Dove va il giornalismo politico?
di Angelo Mellone
da Ideazione, settembre-ottobre 2003

Prima storia. La redazione del prestigioso New York Times, la bibbia del giornalismo liberal americano, viene sconquassata dallo scandalo di Jayson Blair, il giovane reporter accusato di aver copiato, o essersi inventato di sana pianta, le storie con cui confezionava i suoi articoli. Per colpa dell’incoscienza di un solo addetto, l’intera macchina del Nyt entra in crisi: dimissioni, autocritiche, outing, pesantissime riflessioni sulle capacità distorsive dei media.

Seconda storia. Il 17 luglio 2003, all’indomani della presentazione a stampa e parti sociali del Documento di programmazione economica e finanziaria, il ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, viene intervistato dal Tg1 Rai, ore 20.00. Una di quelle interviste in cui, a partire dalle inquadrature sul polsino della camicia, si comprende il tono confidenziale di chi vuole rivelare qualcosa. E la rivelazione, anzi la contro-rivelazione, arriva: la secca smentita che nel Dpef fosse mai stata contenuta una proposta di mutui ipotecari sulle case, pensata per rilanciare i consumi. Proposta su cui, invece, si erano concentrate nei giorni precedenti tanto l’attenzione dei media quanto le preoccupazioni di sindacati, partiti, associazioni dei consumatori, parti imprenditoriali ecc. Chi abbia ragione, in questo caso, è assolutamente secondario. Tremonti, nell’intimità di un’intervista televisiva “a due”, sente il bisogno di negare di fronte alle telecamere le ragioni stesse del putiferio che aveva occupato prime pagine, retroscena, indiscrezioni e lanci a raffica di agenzia, minandone il valore-notizia.

Terza storia. Sempre a metà luglio, il potentissimo spin doctor di Tony Blair, Alastair Campbell, da anni famoso per la grande influenza di “ombra nera” che gli viene accreditata sulle scelte del leader, si ritrova nell’occhio del ciclone - o, che è lo stesso, nell’occhio catodico della televisione britannica - con l’accusa di aver addomesticato un dossier sul potenziale degli armamenti dell’Iraq di Saddam. David Kelly, lo scienziato sospettato di leak, ovvero di aver “spifferato” la notizia alla Bbc, viene ritrovato morto poco dopo che lo scandalo è scoppiato: Campbell viene letteralmente messo sulla graticola e, nel giro di qualche giorno, il terribile valzer delle indiscrezioni si estende agli stessi giornalisti della Bbc, accusati a loro volta di aver manipolato un dossier già alterato, in un rincorrersi di velenose insinuazioni. E così, dopo il governo, incomincia a barcollare “la più autorevole industria giornalistica del mondo” in una storia romanzesca di manipolazioni e contro-manipolazioni. La prima storia riguarda un giornalista, la seconda un politico, la terza un portavoce governativo e il suo odiatissimo nemico, la televisione pubblica. Due di esse provengono da paesi in cui, a differenza di ciò che accade in Italia, al mondo dell’informazione viene tradizionalmente accreditato un ruolo di “terzietà” e di imparzialità nella narrazione dei fatti e dei protagonisti della politica. In Gran Bretagna le ricerche continuano a segnalare che, pur nel grande spartiacque a noi sconosciuto tra stampa “impegnata” e stampa “scandalistica”, i giornalisti si considerano soggetti di un servizio pubblico, mentre negli Stati Uniti si percepiscono come i “cani da guardia” del potere. Ma questa imparzialità, in ogni caso, è legata più a mitologie diffuse che alla realtà dei fatti se, come ha documentato Fabrizio Tonello, anche negli Stati Uniti le “porte scorrevoli” che aprono un varco tra la carriera nelle news e quella nel Congresso sono sempre più oliate e dense di passaggi, e Washington rappresenta il luogo in cui si moltiplicano i punti di incontro, formali e soprattutto informali, tra i due lati della barricata.

La terza storia è tutta italiana, tipicamente italiana, e ricorda la classica lettera di smentita che appare il giorno seguente la pubblicazione dei “retroscena” di un Augusto Minzolini su La Stampa, di un Francesco Verderami sul Corriere della Sera o di un Carlo Fusi sul Messaggero. Ma in Italia il pericolo di indulgere troppo sul mito dell’obiettività del giornalismo politico non c’è mai stato: nel nostro paese è noto a chi conosce la storia del giornalismo che gli intrecci tra soggetto agente e soggetto paziente delle notizie politiche, ovvero tra giornalisti e politici, sono sempre stati forti e soprattutto noti; per questo al mondo dell’informazione italiano, e alla sua condizione di “sistema fragile”, è sempre stata attribuita una condizione ancillare rispetto al più potente sistema politico, come una specie di “sala d’attesa” dove svernare in attesa della chiamata in qualche competizione elettorale: non come cronista, ma come candidato.

