ministro diventa il capo di
gabinetto del presidente, Georges Pompidou, titolare di un curriculum
non politico ma amministrativo ed economico culminato in incarichi nel
Consiglio di Stato e nel Consiglio di amministrazione del Banco
Rothschild. Con Pompidou sono chiamati al governo agli esteri un altro
tipico rappresentante dei corpi amministrativi Couve de Murville e alle
finanze un brillante ex allievo dell’Ena, l’Ecole Nationale
d’administration (Ena), Giscard d’Estaing. Passa un decennio e ecco una
nuovo esame di coscienza. Nel marzo del 1968 un editorialista de Le
Monde, Pierre Viansson Ponté, proclama in un articolo: “La Francia si
annoia”. Ed in effetti “una parte della Francia ha la nausea. Tutto
appare falsato e adulterato”. La gente “ha l’impressione che non si
pensi ad altro che a sottrarle il suo denaro, i suoi voti e i suoi buoni
sentimenti. Manifesta un’improvvisa allergia agli agenti pubblicitari,
ai moralisti e ai ragionatori. Non sopporta più gli appelli
all’efficienza, all’espansione, alla disciplina: non ci vede che frode e
ipocrisia”.
Il malessere si coagula nella dissidenza giovanile, nella ribellione al
piano dell’ex ministro dell’educazione Fouchet, una riforma intesa a
fare dell’università una funzione del sistema industriale, una riforma,
che peraltro presenta, come nuovo modello, un esempio negativo,
l’università di Nanterre: installata nel paesaggio sinistro della
periferia parigina, in mezzo alle bidonvilles, un insieme “freddo,
indifferente, di immensi corridoi da incubo”, novecento sale “anonime,
tutte eguali”. “Nanterre – s’indigna Maurice Bardèche – annuncia la
disumanità della società dei consumi”. In queste condizioni l’università
diviene l’incubatrice di una rivoluzione che sotto l’influenza della
contemporanea rivoluzione culturale cinese e del ruolo che il maoismo
assegna alla giovane generazione (le nuove Guardie rosse), dovrebbe
avere come avanguardia non già la classe operaia ma il pouvoir étudiant,
il potere studentesco. Tanto per cominciare il potere studentesco si
ribellerà contro tutti, trattando come “vecchi scocciatori” il poeta
ufficiale del partito comunista Louis Aragon e il filosofo Sartre,
invano inseguito e assecondato dal duetto Mendès-France e
Servan-Schreiber, che brucia inutilmente le sue ultime cartucce. Alla
fine il movimento, diventato a parere di Raymond Aron, “uno psicodramma,
la caricatura di una commedia rivoluzionaria”, perderà la sua carica
eversiva.
La contestazione giovanile farà proseliti altrove. In Francia verrà
riassorbita da una maggioranza sociale disturbata dalla “cagnara”
pseudorivoluzionaria, ma soprattutto verrà bloccata dalla classe di
governo creata da de Gaulle, che vincerà le elezioni politiche e
rimpiazzerà il generale, dimissionario perché battuto in un referendum
su modifiche costituzionali ragionevoli ma non ben capite. Una classe
selezionata dai concorsi delle Grandi Scuole universitarie, dal
Politecnico, dall’Ena, senza passare per le sezioni dei partiti o dei
sindacati, manterrà il potere fino ad oggi: il vero bipartitismo
francese sarà rappresentato dagli énarques di destra come Giscard e
Chirac e dagli énarques di sinistra come Rocard, Fabius, Jospin, tanto
che il passaggio del potere avviato nel 1981 con l’elezione alla
presidenza di Mitterrand non comporterà discontinuità nel progetto
nazionale. Del resto il presidente socialista aveva capito il segreto
del gollismo: il cui genio, secondo una sua battuta, “consisteva nel
risvegliare la Francia addormentando i francesi”: una ricetta che lui
stesso applicherà abilmente. La crisi del 1968 resterà nella storia
francese, come affermerà oggi Alain Besançon, “una sorpresa che resta
parzialmente misteriosa”, una sorpresa che, come concluderà da parte sua
Raymond Aron, pochi giorni dopo il ritorno all’ordine, costituisce
“l’episodio più strano di una storia francese ricca di episodi strani”.
