La sfida dell’Onu è la prima prova per Fini
di Pierluigi Mennitti
[21 nov 04]

Per il momento, l’unico passo concreto compiuto dal governo in questi giorni, è stata la nomina di Gianfranco Fini a ministro degli Esteri. La turbolenza attorno alla decisiva riduzione delle tasse, rischia di far passare in secondo piano una svolta in qualche modo epocale per la politica italiana. Per la prima volta nella storia repubblicana post-fascista, la feluca di massimo rappresentante della politica estera viene indossata da un leader della destra. Per di più, un leader che è stato segretario del Msi, il partito erede dell’esperienza politica del fascismo. Un tabù ormai caduto, un altro passo verso il definitivo sdoganamento di un’area politica rientrata, a pieno titolo, nel circolo virtuoso della democrazia europea. Giusto, dunque, che a beneficiarne sia proprio Fini, che ha interpretato la svolta democratica del suo partito con grande perseveranza, fino agli strappi con il passato accentuati nella recente visita in Israele. E a poco serve rinfacciargli, come fa qualche commentatore di sinistra, il fatto che quelle svolte, più che determinarle, Fini le ha assecondate e se ne è impadronito solo nel momento in cui ha capito che potevano giovargli. Questo è stato vero solo nella fase iniziale del processo. Poi è stato lui a tirare il proprio partito verso il mare aperto, e non il contrario.

L’Unità, con evidente intento polemico, ha evidenziato una realtà di questo ultimo scorcio del governo Berlusconi: la politica estera è interamente affidata ad Alleanza Nazionale. Gianfranco Fini alla Farnesina con l’aiuto dell’efficientissimo sottosegretario Alfredo Mantica; Adolfo Urso al Commercio estero, in un vice-dicastero che l’esponente dell’ala liberale del partito gestisce con competenza e tenacia; Mirko Tremaglia al ministero degli Italiani all’estero; Gustavo Selva alla presidenza della Commissione Esteri della Camera. Se finora, dunque, il marchio berlusconiano si è fortemente impresso nelle linee strategiche della politica estera italiana, con il binomio Berlusconi-Frattini, da oggi toccherà al gruppo di An. E se una linea di continuità è già rintracciabile nelle prime dichiarazioni del neo-ministro Fini (rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, ruolo di ponte fra Europa e Usa per ricucire lo strappo atlantico, fiducia a Israele nel processo di pace in Medio Oriente), altre sfide metteranno alla prova la fantasia del titolare della Farnesina.

A partire dall’Onu, le cui vicende di corruzione che emergono con nuove indiscrezioni sullo scandalo “Oil for Food” (vedi il blog “The Right Nation” per le notizie aggiornate) rendono più complessa e delicata la partita italiana per il seggio permanente al Palazzo di Vetro. Nella guerra diplomatica che ci vede contrapposti alla Germania, l’Italia finora ha seguito un percorso tanto dilatorio quanto, in prospettiva, inefficace. A poco serve infatti insistere sull’ipotesi di un seggio unico dell’Unione Europea, giacché Francia e Inghilterra mai accetteranno di abbandonare una posizione di privilegio (essendo già membri permanenti) e la Germania è in vantaggio sull’Italia nella diplomatica guerra dei voti. In più, solo Romano Prodi oggi crede che l’Unione Europea sia una carta dotata di un qualche prestigio nel consesso internazionale: il presunto “ministro degli Esteri” di Bruxelles, Xavier Solana, conta come il due di picche e da questo punto di vista si può parafrasare una fulminante frase di Ronald Reagan, “l’Ue non è la soluzione, è il problema”.

No, l’Italia non può giocare né la carta del seggio unico dell’Ue, né quella di raggruppare tutti gli scontenti del grande gioco previsto al Palazzo di Vetro attorno a una propria candidatura. Intanto Berlino incalza e accusa l’Italia di non avere il coraggio neppure di presentarla questa candidatura, ma di far di tutto per ostacolare quella tedesca. Fini può uscire dal “cul de sac” decidendo di puntare più in alto. L’Italia non si accontenti di un posto al sole all’Onu ma si faccia promotrice di una grande battaglia per la riforma di un’organizzazione che ha mostrato, dagli anni Novanta, limiti mostruosi nella gestione delle crisi globali. E i cui vertici sono oggi sotto pressione per quello che molti deputati americani hanno definito uno dei peggiori scandali di tutti i tempi. Siamo sicuri che la Farnesina troverebbe orecchie alleate molto più attente in una grande battaglia politica piuttosto che nella questua (peraltro neppure presentata) di un seggio permanente.

21 novembre 2004

pmennitti@ideazione.com

 

stampa l'articolo