L’industria della rappresentazione

Ad ogni modo, tutte e tre le storie ci raccontano che in fondo, al di là di come si percepiscono i giornalisti e i politici nelle loro relazioni pericolose, crisi, cortocircuiti comunicativi, tragedie della manipolazione sono all’ordine del giorno un po’ dappertutto: un giornalista pericolosamente incosciente, un provvedimento supposto inesistente, un portavoce fantasioso che inquina la comunicazione strategica del suo governo con un news management scorretto, a sua volta superato da un giornalismo ancora più “creativo”. Segno che se, in Italia ma non solo, la politica zoppica, e la sua capacità di rappresentanza entra in crisi, neanche il giornalismo politico, e la sua capacità di rappresentazione, sta troppo bene. Su queste premesse, si potrebbero intavolare lunghe discussioni su più fronti: il giornalismo che non racconta più ma smercia puri artefatti (dove talvolta l’arte lascia un po’ a desiderare…), la politica che nonostante l’esplosione della comunicazione e della political communication continua a rimanere oscura o a raccontare mezze verità che sono anche mezze bugie, la stessa legittimità di un sistema democratico fondato sul presupposto che di fronte al potere segga, in veste di giudice di ultima istanza, un’opinione pubblica popolata di cittadini informati, che dispongono di buona informazione perché esiste un mondo dei media professionale e trasparente in grado di offrirgliela. Se questo prevede una teoria della “buona democrazia”, la quotidianità parla un linguaggio diverso: si tratta, allora, di comprendere quali siano realisticamente i confini valicati, in una situazione in cui ad un cattivo giornalismo corrisponde una pessima politica, e viceversa.

Proviamo ad offrire qualche riflessione sul tema. La prima è un’indicazione di metodo: scindere politica e giornalismo politico equivale ad una sfida sottile, da giocare più sul terreno dell’analisi istituzionale (sistema politico versus sistema dei media) che su quello degli individui: troppe e troppo complesse sono le zone di contatto, le passioni personali, le reti di interessi, la stessa consanguineità tra giornalisti e politici per tracciare rigorose linee di demarcazione e illudersi che possano tenere. Quello che racconta Paolo Mancini nel suo Sussurri e grida dalle Camere, o ciò che avviene in quei settori nuovi e ancora poveri di analisi empiriche che sono le strutture di comunicazione dei governi, il noto andirivieni tra Parlamento e redazioni, è la storia di un giornalismo ibrido, di una comunicazione intrisa di politicità, di giornalisti che rispondono al duplice richiamo delle gerarchie redazionali e di “altri” referenti, politici o economici.

Il secondo spunto riguarda invece la qualità dell’informazione politica, tema scottante di dibattito in una società che si percepisce sempre più dipendente dalla comunicazione per sopravvivere e per avere un punto di vista sul mondo. Scrive correttamente Carlo Sorrentino che i newsmedia “svolgono una funzione di regolazione della fiducia, contribuendo a fornire maggiore o minore credibilità a determinate fonti, a specifici ambienti. Stabiliscono, in questo modo, la pertinenza dei singoli attori sociali ad argomentare su specifici temi ed eventi. Nel borsino della notorietà o del prestigio i mezzi di informazione decidono chi entra, chi sale, chi va crocifisso e chi osannato; decidono il chi, dunque, ma anche il come, rimpastando la realtà e la sua materia grezza da decifrare, i “fatti”. E lo fanno in base a ciò che con una felice intuizione è stato definito “logica mediale”, ovvero un insieme di criteri di notiziabilità, il “cosa” fa notizia, che consente ai giornalisti di collocare con estrema rapidità gli eventi in una cornice di significatività. Sono proprio questi criteri ad essere puntualmente contestati quando, ad esempio, Thomas E. Patterson imputa a ciò che definisce giornalismo “aggressivo” quell’ineliminabile tendenza ideologica, che fa da sottofondo all’intera copertura degli eventi politici, in base a cui “si parte dall’assunto che i politici agiscano per interesse personale piuttosto che per convinzione politica”. Da questa considerazione deriva una lunga lista di recriminazioni contro i media, i loro linguaggi e, sotto sotto, la loro posizione privilegiata di soggetti politici che non devono però rendere conto del loro operato agli elettori, ma solo ai lettori o all’audience.

