Tra riforma elettorale e transizione
intervista a Gaetano Quagliariello di Alessandro
Marrone
[19 ott 05]
Cosa ne pensa delle ultime affermazioni di Benedetto
XVI e del dibattito che ne è seguito?
Le affermazioni del Papa risultano persino scontate per chi conosce il suo
precedente pensiero: da anni il cardinale Ratzinger insisteva sul fatto
che la fede non possa perdere una dimensione pubblica, ed essere rinchiusa
in quello che lui stesso ha definito “il ghetto della coscienza
individuale”. Ciò vuol dire che c’è un pericolo di teocrazia? Io non
credo, perchè questa riflessione di Benedetto XVI poggia su due
fondamenti. Il primo è la consapevolezza che in Europa il cristianesimo è
diventato un fatto di minoranza, ha perso l’egemonia non solo nell’ambito
religioso ma anche in quello della coscienza civile diffusa: quello che il
Papa definisce il relativismo etico oggi è molto più forte. La seconda
premessa è una riflessione su cosa significhi la separazione tra Chiesa e
Stato. Il Papa non mette in dubbio il principio della separazione, che è
sacrosanto e che ritiene una conquista sia per la Chiesa che per lo Stato.
Il problema è come questa separazione si debba esplicare: se voglia dire
la definizione di due sfere scisse e contrapposte, oppure voglia dire che
ci sono degli ambiti propri della Chiesa e dello Stato all’interno di una
dimensione pubblica nella quale la religione, anzi le religioni, possono e
devono partecipare. Sotto questo aspetto, Benedetto XVI sembra aspirare al
radicamento sul continente del "modello americano" in cui le Chiese sono
sì separate ma partecipano al dibattito pubblico.
Quale peso lei pensa abbia oggi la Chiesa nel
dibattito politico italiano?
Noi usciamo da una fase in cui la Chiesa aveva un forte potere politico
diretto attraverso il suo “braccio” politico che era il partito unico dei
cattolici, la DC. Dal ’93-‘94 c'è chi ha temuto si aprisse una fase quasi
di “neo-Gentilonismo”: una Chiesa che “contratta” con il potere politico
usando le influenze diffuse in entrambi gli schieramenti. Io non nego che
un "residuo" del passato permanga. Che vi siano ancora tentazioni di
partiti unici dei cattolici o di contrattazioni tra poteri. Credo però che
non si stia andando in nessuna delle due direzioni: da un lato l’unità
politica dei cattolici è inutile e impossibile da ricercare perché ormai
le propensioni politiche degli stessi movimenti ecclesiali sono
estremamente differenti; dall’altro lato la vera influenza che la Chiesa
può avere è di tipo culturale, e dunque agisce nella società
indipendentemente da una collocazione politica in senso stretto, sulle
battaglie che ritiene inderogabili. E sotto questo aspetto il peso della
Chiesa è crescente, perché senza dubbio gli scontri che hanno al centro la
questione della vita e i problemi indotti dallo sviluppo della scienza e
della tecnica si presentano come i veri temi del nuovo secolo. La profezia
di chi aveva previsto il XXI come il secolo delle religioni inizia a
manifestarsi meno assurda di come si pensava.
Secondo lei qual è il principale pregio e quale il
principale difetto della riforma costituzionale attualmente in discussione
in Parlamento?
Il suo maggiore pregio è la razionalizzazione del federalismo: per quanto
sia chiamata “devolution” è una riforma che per molti aspetti fa un passo
indietro rispetto all’attuale Titolo V, rimediando in parte alla
conflittualità endemica che esso ha provocato tra Stato e Regioni sfociata
nella mole di ricorsi alla Corte Costituzionale. Il suo maggiore limite è
nella definizione del rapporto tra Premier e maggioranza: nell’attuale
formulazione non crea più stabilità perché ingessa eccessivamente le
maggioranze, e rischia di dare un potere eccessivo a piccole minoranze che
saranno padrone delle coalizioni. Il “divieto” per un Premier di poter
utilizzare voti anche dall’opposizione crea una situazione che in mancanza
di maggioranze molto ampie può portare all’instabilità. Questo è
certamente un limite, perché in un sistema istituzionale maturo una
maggioranza deve poter governare anche solo con 1-2 voti di scarto.
Lei insegna Teoria e Storia dei Partiti Politici
alla Luiss. Quali effetti avrebbe sul sistema partitico italiano la
riforma proporzionale proposta dalla CdL?