Mitterrand o la fine dell’egemonia francese
Grazie ad una classe dirigente stabilizzata, senza distinzione tra
destra e sinistra, de Gaulle rimane il nume tutelare della V Repubblica
e a lui si ispireranno non solo i suoi successori di destra come
Pompidou, Giscard, Chirac, ma anche Mitterrand, l’unico esponente della
IV Repubblica, sopravissuto nella V dopo essersi impadronito di un
partito socialista allo sbando, privo di leadership, ed aver
addomesticato un partito comunista diventato l’ectoplasma dei suoi tempi
migliori a causa di quella che egli stesso definirà “l’incredibile
mediocrità intellettuale dei suoi dirigenti”. Mitterrand, durante i due
settennati della sua presidenza, ricalcherà il carisma del generale e la
ritualità monarchica del gesto solenne e spettacolare. Se la prenderà
con l’Ena, “l’esercito di mestiere dell’amministrazione”, e i suoi
pupilli. “Questi personaggi inimitabili che occultano sotto un viso
liscio e uno sguardo assente il segreto del potere”, “portatori di un
Santo Sacramento per cui lo Stato si traduce in un certo modo di
annodare la cravatta, di accendere una sigaretta¸ di camminare sulle
uova e di fissare degli appuntamenti, destinati a rimanere nascosti, in
quei bar dove s’incontrano tutti”.
Ciò nonostante si servirà degli “enarchi” come primi ministri e ministri
e gestirà dignitosamente uno Stato modernizzato ed efficiente mantenendo
l’egemonia della Francia in Europa, sotto la formula dell’asse
franco-tedesco. Un nuovo esame di coscienza comincerà, tuttavia, nel
1989: la caduta del muro di Berlino sconvolgerà una diplomazia francese,
che si basava nel rapporto con Bonn su una compensazione tra la
superiorità economica della Germania Federale e la superiorità militare
della Francia, dovuta non tanto alla forza nucleare francese ma alla
necessità per la Germania di avere non solo l’aiuto militare americano
ma anche quello francese per scoraggiare una possibile aggressione
sovietica. La divisione della Germania impacciava il governo di Bonn,
limitando la sua libertà d’azione, mentre la Francia poteva permettersi
manovre diplomatiche non consentite alla Germania, donde la superiorità
politica, oltre che militare, della Francia soprattutto nelle scelte
strategiche all’interno dell’Europa, tradotte praticamente negli
strepitosi guadagni ottenuti nella difesa degli interessi del mondo
agricolo francese e nell’accettazione da parte tedesca di certe
iniziative francesi più di prestigio che di sostanza.
Orbene, la caduta del muro di Berlino, l’evacuazione delle guarnigioni
sovietiche di stanza nella Germania orientale e l’unificazione tedesca
modificavano il rapporto franco-tedesco, annullando il valore aggiunto
della superiorità politica e militare francese. Venendo meno la parità
tra i due paesi, la bilancia pendeva nettamente a favore della Germania,
anche se questa con il cancelliere Kohl faceva finta di non avvedersene.
Il trauma in Francia sarà tale da indurre qualche esperto a evocare
l’ipotesi di un prossimo conflitto tra i due paesi. Fortunatamente il
capovolgimento del rapporto tra Francia e Germania non si è del tutto
verificato. Anzi i governi francesi hanno approfittato delle difficoltà
incontrate dal governo tedesco nella riconversione dell’Est per ottenere
da Bonn e poi da Berlino una delega nella guida dell’Europa, un’Europa
basata, come ha affermato a suo tempo l’ex ministro degli Esteri del
governo Jospin, Védrine, sull’unità fra tre grandi paesi, la Francia. la
Germania, la Gran Bretagna. In sostanza la diplomazia francese,
accortasi che la Germania non aveva o non intendeva assumersi una
responsabilità egemonica in Europa, adoperandosi meno del previsto nella
penetrazione economica e politica dei paesi dell’Europa
centro-orientale, ha cercato di associare la Germania e il Regno Unito
alla propria priorità strategica: il contenimento in Europa della
preponderanza americana.