Spettacolarizzazione, banalizzazione, personalizzazione eccessiva, riduzione della complessità dialettica della politica a sound-byte, a dichiarazione veloce e frammentaria, collateralismo politico, scarso senso civico: l’elenco delle accuse che vengono rivolte ai giornalisti, alle loro tecniche di copertura degli avvenimenti è lunghissimo, e investe tutti i livelli della professione, dalle convinzioni morali del reporter ai metodi di organizzazione delle redazioni, dalla logica dei mezzi (soprattutto la televisione: ci troviamo di fronte ad un medium intrinsecamente nemico dell’approfondimento?) all’oscurità del fine (i media fanno politica?). In particolare nei confronti della televisione, le teorie legate all’ipotesi del “videomalessere” mettono la scatola magica sul banco degli imputati, attribuendole le peggiori tendenze negativizzanti, se non altro la capacità di istigare derive di apatia e cinismo nell’opinione pubblica rappresentando la politica come un affare sporco, dominio di pochi, interessante solo per ragioni di pura brama scandalistica o di pettegolezzo. Ancora, tanti studiosi delle campagne elettorali mettono in luce il ruolo dei mezzi di informazione, e dei soggetti che ne guidano l’attività, nelle pratiche di “confezionamento” della politica, che viene trasformata in una “corsa di cavalli”, un incontro di boxe in cui contano più le narrazioni personalistiche sui gusti gastronomici o le passioni calcistiche dei candidati - o i temi legati alla competizione in quanto tale, la gara - che non le questioni di sostanza, legate ai programmi politici.

Questo genere di critiche, non si sa quanto consapevolmente, capovolge un altro luogo comune sull’informazione politica, quello di una “faccenda per pochi” in cui si parlano linguaggi sconosciuti ai più, indirizzandosi messaggi oscuri o coltivando una sorta di esoterismo autoreferenziale, propedeutico al mantenimento di un alone di mistero sulle istituzioni, concepite come casematte impenetrabili. Mantenere silenzi e esoterismi per conservare il potere: nemmeno 15 anni fa, su un libro a più voci come La comunicazione politica in Italia si potevano ancora leggere requisitorie contro una politica in cui “la sostanza è ancora quella dell’attenzione estesa e di partecipazione all’attività politica più secondo i moduli scelti dai partiti e dai leader che secondo le domande dei lettori e dei telespettatori”; se nel 1988 Gianfranco Pasquino parlava di “alto sgradimento”, oggi il problema pare essersi rovesciato, per divenire quello di una politica che ha preso a modello la “logica mediale” e si ritrova incapace di pensarsi al di fuori del commercialismo, del sensazionalismo e della degradazione del linguaggio al livello della Signora Maria di turno.

Il terzo spunto investe il ruolo dei giornalisti non solo nel circuito produttivo delle notizie, ma negli stessi luoghi della politica. Non si tratta semplicemente di indagare quali rapporti intrattengono i giornalisti con le loro fonti, lo stile o il formato delle loro narrazioni, ma cominciare a spiegare anche in Italia quel fenomeno che alcuni studiosi hanno definito metacoverage, “metacopertura”, definita come “un insieme di riflessioni autoreferenziali sulla natura degli interscambi tra l’apparato delle pubbliche relazioni politiche e il giornalismo politico”, che si sostanzia in due nuove tendenze del giornalismo politico stesso. La prima, l’auto-copertura, equivale a dire che, da semplici narratori e presenze esterne allo spettacolo politico, i giornalisti “si trattano come i soggetti delle storie politiche che raccontano”, diventano i protagonisti dello spettacolo o fanno ricorso ad uno “stile interpretativo” che “eleva la voce del giornalista al di sopra di quella dei protagonisti delle notizie”. La seconda, altrettanto importante, è il moltiplicarsi degli articoli che hanno per oggetto le manovre, i sotterfugi, le strategie messe in campo dai responsabili delle campagne elettorali, e in generale degli staff dei politici - i portavoce, le strutture di pubbliche relazioni - “per guidare o influenzare i giornalisti”.

