Identità e divisioni nell’Europa a 25
di Giuseppe Pennisi
Il dibattito sulla Costituzione europea andrà avanti nei prossimi mesi con
i referendum, già annunciati in Gran Bretagna, Polonia, Spagna e Polonia,
e poi con gli iter parlamentari di ratifica. Al momento, però, si tratta
semplicemente di un maxi-documento di trecento pagine illiberali (in
quanto ipotizzano un megastato impiccione) più che di un documento
pomposamente qualificato. E’ extra-large poiché si tratta di un enorme
trattato contenente solo norme e regolamenti amministrativi. Non è stato
varato da un’assemblea costituente. Non è fonte di diritto. Non ha neanche
forza di legge ordinaria o di regolamento. Sotto l’aulico mantello, però,
qualcosa c’è: un complicato “testo unico” che tenta di armonizzare i
numerosi trattati che da quasi cinquant’anni vengono proposti e riproposti
in nome dell’integrazione europea. Nei pertugi della stesura, affidata ad
un vero e proprio esercito di burocrati, è stata inserita qualche
innovazione in materia, ad esempio, di metodi di votazioni, di
architettura istituzionale e di creazione di qualche carica istituzionale
aggiuntiva (“jobs for the boys”, secondo il detto britannico). Come spesso
avviene in questi casi, il risultato è un vero e proprio labirinto di
norme, transizioni e cavilli: ciò rischierebbe di allontanare ancora di
più dall’idea di Europa i cittadini dei 25 paesi dell’Unione Europea.
Mai come in questo momento, all’indomani dell’allargamento, si confrontano
due modelli di Europa. Da un lato, c’è un’Europa che sembra virtuale,
dall’altro c’è un’Europa che è molto, anzi troppo reale. Nelle brume di
Bruxelles la prima discetta di un documento che pesa circa mezzo chilo,
inzeppato di torture retoriche e burocratiche e denso di clausole che
comportano modifiche alle Costituzioni legali dei paesi coinvolti. Invece,
proprio nelle settimane in cui si metteva a punto il testo del documento,
negli stadi del Portogallo si toccava con mano un’Europa dove non ci si
limita a sputarsi in faccia tra sportivi della stessa Ue. Ne succedono
ancora di più crasse: i tifosi inglesi hanno ululato al canto della
“Marsigliese”; i supporters olandesi hanno fatto lo stesso contro l’inno
tedesco. Di fronte al pallone le nazioni dell’Ue diventano “ultra”. Ma se
gli ultranazionalismi sono da condannare, le identità nazionali non
possono non rafforzarsi in un mondo in via d’integrazione in cui il
rischio di omologazione viene avvertito come molto forte. L’Europa
virtuale si allontana giorno dopo giorno dall’Europa reale. Le due si
avvicineranno quando nel calcio tifoserie e giocatori dei 25 saranno
pronti a cantare all’unisono in favore di una squadra Uefa contro un
ipotetico avversario americano od orientale. Un obiettivo, pare, molto,
molto lontano.
Pure nell’Europa delle cancellerie si confrontano due modelli. Da un lato
c’è la visione franco-tedesca di un’Europa federalista, anche se non
necessariamente federale, con forte integrazione politica ed economica ed
una politica estera e di difesa unificata; tale Europa dovrebbe essere
autonoma dagli Usa nel contesto globale e potrebbe anche avere una
politica estera e di difesa non solo distinta ma anche distante da quelle
degli Stati Uniti. Dall’altro c’è la visione capeggiata da Gran Bretagna e
Polonia di un’unione vagamente confederale in cui si trasferisce al centro
un minimo di sovranità, specialmente in materia fiscale, e quasi nulla in
materia di politica estera o di difesa. L’Italia e alcuni Stati
mediterranei (Portogallo e Grecia in primis) sono in una posizione
intermedia: un’Europa federalista in campo economico e sociale, ma con
politiche estere e di difesa tutt’altro che distanti da quella americana.
Mentre coloro che vergavano la Costituzione escogitavano marchingegni
sempre più complicati per trovare compromessi in aree dove le differenze
sono più profonde, gli elettori europei hanno fornito una chiara
indicazione di scarso interesse. Appena il 45 per cento degli aventi
diritto è andato alle urne (soltanto il 28 per cento nei nuovi Stati
membri); in quasi tutti i paesi (ad eccezione di Grecia e Spagna)
l’elettorato ha inflitto pesanti sconfitte alle coalizioni dei Governi in
carica, mandando a Strasburgo una pattuglia dei cosiddetti euroscettici.
Tutto ciò è un presagio chiaro per l’esito dei referendum ma è anche però
un monito a indirli, là dove ce la si vorrebbe cavare con un rapido
passaggio parlamentare. Probabilmente, in seguito alla consultazione
referendaria, il documento resterà solo agli atti come punta di un iceberg
mostruoso eretto su montagne di carte. Anche ove venisse ratificato da
tutti i 25, i suoi dispositivi chiave diventerebbero poco più di un
promemoria, come è già avvenuto per tanti altri trattati europei. Quello
di Maastricht, ad esempio, prevedeva “un sostegno attivo e senza riserve”
ad una politica estera comune: al primo scoglio serio, l’Iraq, i “grandi”
dell’Ue sono quasi arrivati alle querele. Il patto di crescita e stabilità
contiene punizioni severissime a chi sbaglia: Francia e Germania hanno
sbagliato e reagito con uno sberleffo. Prodi se ne è rammaricato. Il resto
dell’umanità ha utilizzato la frase di Petrolini a Mussolini, a fronte di
un’onorificenza senza un consistente contenuto pecuniario: “Cavaliere, me
ne fregio!”.
14 luglio 2004
gi.pennisi@agora.it
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