Election days. I giorni del giudizio
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, marzo-aprile 2004

C’era un tempo in cui ad ogni tornata europea un manipolo di commentatori moralisti lamentava il fatto che la campagna elettorale venisse giocata su temi di politica interna: Roma e non Bruxelles era al centro delle polemiche e delle contrapposizioni. Quando c’erano i comizi (e anche i primi spot televisivi, poi oscurati dal burqa scalfariano della par condicio), i leader di partito si accusavano nelle piazze di malgoverno o di mala opposizione, anche se quell’elezione avrebbe spedito un pugno di deputati in Belgio senza alterare gli equilibri politici italiani. Adesso il moralismo è saltato e nessun commentatore storce più la bocca. Capita così che la presentazione del listone del centrosinistra, con tanto di Ulivo-vintage e Prodi riciclato (ma solo per metà), avvenga all’insegna della più stringente polemica romana, con buona pace di quanti, solo qualche lustro fa, invitavano i politici a parlare d’Europa e non di Palazzo Chigi. Sarà che la politica europea è ormai diventata politica interna, come sanno le massaie di ogni paese (non solo d’Italia) costrette dall’euro a dimezzare la spesa: in Germania, dove l’aggettivo “costoso” si traduce in “teuer”, la moneta unica ha dato vita a un neologismo, “teuro” e i consumatori faticano ad apprezzare i vantaggi macro-economici che la sua introduzione ha indubbiamente portato. Sarà che l’Europa è diventata per l’opposizione italiana un’utile sponda per polemizzare con Berlusconi, secondo una propensione provinciale che porta i diessini a mobilitare i compagni euro-socialisti e i giornalisti a scambiarli per l’Europa intera. Certo è che la prossima scadenza elettorale di giugno ha già innescato una campagna furibonda, nella quale la sinistra spera di assestare al governo un colpo mortale e Berlusconi ha deciso di scendere in campo con il randello per difendere e rilanciare, a modo suo, l’immagine di presidente del Consiglio.

L’opposizione ha presentato le sue novità, che sanno tanto di déjà vu. Lungi da noi sottovalutare l’importanza di un cartello elettorale che si propone di semplificare la geografia partitica del centrosinistra, abbozzando l’embrione di un grande partito riformista che restituisca alla politica italiana la sponda di una sinistra moderna, ragionevole, capace di governare il paese senza trascinarlo sull’ottovolante del massimalismo girotondino. Una sinistra di cui si sente la mancanza da quando il socialismo craxiano venne abbattuto da un’azione giudiziaria che ha badato a ridisegnare la mappa politica del paese più che a curarne i mali della corruzione. Ma l’unione di Ds, Margherita e Sdi non convince come embrione di un partito riformista perché al suo interno confluisce una forza, i Ds appunto, che proviene dritta dritta dall’esperienza comunista. Alla quale dice di aver rinunciato senza però riuscire a spiegare a cosa è approdata. L’unica novità che ci è parso di cogliere nella convention neo-ulivista è stata la dichiarazione di un leader di primo piano dei Ds come Massimo D’Alema che ha dichiarato di essersi pentito della svolta neo-liberista, che aveva in realtà più annunciato (proprio su Ideazione in un’intervista del 1997 dal titolo “Noi, sinistra di mercato”) che praticato nei due anni del suo governo. Ds, dunque, non più comunisti e non più liberisti. Non blairiani ma antipacifisti a corrente alternata (Belgrado, do you remember?). Il riformismo dei Ds è un’aspirazione, una conquista tutta ancora da realizzare: l’artificio di un’alleanza elettorale con il centrismo statalista di Prodi e la scheggia socialista di Boselli ricorda tanto la scorciatoia giustizialista con la quale l’ex-Pci tentò di schivare le macerie del muro di Berlino e conquistare il potere in Italia (1994), o quella di arrivare alla guida del governo attraverso una manovra di palazzo (1998).