Entriamo nel territorio della manipolazione e di quel complesso “tiro alla fune” tra fonti e giornalisti, come lo definisce Herbert J. Gans, che caratterizza il circolo di produzione delle notizie, e in cui il potere delle strutture di comunicazione dei governi o dei candidati si misura in base alla capacità di affermare sui media la propria versione dei fatti, o addirittura solo i fatti che interessano. Siamo di fronte ad un problema scottante, sia perché si tratta di una chiara distorsione dei princìpi della democrazia dell’informazione sia perché il nostro futuro in cui tecnologia, denaro e potere sono sempre sottoposti a nuove miscele, potrebbe generare nuovi fantasmi orwelliani o pericolose concentrazioni videocratiche. La storia narrata su Campbell e i suoi tentativi di manipolazione ricade esattamente in questa tipologia, che Barbara Pfetsch definisce “la funzione di news management delle pubbliche relazioni politiche”, che in modo più o meno legale “mira a influenzare il processo politico e, così, produrre sostegno pubblico e legittimazione” nei confronti di un dato provvedimento o uomo politico.

Infine, un problema che riguarda il giornalismo non a livello di singoli individui o di singoli gruppi redazionali, ma il giornalismo come sistema, come istituzione: i media sono un’istituzione politica? Questa ipotesi dei “mezzi di informazione come istituzione”, come ha mostrato Timothy E. Cook, “piuttosto che pensare ai giornalisti come ad individui che scrivono le loro storie a ruota libera, ci ricorda che essi lavorano in base a routine, procedure e regole, non dette ed accettate acriticamente, sul chi e cosa fa le notizie. Prima di ogni altra cosa, le notizie sono un prodotto organizzativo”. I media in questa visione sono a pieno titolo un’istituzione politica, impegnata in prima linea nella definizione di ciò che è importante in una società, nella loro funzione di intermediazione tra potere politico e opinione pubblica. In questa visione, che costringe la creatività individuale, e in primo luogo i criteri di produzione delle notizie, all’interno di una cornice pressante di regolazioni, i media vengono considerati alla stregua di un insieme di organizzazioni che possiedono criteri di funzionamento simili, che rispondono alle stesse logiche ed interessi e che, allora, possono essere analizzate come una sorta di “industria” che presidia un determinato settore sociale, quello della produzione e dello smercio di informazioni, e che insieme alle istituzioni politiche produce il “sistema della comunicazione politica”. Su queste basi si può giungere a sostenere che, in fondo, i media fanno politica come un agente autonomo e che, in alcune fasi di debolezza degli attori politici tradizionali, come ha scritto Gianpietro Mazzoleni, potrebbe profilarsi lo spettro di una “repubblica dei media” in cui questi ultimi “sostituiscono nell’agorà i partiti e le tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa”.

Il caso italiano e le sue “gioiose anomalie”

Cosa ci dice il giornalismo italiano rispetto a queste tendenze? Il nostro mondo dell’informazione porta sulle spalle una serie di “anomalie”, anche creativamente interessanti, che lo rendono in un certo qual modo eterodosso rispetto ad altre esperienze europee o, più in generale, occidentali. Ad esempio, il significativo peso specifico detenuto dalla stampa di partito o la partitizzazione della televisione pubblica, questioni che fanno emergere con nitidezza la storia di un paese in cui la politica ha per tanti anni esercitato la leadership nel “tiro alla fune” con il giornalismo. La politica, nel bene e nel male, ha così condizionato i formati dell’informazione, lo sviluppo del mezzo televisivo e delle sue tecniche di presentazione dei “fatti”, ma anche i criteri di accesso alla professione, le carriere dei reporter più “consonanti” e di quelli meno organici, e dunque le stesse strutture delle redazioni e i loro meccanismi di socializzazione.

La crisi della Prima Repubblica incrina buona parte di questi meccanismi. Ma, come si sa, occorre il lavoro di generazioni per modificare equilibri cinquantennali, e dunque le redazioni di giornali e televisioni pubbliche e private sono ancora per lo più saldamente in mano ad eredi di stagioni in cui la militanza giornalistica poteva concepirsi o in quota governativa o navigando attorno alla galassia delle sinistre, tra Pci e movimenti. Accanto al libro di Antonio Galdo Saranno potenti? un’altra storia va ancora scritta: quella dei tanti circoli “trasversali” a partiti, movimenti, redazioni e generi di media, che tengono ancora insieme legami ed amicizie spavaldamente sopravvissute alle proprie ragioni storiche e politiche, complesse reti di relazioni che continuano a legittimare i “soliti noti” e a fare da tappo all’ingresso di altre subculture nel giornalismo politico.
La seconda “anomalia” sta nella singolarissima funzione di “supplenza” esercitata dall’universo del giornalismo italiano durante la crisi di Tangentopoli, quando l’impossibilità di governare da parte della vecchia maggioranza travolta dagli scandali, e l’impreparazione delle opposizioni a gestire una fase storica troppo tempestosa, hanno lasciato semideserti i luoghi della rappresentanza, occupati per assenza della politica dai soggetti della rappresentazione. I media, nel triennio 1992-1994, si sono trovati a poter agire come soggetti di prima linea in quel convulso processo riformatore che, nel giro di pochissimo tempo, ha modificato l’immagine, gli attori e la meccanica del nostro sistema di partito.

