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      Detassare i ricchi conviene allo Stato 
		di Cristina Missiroli
 
 Dice Gianfranco Fini che diminuire le tasse ai “signori” non è tra le 
		priorità del governo. Una frase infelice per diversi motivi. La parola 
		“signori”, tanto per cominciare, puzza di invidia sociale e lotta di 
		classe. E, in questo caso, è usata a sproposito. Perché non è affatto 
		detto che un “signore” debba essere ricco, né che un ricco sia per forza 
		un “signore”. Ma la frase di Fini è doppiamente antipatica perché rende 
		esplicita una sensazione che da mesi tormenta l’animo di chi votò la 
		Casa delle Libertà sperando in una riforma (se non rivoluzione) 
		liberale. La sensazione è che ormai, la riforma delle tasse vada fatta, 
		in un modo o nell’altro, solo per non perdere la faccia di fronte agli 
		elettori. Il perché politico ed economico del taglio delle tasse, 
		invece, sembra perdersi nelle brume autunnali.
 
 La prima nebbia circondò Palazzo Chigi a luglio. Giubilato Giulio 
		Tremonti, Silvio Berlusconi fece il primo annuncio importante: a fronte 
		delle due aliquote sbandierate in campagna elettorale, la riforma 
		fiscale ne avrebbe prevista almeno una terza, più pesante, a carico dei 
		redditi più alti.Una mossa difensiva: An e Udc assediavano il Cavaliere 
		con l’accusa di voler favorire i ricconi. Quest’autunno Fini e Follini 
		sono tornati alla carica. Fino al muro contro muro degli ultimi giorni. 
		Un muro fatto però di demagogia, al quale Berlusconi sembra non saper 
		rispondere. Come se, quella nebbia avesse confuso le idee anche a lui.
 
      
      Eppure l’azzardo del taglio delle tasse che Berlusconi mise nel contratto 
		con gli elettori ha basi politico-economiche ben precise riassunte nella 
		curva di Laffer e sperimentate con successo da Ronald Reagan. In fondo 
		il concetto di base di questa teoria è molto “italiano”: dà per scontato 
		che, quando si tratta di dare soldi allo stato, i cittadini ragionino 
		tutti in maniera un po’ furbetta. Il modello applicato da Reagan spiega 
		che un livello troppo alto di tassazione è controproducente per due 
		motivi: nella migliore delle ipotesi scoraggia lo sviluppo, nella 
		peggiore spinge all’evasione fiscale. Da una parte l’imprenditore 
		tartassato finisce per non avere voglia di lavorare di più: più 
		guadagna, più l’aliquota di tasse che deve pagare è alta. Ogni sforzo 
		ulteriore risulta sproporzionato al rendimento. Ergo: molto meglio 
		un’aurea mediocrità. E chissenefrega se questo vuol dire meno sviluppo e 
		meno posti di lavoro.
 Questo ragionamento vale per l’imprenditore più coscienzioso. In realtà 
		l’alta tassazione produce effetti perversi anche sull’evasione fiscale. 
		Il ragionamento è semplice e ampiamente sperimentato in Italia. Una 
		tassazione sopra il 40 per cento non permette all’attività di 
		sopravvivere. Il cittadino decide di rischiare e tenta di evadere le 
		tasse. Se verrà individuato pagherà e, forse, fallirà. Altrimenti la 
		farà franca senza gettare mai un euro nelle casse dello Stato. E’ un 
		rischio calcolato. Un rischio che, se la quota da versare fosse più 
		ragionevole, non varrebbe neppure la pena di correre. Ed infatti è stato 
		ampiamente dimostrato che con un livello di tassazione più bassa i 
		contribuenti disposti a correre questo rischio diminuisce enormemente. 
		In altre parole, abbassare le aliquote per i redditi più alti significa 
		rendere l’evasione più costosa e meno conveniente anche per il cittadino 
		più maramaldo.
 
 Purtroppo l’attuale dibattito politico sul taglio delle tasse non sfiora 
		nemmeno questi argomenti. La battaglia politica appare come uno scontro 
		tutto emotivo. Sono troppi, anche tra i leader della Casa delle Libertà, 
		coloro ai quali pare un’intollerabile ingiustizia lasciare ai ricchi la 
		libertà di godere in misura più piena i frutti del proprio lavoro. E ci 
		si dimentica troppo spesso che si sta parlando dei membri più produttivi 
		della società. Di persone che guadagnano molto, non vincendo al 
		superenalotto, ma creando posti di lavoro e inseguendo intuizioni 
		imprenditoriali che vanno spesso a migliorare la vita di tutti. 
		Guadagnare di più non è (o almeno non dovrebbe essere) un peccato. E’ la 
		naturale ambizione dell’uomo che tende a migliorare se stesso e la sua 
		qualità di vita. Un genere di ambizione che un paese civile dovrebbe 
		tutelare, non azzoppare. Anche nell’interesse ultimo delle casse 
		dell’erario.
 
      
		4 novembre 2004 
      
		missiroli@opinione.it 
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