L’operazione doveva essere completata dall’appoggio alle Nazioni Unite
sul piano internazionale, contrapponendo la formula di un mondo
“multipolare, diversificato e multilaterale” alle tendenze
unilateraliste attribuite all’ “iperpotenza” americana. Una simile
impostazione si rivelerà fragile: sul piano europeo la posizione della
Gran Bretagna rimane ambigua e comunque condizionata, nelle grandi
linee, alla special partnership, all’alleanza storica con gli Stati
Uniti. Sempre sul piano europeo il triangolo Parigi-Berlino-Londra non
potrà dettar legge, senza l’appoggio di almeno uno o due degli altri
grandi dell’Unione ampliata. Infine l’opposizione di Chirac alla guerra
contro l’Iraq è stata bocciata dalla “nuova Europa”.
Certamente uno dei pilastri della grandeur francese, l’egemonia europea,
non ha più una base solida. A questo punto emerge un interrogativo: la
Francia è in declino? La Francia cade?
Il dilemma di oggi: la Francia cade o non cade?
Secondo la tesi esposta pochi mesi fa da un economista e pubblicista
Nicolas Baverez la Francia tombe, la Francia cade. Ed ecco la necessità
di un nuovo esame di coscienza. Anzi di un’autocritica storica perché è
caduta anche in passato “in un’alternanza brutale di periodi di declino
e di fasi di ripresa”. La priorità data alla stabilità politica e
sociale e la paura del cambiamento hanno impedito alla Francia di
adattarsi alle grandi trasformazioni del quadro internazionale, donde
alla fine del Settecento il sorpasso da parte dell’Inghilterra nella
rivoluzione industriale e, un secolo dopo, la sua conseguente
detronizzazione come maggiore potenza economica europea a vantaggio
della Germania.
Con una serie di soprassalti si giunge ai giorni nostri con una diagnosi
ancora negativa: “Oltre a non aver riassorbito gli effetti degli choc
petroliferi degli anni Settanta la Francia subisce ormai direttamente le
trasformazioni radicali scatenate dalla fine della Guerra Fredda, la
globalizzazione e poi l’offensiva terroristica dell’11 settembre 2001.
Sicché si trova impelagata nelle crisi del secolo XXI quando non ha
ancora riassorbito gli choc dell’ultimo quarto del Novecento tra i quali
figura in primo luogo la disoccupazione”. Di fronte ai grandi
cambiamenti dell’ultimo decennio del Novecento, la maggioranza dei
paesi, a cominciare dagli Stati Uniti si è impegnata a ripensare la
propria posizione diplomatica e strategica, a rimodernare le
istituzioni, ad adattare la politica e le strutture economiche e
sociali. Invece di reagire dinamicamente la Francia si è rifugiata
nell’immobilismo, si è barricata dietro le vecchie formule, “la
dissuasione nucleare, l’euro forte, il servizio pubblico alla francese,
l’eccezione (culturale) francese”.
Baverez accusa la Francia e la Germania di essere rimaste al rimorchio
di modelli economici e sociali scaduti, di aver ignorato il carattere
strutturale delle difficoltà e di essersi giustificate cercando dei
capri espiatori “come la globalizzazione per la Francia, la
riunificazione per la Germania, l’immigrazione e l’Europa per entrambe”.
“Il tutto accompagnato da una feroce resistenza al mutamento degli
elementi più conservatori della società”.
Partendo da queste premesse Bavarez presenta un quadro geo-politico
internazionale nel quale spicca il confronto tra il terrorismo islamico
e gli Stati Uniti. Il terrorismo islamico agisce come un attore
autonomo, favorito tra gli altri fattori dal discredito delle ideologie
laiche e dalla rivalutazione delle religioni nonché dal fallimento
cronico nel mondo arabo di modelli capaci di produrre democrazia e
sviluppo. Nel fronteggiare questa minaccia gli Stati Uniti scelgono
risposte valide caso per caso e quindi imprevedibili, spiazzando una
diplomazia francese basata sullo statu quo e la rigidità. Il rischio per
la Francia è di nuotare contro corrente dal momento che gli altri paesi
regolano la loro politica secondo l’atteggiamento degli Stati Uniti. “La
Francia sa ciò che non vuole – l’egemonia degli Stati Uniti sulle
democrazie o la leadership del Regno Unito in Europa – ma non sa ciò che
vuole”. Il risultato è “un incontestabile declino nel seno di un’Europa
anch’essa decadente”.
