Perché non posso dirmi liberale e votare sì
di Giovanni Orsina
[01 giu 05]
da “Il Foglio” del 1 giugno 2005

“L’imminente battaglia referendaria è uno scontro fra autorità e libertà. Da un lato una legge che obbliga tutti gli italiani a seguire uno standard etico unico, imposto dallo Stato; dall’altro la possibilità che ciascuno di noi segua i valori nei quali crede. Un liberale, date queste premesse, non può avere dubbi su quale debba essere la propria posizione”. Sono mesi ormai che mi rigiro fra le mani questo giocattolo intellettuale – fra i più utilizzati nella campagna per il “sì” – e che mi chiedo se davvero funzioni bene come sembra. È un individualista liberale chi ritiene che ogni individuo debba godere del maggior spazio di libertà che sia possibile, e che gli unici limiti alla libertà debbano essere funzionali all’ordinata convivenza fra gli individui – detto altrimenti, che la libertà di tizio finisca soltanto là dove comincia la libertà di caio. Fin qui, tutto bene. Che cosa dobbiamo intendere per “individuo”, però?

Perché è evidente che un ragionamento sui diritti degli individui è possibile soltanto a patto che si sappia che cos’è un individuo. E non solo. La definizione di che cosa sia un individuo non può essere lasciata agli individui: in primo luogo perché fin quando non li si è definiti, non si sa ancora chi essi siano; e poi perché attribuire dei diritti agli individui e al contempo dare licenza a chiunque di stabilire chi sia un individuo e chi no, equivarrebbe nella sostanza a non dar diritti a nessuno. Anche nella società più individualistica, dunque, almeno la decisione su che cosa debba intendersi per individuo non può che trascendere gli individui. In epoca di relativismo e di democrazia mi pare ragionevole immaginare che quella decisione non possa che toccare alla società stessa: sarà la collettività a stabilire, coi propri strumenti e le proprie procedure, chi sia intitolato a godere di diritti e chi no; e nel caso vi siano minoranze dissenzienti – minoranze, in particolare, convinte di essere limitate nella loro libertà perché costrette a rispettare i diritti di esseri ai quali, fosse per loro, li negherebbero –, queste non potranno che adeguarsi alla volontà della maggioranza.

La definizione di che cosa debba intendersi per individuo, insomma, è un’operazione intrinsecamente illiberale, collettiva, non individuale. Ma proprio per questo, ci viene detto, proprio perché attribuire diritti da una parte significa inevitabilmente sottrarre diritti dall’altra, posta di fronte ai casi marginali, ovvero ai casi nei quali è dubbio che si possa parlare di un essere in qualche misura riconducibile al genere umano, la collettività dovrà sospendere il giudizio e lasciare che ciascuno si regoli come meglio crede. Dovrà insomma adottare una posizione “terza”: senza rispondere né sì né no, e svincolando gli associati. Ora, questo ragionamento sarebbe impeccabile – si potrebbe rispondere – se non fosse che svincolare gli associati non è affatto una posizione “terza”.

Un essere o è titolare di un diritto o non lo è: tertium non datur. Se ad altri esseri è consentito decidere della sua vita o della sua morte, se è affidato al loro buon cuore, vuol dire che di diritti non ne ha, anche se quelli dovessero decidere di farlo vivere. Una collettività che davanti ai casi marginali decida di “lasciare liberi” i propri associati, insomma, non ha affatto sospeso il giudizio, ma in realtà ha fatto una scelta ben precisa: ha stabilito che no, i casi dubbi non debbono essere tutelati, e ne ha perciò reciso di fatto il legame col genere umano. Ma i casi dubbi sono tali proprio perché non si sa se siano legati al genere umano, e quanto, e come. E una collettività che di fronte ad essi decida senz’altro per il no compie una scelta che, in termini liberali, non mi pare affatto più legittima della scelta opposta.

