Considerazioni sul declino francese
di Pascal Bruckner
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004

La Francia di oggi è caratterizzata da un conservatorismo che adotta il linguaggio della rivoluzione. Dai partiti di estrema destra a José Bové, tutti coloro che non vogliono minimamente modificare lo stato attuale delle cose, tutti i partigiani dell’immobilismo, attingono dalla retorica del movimento. Come il fascismo contemporaneo è antifascista nella sua oratoria e sostiene di lottare contro la peste dell’estremismo di destra – basti considerare l’Eta basca, Milosevic o la maggior parte dei nazionalisti corsi –, così questo neo-bolscevismo reazionario, piuttosto sconcertante a prima vista, mostra più di ogni altra cosa un odio feroce per il progresso, un vero e proprio terrore di fronte all’avanzare della storia di cui ancora non conosciamo appieno la misura. Contrariamente ai nordamericani, che continuano a voler colonizzare quello sfuggente territorio che è il futuro, i francesi sembrano aver completamente perso la fiducia nei poteri del tempo, che, da fattore fecondatore, in grado di migliorare ed arricchire, si è trasformato in vettore di degradazione, capace di sconvolgere, minacciare le posizioni acquisite. Ogni innovazione viene accolta con diffidenza, come se recasse in sé il marchio del diavolo.

Due avvenimenti illustrano questa mentalità meglio di mille discorsi. La reazione francese alla seconda guerra del Golfo è andata ben oltre una professione di fede pacifista, di per sé del tutto legittima. Il clima di isteria che si è impossessato del paese, la quantità impressionante di insulti rivolti a George W. Bush, paragonato, di volta in volta, e dalle menti più brillanti, a Bin Laden, a Saddam Hussein, a Stalin e a Hitler, ha lasciato intendere che Washington, mobilitatasi contro Baghdad, fosse un Terzo Reich deciso a cancellare dalla carta geografica la pacifica Svizzera. L’apocalisse incombeva: senza alcun dubbio eravamo alla vigilia della quarta guerra mondiale. In poche parole, la Francia, soprattutto per quanto riguarda le sue élite intellettuali, ha reagito in modo decisamente eccessivo con un’unanimità di opinioni raramente verificatasi in passato: come se il crimine principale degli americani fosse quello di voler demolire lo status quo in Medio Oriente, modificando il modello mentale in cui abbiamo richiuso questa regione ed il mondo arabo-musulmano nel suo insieme. Infine, gli scioperi organizzati in primavera, al di là delle rivendicazioni di categoria, sono stati l’espressione di una paura che sembra essere ormai il sentimento meglio condiviso dal popolo transalpino: i francesi hanno paura del mondo, paura degli altri e, ancor più, paura di loro stessi.

Non solo: hanno paura della loro paura. Ecco da cosa dipende l’aspetto depressivo di queste astensioni dal lavoro, in cui il vigore della protesta mal mascherava una velata malinconia: gli stessi manifestanti sembravano non credere più nei cortei e negli scioperi; davano l’impressione di inscenare nuovamente per il pubblico un dramma già scritto e già visto. Così si spiegano l’onnipresenza del tema della lamentela in numerose professioni ed i ripetuti appelli allo Stato, visto come ultimo baluardo, ultima istituzione parentale in grado di proteggere i cittadini dall’ignoto, dalle tenebre. La Francia geme, piange, sanguina e si considera martire. Tuttavia, lo ripeto, tutta questa sofferenza assume il tono della contestazione e della lotta, come rivela, ad esempio, un sindacato come Sud, i cui discorsi tendenzialmente di sinistra sono un semplice artificio dietro al quale si celano rivendicazioni di carattere strettamente corporativo. Degna di menzione particolare è la pittoresca tribù degli “anticapitalisti radicali” e di altri altermondialisti o antimondialisti (e l’imprecisione semantica esprime bene l’imprecisione del pensiero): uno strano agglomerato di correnti che evoca Cabet, Proudhon o Considérant più che Marx o Engels e che critica il capitalismo per motivi errati, perché culto del profitto, risparmiandolo invece per quanto riguarda i suoi veri difetti, ossia la perdita di fiducia, la corruzione, il denaro facile, il crollo dell’etica imprenditoriale.