Baverez intravede elementi di retrocessione anche nell’ambito
istituzionale interno e nel campo economico: la società è sempre più
frammentata e “la Francia sta per diventare un deserto industriale e
imprenditoriale”. Non solo: il declino “non è mai fatale, ma sempre
voluto e programmato”. Il nocciolo duro della V Repubblica, che risiede
in un’osmosi tra i dirigenti politici, gli alti funzionari e i leader
sindacali, ossia l’élite gollista e post-gollista, è colpevole di non
aver elaborato “un progetto globale e coerente di modernizzazione per
adattare il paese al nuovo ambiente nato dal dopo Guerra Fredda e dalla
globalizzazione”. Sotto quest’aspetto il Governo dell’attuale primo
ministro Jean-Pierre Raffarin seguirebbe l’esempio del governo
socialista di Lionel Jospin, “senza rimediare alla crisi che mina la
Francia e i francesi”. Sarebbe insomma il governo della Francia “che
cade”.
La speranza di una ripresa è affidata ad una destra energica, alla
Thatcher, capace di adottare una terapia d’urto. La visione di Baverez
accentua le tonalità più scure e contrasta per quanto riguarda la
situazione economica francese con la posizione internazionale della
Francia, che rimane per ora dopo gli Stati Uniti, il Giappone, la
Germania la quarta potenza del mondo nell’ammontare del prodotto
nazionale lordo. Del resto, in un saggio documentato di due anni fa, due
esperti, un americano e una francese hanno ricordato che la Francia è al
terzo posto nella graduatoria internazionale come polo d’attrazione
degli investimenti stranieri e che il problema riguarda semmai il
secolare contrasto tra i bonapartisti ossia i dirigisti, e gli
orleanisti ossia i liberisti. Nel complesso la Francia si sta adattando
rapidamente alla globalizzazione tanto da essere già “uno dei paesi più
globalizzati del pianeta”. Il disagio francese riguarda piuttosto la
cultura e la conservazione dell’identità nazionale.
La crisi morale
Le tesi di Baverez hanno suscitato un dibattito sulla rivista
Commentaire con diversi interventi di intellettuali impegnati
politicamente in settori diversi.
Alain Besançon, partendo da un pieno consenso sull’impostazione di
Baverez, l’ha arricchita, sottolineando l’esistenza in Francia, a
partire dalla fase più tragica della Rivoluzione francese, il Terrore,
di un pericolo permanente: un “nucleo rivoluzionario”, che si dilata e
si contrae rimanendo sempre minoritario, ma che negli anni Venti si
congiunge con la centrale comunista sovietica. La sconfitta del
comunismo porterà il nucleo francese a nazionalizzarsi e a coagulare una
classe tradizionalmente giacobina composta da “professori, giornalisti e
una parte del mondo dello spettacolo”. Sotto tale veste il gauchisme
condiziona i governi socialisti e cerca di ostacolare i programmi di
riforma dei governi di centro-destra, contando su pregiudizi che è
riuscito a generalizzare grazie al controllo dei mass media. L’unica
critica che Besançon muove a Baverez è di avere trascurato la presenza
dell’Islam in Francia, ma si tratta di un “problema senza soluzione”.E’
interessante l’intervento di un intellettuale, a suo tempo teorico del
gauchisme, Max Gallo, oggi romanziere e storico indipendente. Lo
scrittore nizzardo approva una visione pessimista che, basandosi su dati
economici, smentisce l’ottimismo ostentato dalla classe politica, ma
osserva che Bavarez, attenendosi a criteri di rigore contabile, ha
trascurato una “dimensione essenziale” della crisi nazionale, “la
dimensione morale e psicologica”, sintetizzata da un’espressione
drastica: “L’anima della Francia è ferita”. Da questo punto di vista
Gallo rovescia la definizione di Baverez, “un fiasco diplomatico”,
dell’atteggiamento assunto dalla Francia di fronte alla guerra
dell’Iraq, e parla del “sentimento di fierezza nazionale” provato dai
francesi. Comunque il paese ha bisogno di una “riforma”, ma una riforma
nazional, “francese”, che non tenga conto di princìpi imposti
dall’esterno, ma sia conforme all’anima “nazionale”. Resta il problema
dell’Europa. Max Gallo è d’accordo con Baverez: “Bisognerebbe rompere la
dinamica deflazionista europea”. Se non ci sarà una soluzione alla
francese, il popolo si adatterà alla decadenza e la crisi morale
ovviamente resterà.