Io penso che i sistemi elettorali siano un fatto empirico e
approssimativo, che vanno dunque interpretati all’interno di un contesto
storico e generale al cui interno sono molto importanti le norme
costituzionali. L’illusione che cambiando un sistema elettorale si cambi
tutto nella storia d’Italia è stata scontata già diverse volte. Bisogna
vedere se la riforma si abbina o no ad un sistema di Premierato che dia la
possibilità al Premier di sciogliere le Camere (in questo caso, sia detto
per inciso, anche il limite della riforma indicato poc'anzi andrebbe
riconsiderato). In linea generale ritengo che questa riforma ad ogni modo
chiuderà una stagione politica apertasi con il 1994, ed inizierà una
transizione che s’innesta su una precedente transizione non conclusasi.
Generalmente una riforma proporzionale rafforza l’identità dei singoli
partiti, che si presentano con il proprio simbolo e la propria lista.
Penso però che potrebbe verificarsi un paradosso in Italia: che il
proporzionale acceleri un processo di trasformazione delle forze
politiche. Siamo alla vigilia di un rimescolamento di carte, e non sono
affatto convinto che i partiti che oggi sono considerati "maggiori"
saranno quelli che domineranno la scena politica dei prossimi anni. Rimane
da giudicare se ciò sia un bene o un male, ma questo è un giudizio
politico che ognuno può dare in termini diversi.
Lei crede che il partito unitario del centrodestra
sia attuabile?
Fare dei partiti unitari con la proporzionale è ovviamente più difficile.
Da un punto di vista politico-culturale non ci sono ragioni eccessive che
giustifichino la frammentazione attuale, sono abbastanza chiari i
cleavages, le linee di frattura, che separano uno schieramento di tipo
progressista da uno di tipo liberal-conservatore. Ho l’impressione che ciò
che osta all’unificazione di diversi partiti sia la forza delle
nomenklature, e che sotto questo aspetto la riforma proporzionale possa
dare loro un po’ di vitamine.
Cosa pensa dell’attuale stallo del processo di integrazione europea dopo
il no franco-olandese alla Costituzione?
La penso come Blair: l’Europa in questo momento non ha una direzione
chiara; ha perso la bussola. È evidente che non si torna indietro, ma per
ripartire è necessario ripensare il progetto e rimettersi d’accordo, così
come avvenne nel 1954 dopo la sconfitta della Comunità Europea di Difesa.
Credo che la bocciatura del Trattato costituzionale abbia la stessa
portata: allora si ebbe la forza di rimboccarsi le maniche e di ripartire
su un’altra strada, credo che oggi si debba seguire quell’esempio storico.
Ci vuole dire cos’è la Fondazione Magna Carta che Lei dirige?
È quello che negli Stati Uniti chiamano un “think tank”: un laboratorio di
proposte politiche. È chiaro che ha un forte connotato politico-culturale,
nel senso che è fatto da gente che non ha paura di schierarsi e non
ricerca una collocazione “bipartisan”, ma d’altra parte sta sul “mercato
politico” e quindi non teme di dialogare e magari a volte di trovarsi
d’accordo con i propri avversari. La cosa importante è che la fondazione
sia collocata un passo avanti e non un passo indietro rispetto alla
politique politicienne: ha finalità di elaborazione e divulgazione “alta”,
tramite ad esempio borse di studio e una summer school che inizierà l’anno
prossimo, e cerca di influenzare la politica attraverso le idee. La
politica in molti altri paesi conosce già la “divisione del lavoro”: è
finito il modello del politico integrale che elabora, pensa, e “fa” la
politica, nessuno è onnisciente e gli staff sono una grande conquista di
modernità. Magna Carta è un prodotto di questa modernizzazione della
politica e a sua volta vorrebbe determinarne un ulteriore stadio.
Quale sono secondo lei le battaglie, le parole d’ordine, su cui Magna
Carta e in generale i “think tank” di centrodestra dovrebbero puntare?
Credo che oggi il discorso sull’identità abbia una sua prevalenza nella
politica mondiale, l’hanno dimostrato tutte le ultime elezioni a partire
da quella americana. Ad esso si connette il problema della politica
estera, per l’Italia molto importante: con essa non si vincono le
elezioni, ma mentre prima la politica estera era scissa da quella interna
oggi la comunicazione tra dimensione esterna e interna è molto più forte.
E poi c’è il grande tema delle riforme, della modernizzazione, che è stato
capito come bisogno ma ha avuto una traduzione empirica molto
approssimativa. Il problema è che prima era possibile comunicare questo
tema all’opinione pubblica in un’atmosfera di grande ottimismo, oggi la
cifra prevalente dell’inizio del secolo è di preoccupazione e di paura,
quindi bisogna trovare altri modi per comunicare questo bisogno che in
Europa è rimasto della medesima attualità.
19 ottobre 2005 |