Dal lavoro agli svaghi

I francesi, in generale, hanno perso il gusto del lavoro, abbandonando l’idea che esso permetta non soltanto di guadagnarsi da vivere, ma anche di crescere e realizzarsi: è agli svaghi, ormai, che affidano questo ruolo. Mentre le classi definite lavoratrici aspirano sempre più al tempo libero, i dirigenti si ammazzano di fatica ostentando il superlavoro come segno di superiorità sociale. All’inizio del XXI secolo, le masse francesi fanno proprio, poco a poco, il disprezzo aristocratico del lavoro laddove le loro élite abbracciano con gioia la laboriosa schiavitù una volta riservata alla plebe. Con un rischio evidente: riappropriandosi del lavoro, i nuovi padroni si riapproprieranno anche del destino della nazione e finiranno per mantenere tutti gli altri, ridotti a divertiti servi della gleba. Questo segnerà la fine del patto democratico, poiché la libertà della maggioranza dei cittadini, privati del loro status di produttori e ridotti a consumatori di svaghi, si ridurrà ad un semplice formalismo. Non sono state le trentacinque ore, quindi, a rendere i francesi adepti del “diritto alla pigrizia”: esse hanno ratificato un rapporto con il lavoro già esistente.

Senza voler entrare nell’analisi delle arcane motivazioni di un comportamento complesso in cui la persistenza di uno sciopero di massa da trent’anni gioca un ruolo importante, è chiaro che il lavoro non viene più percepito come un mezzo per arricchirsi: non soltanto ha cessato di rappresentare una certezza, in quanto il possesso di un diploma non garantisce necessariamente una carriera, ma non assicura neanche più quell’ascesa sociale che in passato permetteva ai giovani di vivere meglio dei loro genitori. Il famoso patto repubblicano – i figli e le figlie prospereranno più dei padri e delle madri – è ormai moribondo. Lo spettro del declassamento, del depauperamento ossessiona varie professioni che hanno perso sia il credito di cui godevano all’interno della società, sia la speranza di raggiungere la prosperità. Sebbene si tratti di un fenomeno che sta colpendo tutti i salariati dei paesi sviluppati, in Francia è più accentuato a causa dei blocchi persistenti della società transalpina. I francesi opporrebbero minor resistenza ai cambiamenti se ai vantaggi soppressi – e irrisori a livello personale – corrispondesse un guadagno in fatto di prestigio e remunerazioni compensative. Ma questo non accade. Quello da bere, benché forse necessario, è un calice amaro. Ciò nonostante, chiunque non speri di migliorare la propria vita attraverso la propria attività non ha motivo di accanirsi tanto. Tutto il resto è letteratura.

Sentirsi sminuiti

La Francia, maestra ormai da mezzo secolo nell’arte di sopravvalutarsi, si trova oggi a doversi brutalmente confrontare con una realtà che mal sopporta: la sua importanza sul piano internazionale è diminuita. E’ come se il paese transalpino, in passato faro di civiltà per il mondo intero, nazione illuminata e patria degli illuministi, si fosse improvvisamente reso conto di essere ormai tagliato fuori e di non poter più stabilire le regole del gioco planetario. Qualcosa gli è sfuggito: è invecchiato senza rigenerarsi. I francesi vivono di glorie passate come quelle vecchie famiglie rovinate che si rifiutano di ammettere lo sperpero del loro patrimonio. Accumulano una vanità senza eguali, legata al ricordo della Rivoluzione e dell’Impero, con una mancanza di fiducia tipica delle nazioni indebolite. Decisamente, è il peggiore dei casi: alla Francia manca quella fierezza di sé così lampante in America, senza la quale non si compie niente di grandioso (quello francese è un popolo di dileggiatori più che di imprenditori), e quella curiosità verso gli altri che è segno di modestia ed intelligenza. Da qui nasce una duplice tentazione: voler addottrinare il mondo intero e dare alle proprie debolezze l’apparenza di una scienza superiore. E da qui derivano anche l’uso smodato di capri espiatori e la consuetudine di far ricadere la colpa sugli altri, di accusare Bruxelles, gli Stati Uniti, la “mondializzazione”, il neo-liberalismo di tutti i mali che ci affliggono.