Mentre Philippe Raynaud, più pessimista di Baverez ma appunto per questo
– come dichiara – più indulgente verso i governanti, propone una
soluzione esplicitamente gattopardesca, “cambiare tutto perché nulla
cambi”, per Patrick Jarreau il male francese sta in un antiamericanismo,
subentrato alla linea atlantica di Mitterrand, ma condiviso da una
destra gelosa della sovranità nazionale e dalla sinistra
altermondialiste (il nuovo nome dei no global) contro gli interessi
nazionali (tra l’altro l’economia francese e quella americana sono
complementari soprattutto sul piano finanziario). In realtà
l’antiamericanismo svolge una funzione interna, giustificando il
conservatorismo reazionario di una società chiusa: “La denuncia dei vizi
della società americana serve a nascondere ciò che dimostrano i suoi
successi: le virtù sociali dell’apertura, della mobilità e della
competizione”.
Anche per Pascal Bruckner alle radici del declino francese sta un
conservatorismo che ha adottato il linguaggio della rivoluzione, un
“neobolscevismo reazionario”, che manifesta soprattutto un odio feroce
del progresso ed un terrore di fronte alla marcia di una storia di cui
“non abbiamo preso abbastanza le misure”. Anche Bruckner contesta
l’antiamericanismo, ma aggiunge alcune osservazioni interessanti, come
la curiosa inversione dei ruoli nella cultura del lavoro: “In questo
inizio del XXI secolo le masse francesi adottano poco a poco il
disprezzo aristocratico del lavoro, mentre le élite abbracciano con
diletto lo schiavismo lavorativo un tempo riservato alla plebe”.
Appropriandosi del lavoro le élite si approprieranno dei destini della
nazione escludendo le masse. Bruckner mette in luce egualmente un
fenomeno paradossale: l’orgoglio della propria storia, la sfiducia
sull’avvenire, la tentazione di scaricare la colpa dei propri mali sugli
altri, Bruxelles, l’America, la globalizzazione, il neoliberalismo.
Allarmante, inoltre, è l’emigrazione giovanile dalla Francia a cui si
potrebbe aggiungere un’emigrazione ebraica provocata da ondate di
antisemitismo e della passività e dal silenzio dimostrati di fronte a
tali fenomeni dalla sinistra francese. D’altronde, conclude Bruckner, se
un mutamento benefico potrà sopravvenire nel nostro paese, sarà dovuto
all’attuale squadra di governo, nonostante una comprensibile
perplessità.
D’Artagnan al Panthéon
Lo stesso Baverez, riassumendo la sua tesi su Le Monde, ha partecipato
su tale quotidiano a un dibattito sotto un interrogativo più asettico:
Comment va la France? Come va la Francia?
La risposte variano di tono. C’è chi vede già avviata una “grande
trasformazione”, imperniata sul ruolo, non più delle istituzioni
tradizionali – l’esercito, la Chiesa, lo Stato, la Scuola, “ormai
indebolite” – ma di una classe imprenditoriale dinamica e veramente
aggiornata. Le vecchie ideologie, dal liberalismo al keynesismo, dal
socialismo al gollismo sono da rifare. Un “nuovo positivismo” permetterà
d’immaginare “un nuovo modo di governare, un nuovo legame tra l’economia
e la politica”.
C’è chi, come Alain Minc non vede vie di scampo perché si governa
“all’antica”. Governare all’antica significa, sotto il pretesto del
pragmatismo, controbilanciare gli opposti: privatizzare e
nazionalizzare, strizzare l’occhio agli uni e fare regali agli altri,
lasciare tutto lo spazio sociale ad uno Stato che è un miscuglio di
“padre nobile e di padre brutale”. Chirac sarebbe “di spirito un
radicalsocialista, modello III Repubblica, ma nel comportamento un erede
del bonapartismo”, ossia del dirigismo. L’opposizione è anch’essa
prigioniera del fascino di un modo di governare all’antica. La
conseguenza è che la Francia “va di male in peggio: il peggio è davanti
a noi”.
Meno pessimista sul piano economico Daniel Cohen ricorda che Francia,
Germania, Gran Bretagna, Italia, ossia le maggiori potenze europee,
hanno con poche differenze lo stesso livello di reddito. Il problema
della Francia è la crisi politica, dovuta al fatto che la distinzione
tra destra e sinistra si è andata sempre più attenuando. Ma in ogni caso
per Cohen lo Stato tutto fare, secondo il modello “socialstatalista” non
esiste, anche se la Francia fa fatica ad accettare questa scomparsa.
