Fantasmi di ritorno
di Vittorio Macioce
da Ideazione, luglio-agosto 2004
La politica non è solo interessi e una manciata di ideali. Ci sono anche i
fantasmi, quelli che tornano quando si perde il senso dell’orientamento,
quando il sistema va in panne e non riesce ad andare né avanti né
indietro, e s’ingolfa. La politica, questa politica, sta ritrovando
vecchie tentazioni. Sono passati dieci anni da quando il maggioritario
sembrava il futuro. Era la politica italiana che voleva cambiare pelle.
Era il mito della Seconda Repubblica. Era la svolta dell’alternanza tra
alternative possibili, senza ricatti da cinque, dieci, due per cento. La
transizione non è mai finita, e c’è già la nostalgia per il proporzionale,
un sistema elettorale che promette a tutti una quota minima di ricatto. È
utile per spartire torta e potere, un po’ meno per governare e fare le
riforme che servono. Anche se ormai se ne parla da così tanto tempo che ti
chiedi se davvero non stanno tutti bene così, fermi a metà strada e con
una classe dirigente miope come una talpa. Tanto il futuro è già passato e
tanti saluti a chi verrà dopo. È il primo fantasma, ed è il più ridicolo.
Ma a lungo andare può spegnere un paese.
C’era un tempo, caduto il muro di Berlino, in cui anche la nomenklatura
dell’Iri si dichiarava liberale. Sembrava possibile privatizzare anche il
chiaro di luna. Ora i liberali sono tornati alla quota storica costante.
Pochi e quasi rassegnati. Tanto l’Italia morirà social-democristiana.
Quello che magari fa male è che liberale è tornato ad essere un aggettivo,
a sinistra come a destra, che si accompagna ad un gesto di supponente
fastidio, un modo per dire: «ancora con queste storie, basta». È colpa
nostra: in un paese di ex comunisti ed ex democristiani, ex fascisti, ex
di Lotta Continua o di Potere Operaio, ex socialisti e socialdemocratici,
ex repubblichini ed ex repubblicani, ex partigiani, ex sessantottini,
reduci ed ex reduci, trasformisti e trasformisti in attesa, ognuno con
orgoglio, storia e clientela da difendere, il liberalismo è riuscito ad
essere accusato di egemonia culturale, con i suoi adepti confinati nelle
catacombe. È arte anche questa. Tanto egemoni che, passati appena dieci
anni, siamo tornati a parlare di Stato “buono ed etico”, con in giro un
clima da proibizionismo, con la “salute pubblica” che interviene sul fumo
e sulla fecondazione, con l’ossessione di regolamentare ciò che resta
della libera circolazione di file e pensiero su Internet, con gli aiuti di
Stato alle aziende di Stato e l’allarme cinese alle frontiere, da chiudere
con belle dogane in stile Ottocento. È un fantasma anche questo, a destra
come a sinistra.
Il terzo odora di plutocrazia e si respira a gauche. Qualche tempo fa, il
primo di giugno, c’era su Repubblica un editoriale di Massimo Giannini.
Titolo: “Il nuovo asse con l’industria”. Parlava dell’alleanza tra la
vecchia Banca d’Italia e la nuova Confindustria. Parlava di Fazio e
Montezemolo. Ma dentro, ragionando, diceva qualcosa di più interessante.
Svelava un’antica tentazione della sinistra, l’idea di “sospendere” la
democrazia in nome di un alto e cosciente bene comune. Giannini,
naturalmente, non citava la parola democrazia, totem intoccabile, ma
faceva capire che ci sono momenti nella storia in cui i probiviri, come
dei dell’Olimpo o come filosofi platonici, hanno il diritto-dovere di
fermare la politica. Magari con un nuovo “patto sociale”. «Non sono –
precisa Giannini – i soliti e presunti Poteri Forti». Non c’è nessuna
cospirazione da ancien régime. «C’è – sostiene – la chiara sensazione che
i ceti dirigenti più responsabili, insieme ai gruppi sociali più
rappresentativi, abbiano compreso per l’ennesima volta, come già negli
anni Novanta, che è necessaria una nuova fase di supplenza, rispetto ad
una politica che non ha né la capacità né l’autorevolezza per guidare la
modernizzazione in un contesto di regole riconosciute e di valori
condivisi». Perfetto. Giannini dice che di fronte a Berlusconi chiamare i
probiviri a raccolta e ribaltare il governo non è peccato. Ma dice anche
che i voti di Berlusconi e del suo governo non contano. Dice che non è
necessario aspettare le prossime elezioni per premiare o punire la
politica di Berlusconi. Dice che bisogna fare come negli anni Novanta,
quando Ciampi e Amato presero in mano la situazione, quando andavano di
moda i governi dei tecnici, quando la politica era in ginocchio. Non parla
di Tangentopoli, ma il suo spettro aleggia. Dice, Giannini, che la
coscienza dei probiviri vale di più della democrazia. Dice tutto questo ed
è onesto, perché traduce ciò che pensa buona parte della sinistra. Fino in
fondo, senza reticenze. E conclude: «Il risultato (delle politiche
berlusconiane) è l’immobilismo belligerante di questi tre anni.
Montezemolo e Fazio, Bazoli e Billè, lo hanno capito. E insieme a Epifani,
Angeletti e Pezzotta hanno deciso di scendere in campo. Provano a giocare
la partita per conto loro. Se le cose stanno davvero così, il Cavaliere
rischia di non toccare palla».
Eccolo il fantasma. Evocare gli optimati nel nome di un presunto mos
maiorum. Chiedere una supplenza della politica, che è un po’ come dire, sì
c’è un Parlamento, ma siccome in questo momento la maggioranza non è
qualificata mandiamolo un po’ in ferie. Tanto il paese è in buone mani. Ma
cosa accade se il presidente degli industriali fa supplenza politica? E se
la fanno la Banca d’Italia e la finanza, i tre sindacati e il
rappresentante dei commercianti? Sembra un cattivo romanzo di
fantapolitica. Sembra un gioco pericoloso, perché alla fine puoi non far
toccare palla a Berlusconi, ma finisci per inquinare ancora di più il
sistema. Quel “patto sociale” di cui parla Giannini è la morte della
democrazia. E non credo che Montezemolo e Fazio, Batoli e Billè, Epifani,
Angeletti o Pezzotta abbiano voglia di partecipare al funerale.
24 agosto 2004
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