Un’emigrazione volontaria

Ultimo punto: i francesi, forse per la prima volta nella loro storia, iniziano ad emigrare volontariamente. Innanzitutto per motivi economici: mancanza di opportunità sul territorio nazionale, situazione sinistrata della ricerca di un impiego, carico fiscale insostenibile inducono i giovani più brillanti a partire per Londra, New York, Bruxelles, San Francisco, mete dalle quali certamente non ritorneranno senza forti incentivi materiali ed allettanti prospettive di carriera. Buona parte del capitale intellettuale del paese si dilegua in questo modo. Ma ci sono anche ragioni politiche: parlano di lasciare la Francia, per stabilirsi in Israele o negli Stati Uniti, numerosi ebrei francesi, scioccati dalle sevizie e dagli insulti con cui i magrebini li tormentano nelle scuole e per le strade. Senza voler drammatizzare all’eccesso un fenomeno che ha poco a che vedere con gli avvenimenti degli anni Trenta, si tratta comunque di un fatto emblematico: ogni qual volta attraversa un momento critico della sua storia o si trova in difficoltà con la propria identità, la Francia se la prende con i suoi ebrei, sebbene oggi questo accada attraverso lo specchio deformante del conflitto israelo-palestinese. La scandalosa apatia della sinistra in occasione degli incendi alle sinagoghe e delle aggressioni antisemite del 2000 e del 2001 è stata, per fortuna, sostituita dall’atteggiamento più offensivo del nuovo governo. Tuttavia non basteranno semplici operazioni di polizia a ristabilire la serenità e l’armonia tra comunità infiammate dalla propaganda del Fronte nazionale, che è riuscito ad istillare la giudeofobia in molti immigrati nordafricani e il razzismo antiarabo in buona parte degli ebrei. E’ anche vero, però, che se un giorno, come teme Jacques Attali, le elezioni presidenziali dovessero contrapporre Marine le Pen e Olivier Besancenot, eredi proclamati dei due totalitarismi del XX secolo, per molti francesi l’esilio diventerebbe l’unica scelta possibile. Grazie a Dio, non siamo a questo punto!

Perplessità

Non esiste posto migliore in cui vivere di un paese in declino, quando la vitalità smorzata di un popolo raddoppia la dolcezza delle sue tradizioni. Anche se dovesse precipitare, la Francia rimarrebbe pur sempre ciò che in parte è già: un magnifico museo ed un’impareggiabile meta turistica per villeggianti agiati. In altre parole, un terzo mondo di lusso. Ma come fare a rassegnarsi ad un destino del genere? Caratteristica delle grandi nazioni è di commettere errori e di superarli, uscendone ancora più grandi. Non esistono basi sulle quali affermare che l’attuale declino francese, del resto comune a tutta Europa, sia il segno di una decadenza irreversibile o rappresenti il preludio di una metamorfosi solo vagamente intuibile al momento attuale. Combattere le proprie fragilità significa innanzitutto riconoscerle, accettare l’esattezza, se non addirittura la crudeltà, di una diagnosi che costituisce l’unica opportunità di ripresa della nazione. La Francia è un paese lirico: quando cade, cade anche nell’enfasi, nello sproloquio, riempiendosi la bocca di belle parole sulla propria grandezza, sulla sua missione universale. Queste impennate retoriche non sono altro che semplici coprimiserie: non si è mai parlato tanto dell’ascendente della Francia come da quando è iniziato il suo declino. Ecco perché, in un momento in cui la sinistra ufficiale rifiuta di aggiornarsi e si cimenta in gare di demagogia, la situazione ci obbliga a sostenere l’attuale governo, per quanto titubante esso possa mostrarsi e a prescindere dall’opinione personale sulle sue scelte in fatto di politica estera, che lo vedono allontanarsi dall’atlantismo per corteggiare l’autocrate Putin. Se in Francia si dovesse verificare un cambiamento positivo, sarà opera di questa formazione e di nessun’altra. È lecito, ahimè, essere perplessi, ma non è permesso accontentarsi di belle parole.

29 gennaio 2004

(traduzione di Sarah del Meglio)
© Commentaire - Numéro 103/Automne 2003,
Remarques sur le déclin français
 

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