C’è chi si è appellato per arrestare il declino alla rivalutazione della
cultura del lavoro: “Quanti punti in più si avrebbero nella crescita se
ogni francese scambiasse una mezz’ora quotidiana di televisione con una
mezz’ora di lavoro straordinario”. “La civiltà del tempo libero è un
mito altrettanto poco realista della fine della storia o della guerra
pulita” afferma Michel Pébereau. C’è ancora chi, come un esperto di
questioni sociali Lionel Stoleru, accusa Chirac di sbagliarsi quando
ritiene che la Francia abbia bisogno di un “dialogo sociale”: c’è
bisogno invece di un rimescolamento sociale: “La Francia bassa non ha
bisogno di parlare con la Francia alta, ha bisogno di trovarvi il suo
posto e di prenderlo”. Ma ecco la domanda: “Quale ascensore sociale la
isserà?”. In altri termini, se non si trovano i canali giusti per
portare in alto i giovani dei ceti meno privilegiati. Stoleru,
osservando il “clima tiepido, fiacco, opaco, rassegnato” della ripresa
autunnale, modifica il titolo del famoso articolo di Viansson Ponté La
Francia si annoia. Trentacinque anni dopo il titolo più appropriato
sarebbe: La Francia si arena.
Infine altri saggi contemporanei allo scritto di Bavarez, come quelli di
Alain Duhamel su Le desarroi français e di Marcel Gauchet su La
condition historique, hanno insistito più su aspetti specifici del
declino che sull’esistenza di una crisi generale. Per Duhamel, per
esempio, la Francia soffre di una nostalgia della politica: spazzate le
vecchie ideologie, è in attesa delle nuove. I francesi, in altri
termini, si trovano in una situazione preideologica.
Per ora il dibattito resta circoscritto ai circoli intellettuali e
dirigenziali. Siamo lontani dal maggio del 1968, e dalle tumultuose
agitazioni e dagli slogan di una gioventù arrabbiata: “l’immaginazione
al potere”, “lottate nella prospettiva di una vita appassionante”. Il
risvolto romantico ed emotivo di questa analisi del declino è stato così
poco evidente che un ex ambasciatore americano a Parigi, banchiere di
professione, è intervenuto e, premesso che la Francia è sempre una
potenza maggiore, ha alluso ai vari temi discussi ed ha ammonito: “Senza
un’economia forte e stabile, non ci saranno soluzioni durature per
questi problemi, io stimo che una democrazia moderna deve mantenere una
crescita economica del 3,5 per cento al minimo”. Ma in ogni caso tutto
dipenderà dalla politica che la Francia svolgerà nell’ambito atlantico
ed europeo.
Al dibattito, tuttavia, hanno partecipato anche i grossi calibri. In una
serata in un teatro parigino Edwy Plenel ha intervistato il ministro
dell’Interno Nicolas Sarkozy e il segretario del Partito socialista,
François Hollande. Il primo ha riconosciuto che la società politica ha
dieci anni di ritardo sulla società civile ed ha ammesso il peso minore
della potenza economica attuale della Francia rispetto all’epoca
coloniale: “Ma non esiste la vocazione a rimanere un grande paese se gli
abitanti del grande paese non sentono una grande ambizione”. Oltre a
tutto è venuta meno la sicurezza dell’impiego: “Nessuno è oggi sicuro
che se nasce con un ruolo morirà con quello”. Per Hollande il declino
non è economico, ma c’è “una crisi di risultati” perché di governo in
governo emergono sempre gli stessi problemi; la disoccupazione, il
deficit, la previdenza sociale. Il leader socialista segnala inoltre
“una crisi della democrazia” perché quel modello di integrazione
repubblicana “a cui il nostro paese deve i suoi successi” non funziona
bene come prima. Questa crisi ha due aspetti, da un lato l’astensione
dal voto di consistenti sezioni del ceto impiegatizio e della classe
operaia, dall’altro il trattamento delle comunità etniche.E’ soprattutto
sul secondo aspetto che si sofferma a lungo il dialogo tra i due
politici che danno prova in merito di un’analoga incertezza.