Dopo lustri di pigro sonnecchiare all’ombra del potere governativo, il mondo dell’informazione “che conta” improvvisamente si sveglia, e percepisce che può cavalcare la nuova stagione della politica italiana, nella veste di cassa di risonanza su alcune battaglie “epocali”, in primis quella capeggiata da Mario Segni per la “svolta maggioritaria”, ma anche in quella di king maker. Torniamo a quanto si diceva prima sull’azione politica del giornalismo su larga scala: è forse questa l’unica occasione, così importante per analizzare la fisionomia e la fisiologia odierne del nostro sistema politico, in cui le divisioni tra i mezzi di informazione italiani, le costellazioni di interessi lì sedimentate, passano in secondo piano rispetto all’azione del “partito dei media” come istituzione, come blocco di potere, come vero e proprio soggetto d’azione che scrive per qualche tempo la storia del mutamento politico in Italia. Avremmo avuto il maggioritario in Italia senza le campagne interventiste del Corriere della Sera? Tangentopoli sarebbe stata la stessa senza le trasmissioni di Michele Santoro, i nuovi formati “piazzaioli” dei telegiornali o una televisione pubblica in parte - e finalmente - priva delle briglie che per tanti anni avevano agganciato l’informazione Rai al prepotere delle maggioranze parlamentari?

In questo quadro il terremoto-Berlusconi rompe l’unanimismo di casta e crea un nuovo motivo di scompiglio nel giornalismo politico, scavando altri solchi, sollecitando nuove chiamate alle armi, ridando fiato alle trombe del “giornalismo interpretativo” e di denuncia, spaccando anche i media in due come una mela, in un processo conflittuale ben simboleggiato dall’incipit, così di moda nel 1994, O di qua o di là, con Gad Lerner e Pialuisa Bianco come simbolici testimonial. Da allora, accanto agli indubbi progressi fatti nel campo delle tecniche e tecnologie di copertura degli eventi, pensiamo alla maggiore piacevolezza grafica dei servizi politici, il nostro sistema dei media viene calato in un vortice nichilista da cui, probabilmente, non è ancora uscito. Tutti i ragionamenti che sono stati fatti riguardo alla qualità della nostra informazione, al ruolo dei giornalisti italiani e alla caratterizzazione del sistema dei media come istituzione, devono allora essere filtrati attraverso le lenti di queste “gioiose anomalie” che ci portiamo ancora appresso, e che risultano anche dagli altri contributi pubblicati in questo speciale. La deriva spettacolarizzante che induce qualcuno ad affermare che “il servizio pubblico non esiste più”, ad esempio, non risponde a pure logiche commerciali e popolarizzanti, accettabili per quanto criticabili, ma al suo fondo rispecchia ancora conflittualità politiche mascherate sotto la patina effimera del sensazionalismo.

La scarsa considerazione del mondo giornalistico nei confronti della politica precipita la qualità della copertura negli abissi del puro pettegolezzo politicamente rilevante. Con l’eccezione della dichiarata faziosità goliardica di realtà marginali e intelligenti come quella del Foglio, del Riformista, di certa stampa di partito o di qualche singola figura di reporter o opinionista animato da spirito di servizio, si produce un giornalismo che, se sulla buccia si tatua le stimmate della “terzietà” e della necessità di vendere copie o passaggi pubblicitari televisivi (e dunque più “anglosassone”), nella polpa riproduce i propri vizi strutturali di una politicità più “contro” che “per”, schierata per demolire e non per sostenere. Le battaglie continue ingaggiate non tanto tra governo e media come istituzioni pubbliche, quanto tra giornalisti e apparati di comunicazione come eserciti contrapposti e dediti rispettivamente alla caccia e all’accomodamento delle notizie, al saccheggio e al rifornimento drogato di eventi a buon tasso di notiziabilità, sono la dimostrazione che una fitta rete di rapporti non sono stati ancora codificati e regolati a sufficienza, così come non sono stati ben definiti alcuni confini: quelli tra interpretazione e invenzione, tra retroscena e pettegolezzo, tra simpatia e collateralismo, tra qualità e snobismo.