Un giornalista d’area avveduto ed esperto come Gianpaolo Pansa ha commentato con qualche sospetto il riformista day organizzato in febbraio dall’omonima testata con i leader dell’Ulivo-vintage. A suo avviso, i capi della cordata sono talmente galvanizzati dai sondaggi d’opinione da ritenere di aver già vinto tutto: non importa dunque declinare intenzioni e programmi con i quali vorranno governare il paese, perché la vittoria verrà per consunzione del centrodestra. E invece conta. Perché messi alla prova degli impegni di governo, i neo-ulivisti mostrano il respiro corto di un cartello elettorale, non quello strategico di una futura maggioranza. La politica estera, ad esempio, è argomento centrale del dibattito politico contemporaneo e dell’azione del governo ed è proprio il tema sul quale il centrosinistra ha una pluralità di posizioni talmente inconciliabili da presentarsi puntualmente diviso ad ogni tappa parlamentare. Ma anche su altre questioni, l’Ulivo-vintage non mostra chiarezza. La critica alla scarsa vena riformista del governo Berlusconi si scontra con la puntuale difesa di tutti gli interessi corporativi che di volta in volta vengono toccati dai progetti di riforma del centrodestra, così come le filippiche modernizzatrici che Romano Prodi è solito riversare da Bruxelles non trovano riscontro nel sostegno che il presidente della Commissione europea dovrebbe dare a quei governi (e dunque anche al nostro) che in tali riforme sono impegnati. E per dirla tutta, neppure nei cinque anni di governo dell’Ulivo: più tasse per finanziare l’entrata nell’euro, più tasse per mantenere un apparato burocratico che non si è mai pensato seriamente di riformare. Il nuovo Ulivo non ha saputo ancora proporre nulla oltre questo modello di vecchia socialdemocrazia, che tanto ricorda quell’Europe qui tombe analizzata nello scorso numero di Ideazione e quel declino italiano che la pubblicistica di sinistra vorrebbe furbescamente attribuire ai due anni di governo Berlusconi.

Quanto al centrodestra, i lunghi tempi di una verifica che nessuno ha veramente capito a cosa sia servita, un certo logorio dell’esercizio di governo quasi naturale a metà mandato, una campagna mediatica che ha strumentalizzato l’inchiesta giornalistica sull’impoverimento del ceto medio, hanno seminato depressione e preoccupazione. Sono emersi interessi diversi rispetto all’unità della coalizione che hanno impedito di varare una lista unica per le europee. Ma soprattutto l’offensiva mediatica dell’opposizione aveva quasi convinto il governo stesso di aver fallito le riforme promesse in campagna elettorale. Dall’altro lato il paese è pervaso dalle proteste corporative delle categorie interessate dalle tante riforme. Allora delle due l’una: o le riforme non ci sono, o le categorie protestano per nulla. C’è voluto un intervento dello storico Gaetano Quagliariello, che ha coniato il termine “ingorgo riformistico”, per descrivere quell’intasamento causato dai progetti di riforma che hanno “mobilitato, contemporaneamente, una quantità d'interessi in grado di provocare la fibrillazione anche della realtà politica più stabile”. E giù l’elenco dei progetti in corso: “riforma della Costituzione; riforma dell'ordinamento giudiziario; riforma delle pensioni; riforma del sistema radiotelevisivo; riforma della tutela del risparmio; riforma dello stato giuridico dei docenti universitari”.

Il governo di centrodestra ha dunque innescato il processo di modernizzazione, le riforme possono essere considerate buone o cattive nel merito, ma ci sono. Semmai l’errore è di strategia politica: aver ecceduto nel mettere mano allo status quo e non aver gradualizzato l’impeto riformista, dando alla classe politica prima, all’opinione pubblica poi, il tempo di familiarizzare con i cambiamenti proposti, di digerirli e considerarli un effettivo progresso. Questo dovrà fare la Casa delle Libertà prima della campagna elettorale: ordinare il flusso riformista per presentare agli elettori un calendario dei lavori in corso che non appaia confuso e affannoso ma frutto della politica di modernizzazione alla base del contratto con gli italiani. I partiti di governo vinceranno se sapranno dimostrare agli elettori la concretezza del loro operato smascherando il falso riformismo che anima la coalizione contrapposta. La campagna elettorale è appena iniziata e la partita è tutta da giocare.

30 marzo 2004

 

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