La teoria del declino non influisce sulla mistica del post-gollismo che
continua ad inoltrarsi su percorsi culturali continuamente riconfermati.
Così Chirac, dopo aver reso omaggio a Zola e a Victor Hugo, ha celebrato
anche l’inumazione nel Panthéon di Alexandre Dumas, premiando così
l’autore di un’opera che “fa parte della nostra memoria collettiva e ha
partecipato all’edificazione della nostra identità nazionale”. Il
fattore nazionale rimane primario e va valutato pertanto nel suo
rapporto positivo o negativo con il declino.
Deficit di Grandeur
L’identità di un paese si definisce all’esterno secondo il suo
comportamento, ossia secondo la sua politica estera. Ebbene, la politica
estera francese ultimamente non è forse in declino, ma certamente ha
adottato un basso profilo. Su tale terreno la Francia rischia davvero di
cadere.
Un noto esperto Thierry de Montbrial, intervenendo nel dibattito, non
nega il declino: la Francia non ha ancora superato l’umiliazione del
1940, de Gaulle ha cercato di restaurare la doratura del blasone,
puntando su un direttorio a tre: Stati Uniti-Gran Bretagna-Francia senza
riuscirci e senza accontentarsi del primato interno nella piccola Europa
dei Sei. L’unificazione tedesca e l’allargamento dell’Unione europea
hanno ulteriormente ridimensionato la posizione della Francia, ma ancora
oggi la sua importanza dipenderà dal suo apporto all’impianto europeo.
Il dilemma che si pone alla diplomazia francese è sempre quello di agire
attraverso l’Europa o per conto proprio. L’editorialista di Le Monde,
Daniel Vernet, contesta l’accusa della Francia a rifarsi grande in
funzione del suo antagonismo con gli Stati Uniti, ma nota non senza
compiacimento il fatto di essere riuscita, in occasione della guerra
dell’Iraq, ad annullare un tabù, l’allineamento di principio della
Germania a fianco degli Stati Uniti. La politica estera in funzione dei
rapporti franco-americani è stata discussa in un confronto pubblico,
animato egualmente da Edwy Plevel, tra il ministro degli Esteri
Dominique de Villepin e l’ex primo ministro socialista Laurent Fabius.
Il Ministro si è preoccupato soprattutto di confermare che la Francia ha
“una sua visione del mondo”, difende convinzioni e ideali, i princìpi
dell’ordine internazionale, come ha inteso fare in occasione della
guerra dell’Iraq.
Fabius, pur ribadendo una posizione contraria all’intervento americano
nel Medio Oriente, ha definito l’antiamericanismo “una grande
stupidaggine”. I problemi nascono dal fatto che “i francesi non
conoscono bene gli americani, non li capiscono e che simmetricamente gli
americani non capiscono sempre ciò che è la Francia”. Ma paventa
soprattutto che gli Stati Uniti abbandonino l’atteggiamento benevolo
assunto verso l’integrazione europea.
Villepin alza la cresta: ricorda che la Francia è una potenza militare,
possiede l’esercito più operazionale del mondo dopo quello degli Stati
Uniti e fornisce contributi sostanziosi nella lotta contro il
terrorismo. Nondimeno non risponde in modo esauriente ad osservazione di
Plevel, che ha ripreso una battuta di de Gaulle: “Io sono su un
palcoscenico e faccio finta di crederci. Faccio credere che la Francia è
un grande paese. È un’illusione permanente”.
Declino dunque anche sul piano internazionale? Il deficit di grandezza,
di grandeur non è ricuperabile. Tuttavia, sia pure alla pari con la
Germania, la Francia esercita nell’Unione europea un’influenza se non
egemonica condizionante. Lo ha dimostrato, grazie all’appoggio della
presidenza italiana, dando un colpo sperabilmente mortale al famigerato
Patto di stabilità che, se attuato alla lettera avrebbe effettivamente
generato e accelerato la tendenza al declino non solo delle due maggiori
potenze europe,. ma dell’intera Unione. Se, come si preannuncia la
Francia e la Germania rilanceranno la crescita e lo sviluppo, si
profilerà per la Francia, non tanto il ritorno ad una grandeur ormai
crepuscolare, bensì un ruolo guida pratico e conveniente per tutti,
senza cadute o scivolate.
29 gennaio 2004
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