Insomma, se la fase di protagonismo fuori dalle righe rivestita dai media una decina d’anni fa si è conclusa, il “giornalismo ibrido” di marca italiana qualche variazione l’ha comunque subìta. Ci si è certamente mossi in direzione di una “americanizzazione” piuttosto confusa. Questo ha portato la spettacolarizzazione e il suo regista, il giornalista, al centro del palcoscenico, con la firma di un opinionista o “retroscenista” di quotidiani o il volto rassicurante di qualche mezzobusto o conduttore di programmi di approfondimento. Anche i giornalisti amano raccontare di sé: lo fanno nei propri articoli o in libri in cui il giornalismo appare un goliardico “centro del mondo” e i politici i naturali pendant delle loro narrazioni, nel cuore bellico delle campagne elettorali o nei fatti di una politica che è sempre crisi o sorpresa, anche quando non c’è ragione di crederlo. La politica, in ogni caso, appare sempre come storia di individui, dopo che la forza simbolica del “collettivo” e dei grandi apparati di massa è andata nel dimenticatoio per lasciare il posto alle persone, con la forza carismatica e le nevrosi del singolo politico a fare da padroni. E il processo di personalizzazione vale anche per i giornalisti italiani, che oggi fidelizzano lettori e soprattutto teleutenti, che costruiscono il “tiggì di Mentana” o “il giornale di Feltri”, amano danzare in prima persona sulle onde degli scoop per apparirvi nelle vesti di testimoni privilegiati, possano essere Lilli Gruber o Giovanna Botteri dal fronte iracheno o Francesco Pionati e Bruno Vespa dal fronte interno politico-parlamentare.

Sempre pronti alla “meta-copertura”, alla narrazione della propria strategicità e centralità rispetto al divenire delle cose politiche. Perfettamente a proprio agio in questo preciso ruolo di divi e non di gregari, i giornalisti politici italiani nulla hanno da invidiare a un Larry King o ad un Peter Arnett. Ma, lo ripetiamo, nonostante le luci e il chiasso, il giornalismo politico ha perso quel poco di forza che alla politica aveva strappato durante la crisi della Prima Repubblica. Cosa gli manca allora, in questa rivoluzione dell’immagine, per acquisire la stessa rabbiosa centralità del modello anglosassone o il prestigio medio del giornalismo francese? Una ragione forse c’è: è che il nostro giornalismo non ha ancora ben chiara quale deve essere la missione del mondo dell’informazione come istituzione politicamente rilevante, quale deve essere il posto autentico dei giornalisti nella società della comunicazione, quale deve essere l’orizzonte etico e deontologico al cui interno rinnovare il volto della professione. Centralità sì ma incosciente, priva di stella polare. La Seconda Repubblica, almeno fino ad oggi, ci ha offerto un giornalismo solo parzialmente più libero, che ha già prodotto i propri paradossi. Ad esempio, quello di un collateralismo che non scompare ma, privato del mastice delle comuni appartenenze partitiche, diviene mera fedeltà al singolo, al leader, e non più a un orizzonte ideologico che accomuna il giornalista e il politico.

Il giornalismo politico italiano, dunque, ha ancora un lungo cammino da compiere per chiarirsi le idee sulla sua funzione nella Seconda Repubblica delle “fedeltà leggere” da rendere più solide, della gabbia maggioritaria da stemperare nel rispetto del pluralismo reale, del canovaccio spettacolare da rispettare senza scadere ogni volta nell’effimero capace solo di rincorrersi, del rispetto almeno in vitro dell’opinione pubblica. Un giornalismo politico alla ricerca di codici etici praticabili e di grandi figure, di nuovi capiscuola che sappiano tracciare la rotta; soprattutto alla ricerca di identità, in mezzo alla proliferazione degli outlets, dei canali, dei mezzi, dei formati, delle nevrosi degli inserzionisti. Perché, anche se può sembrare strano, fuori dalle redazioni esistono cittadini alla disperata caccia di buona informazione. Un tempo la chiamavano opinione pubblica.

29 gennaio 2004