È una collettività che ha deciso di dare una definizione “stretta” di individuo, così da poter dare a quanti considera individui diritti maggiori. Ha optato per l’intensità a scapito dell’estensione. Come la si possa considerare più liberale (o anche meno liberale, se è per questo) di una collettività che, preferendo l’estensione all’intensità, dia dell’individuo una definizione più “larga”, anche al costo di dare agli individui diritti minori, davvero non saprei. Stesso discorso potrebbe farsi adottando, invece che quello della collettività, il punto di vista del singolo associato. Un liberale, si dice, anche se convinto che ai margini del genere umano ci si debba muovere con cautela, anche se non è disponibile nella propria vita privata a gestire quelle aree periferiche come se con l’umanità non avessero nulla a che vedere, non può voler imporre queste sue convinzioni a chi non condivide la sua prudenza.

E di nuovo si pretende che vi sia una terza via: attribuire diritti, negarli, o lasciare libertà. E di nuovo una terza via non esiste: un liberale persuaso in coscienza che a una qualche categoria di esseri marginali alla nostra razza spetti qualche diritto, e che però lascia poi il rispetto di quei diritti al buon cuore altrui, si sta in realtà contraddicendo, ossia nega in conclusione quei diritti la cui esistenza ha postulato in premessa. Se credo che quei diritti ci siano, come posso, da liberale, non chiedere che siano tutelati, ossia incorporati in una norma valida erga omnes? A chi, negando l’umanità di quegli esseri marginali, mi darà dell’illiberale perché, imponendo le mie idee, violo i suoi diritti, potrò rispondere che a essere illiberale è lui, perché viola i diritti di quegli esseri marginali dei quali io postulo l’umanità. La mia posizione e quella del mio interlocutore saranno allora esattamente simmetriche, entrambe difendibili in termini individualistici a partire da due definizioni di individuo differenti, ma ugualmente frutto di una premessa etica soggettiva, discutibile e al contempo degna di rispetto.

Riassumendo. Una collettività, anche la più liberale, decide necessariamente di autorità chi sia titolare di diritti e chi no e impone alle minoranze il rispetto delle proprie decisioni. Quando ci si sta muovendo lungo i confini incerti fra l’umano e il non-umano, dove quella collettività decida di porre i limiti che separano la presenza dei diritti dalla sua assenza è cosa che riguarda la sua sensibilità, non il suo tasso di liberalismo. E ciascuno dei membri di quella collettività, anche il più liberale, ha il diritto e il dovere di decidere in coscienza dove ritiene che il limite debba cadere, o se si preferisce in quale modo i diritti debbano essere graduati; e di cercare poi di far sì che la propria concezione del limite e/o della graduatoria prevalga sulle concezioni opposte, ossia, si trasformi in legge dello Stato e sia imposta anche a chi non la pensa come lui.

Ragionare dei referendum in termini di libertà ed autorità significa dunque rispondere a un falso problema. Sostenere che ciascuno di noi abbia il diritto liberale di trattare gli embrioni secondo coscienza significa aver già dato per scontato che l’embrione non abbia alcun diritto, mettendosi per altro nella totale incapacità di comprendere le ragioni di chi invece crede che li abbia, e non percepisce quindi lo scontro come uno scontro “sui” diritti, ma come un conflitto, arduo e lacerante, “fra” diritti. Piantiamola allora di discettare di libertà e autorità, e ciascuno di noi s’interroghi seriamente, profondamente, in coscienza, sul punto nel quale lui, se vivesse su un’isola deserta, tirerebbe la riga fra l’umano e il non umano. Lì dove tira la riga, dovrà volere che la tiri anche la società in cui vive.

Per quel che mi riguarda, ho certamente molti dubbi sul luogo in cui quella linea vada tirata. Una sola altra cosa mi pare di poter dire: che anche ragionare in termini di laicità e clericalismo equivale a rispondere a un falso problema. A regola, è chi costruisce un mondo teocentrico che può infischiarsene di che cosa sia l’uomo. Chi invece da laico costruisce un mondo antropocentrico, dell’uomo deve star ben attento a farsene un’idea la più solida possibile, e pensarci sopra a lungo prima di allontanarsi dagli ancoraggi più robusti che quell’idea possa trovare, quelli alla natura e alla tradizione, presenti non per caso entrambi, e in forze, nella storia del pensiero liberale. Chi in un mondo antropocentrico indebolisce l’idea di uomo sta segando il ramo sul quale sta seduto. Che Dio ci aiuti, il giorno in cui avrà completato l’opera.

01 giugno 2005

 

 


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