La successione impossibile a Giulio Tremonti
di Massimo Lo Cicero
Giulio Tremonti lascia il ministero dell’Economia con l’onore delle armi
che si riserva ad uno sconfitto, del quale anche i nemici più accaniti
riconoscono l’abilità tecnica e la competenza professionale. A queste doti
bisogna aggiungere la sua capacità di comunicare e di farsi capire. Ed
infatti l’opinione pubblica intende bene che Tremonti abbandona perchè
richiesto di farlo e perché il governo non condivide il suo progetto di
ridurre drasticamente le imposte: una scelta che egli giudica un trauma
salutare per innescare un ripresa di vitalità nel tessuto profondo
dell’economia italiana. Abbandonando il proprio ruolo, infine, Tremonti fa
chiaramente intendere che chi ne ha chiesto l’allontanamento esprime solo
una intenzione negativa: non condivide le opinioni ed i progetti di
Tremonti ma non sa indicare alternative efficaci e credibili insieme.
Questo compito, infatti, ricade ora interamente sulle spalle di Silvio
Berlusconi che, per salvaguardare l’unità della coalizione di
centrodestra, ha dovuto sacrificare un ministro di cui apprezzava la
competenza ed ha dovuto, parallelamente, impedire che quella posizione
fosse ricoperta da altri che non il premier stesso. Questa ultima
condizione deriva certo dalla necessità di eviatre innesti eterogenei
nella coalizione, anche per scongiurare una sorta di replica della crisi
parlamentare che trasformò Lamberto Dini da ministro del governo
Berlusconi in un presidente del consiglio gradito all’opposizione. Ma essa
deriva anche dalla esigenza di mantenere evidente il filo rosso che lega
la figura del premier in carica al contratto per una politica economica
più aperta al mercato e più liberale: contratto che il premier stesso
aveva siglato con gli italiani nella campagna elettorale.
Tremonti è persona difficile da sostituire: non solo per le sue capacità
professionali ma anche per la sua singolarità intellettuale. Egli rifugge
dai luoghi comuni: non è un difensore scolastico delle politiche amiche
del mercato e non è uno statalista, che ritiene di dover affidare allo
Stato la tutela dei deboli. Tremonti – e qui lo supporta la sua formazione
giuridica – crede davvero nella possibilità di creare istituzioni, terze e
diverse rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione, e crede che
questa creazione di enti e di contratti singolari arricchisca
effettivamente, e non solo sul piano formale, il tessuto del mercato e
l’insieme degli scambi possibili.
In questo Tremonti è certamente lontano dal pensiero convenzionale diffuso
nel ceto politico italiano. Ma, proprio per questo, la cultura pragmatica
ed operativa di un imprenditore di successo, come Berlusconi, farà fatica
a tenere dietro alle impostazioni ereditate da Tremonti. Mentre Tremonti
farà molta meno fatica ad incarnare, con la sua capacità di comunicare e
la sua intelligenza creativa, la voce del partito del Nord che non crede
nei rituali della politica romana e che pretende un rinnovamento radicale
della vita pubblica, all’insegna di una diversa percezione della
responsabilità individuale. Sarà, insomma, più difficile per Berlusconi
raccogliere l’eredità di Tremonti che per Tremonti proporsi come un leader
capace di continuare sulla strada del cambiamento anche dopo il governo
Berlusconi.
7 luglio 2004
maloci@tin.it
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