| 
      
      Dove va il giornalismo politico?di Angelo Mellone
 da Ideazione, settembre-ottobre 2003
 
 Prima storia. La redazione del prestigioso New York Times, la bibbia del 
      giornalismo liberal americano, viene sconquassata dallo scandalo di Jayson 
      Blair, il giovane reporter accusato di aver copiato, o essersi inventato 
      di sana pianta, le storie con cui confezionava i suoi articoli. Per colpa 
      dell’incoscienza di un solo addetto, l’intera macchina del Nyt entra in 
      crisi: dimissioni, autocritiche, outing, pesantissime riflessioni sulle 
      capacità distorsive dei media.
 
      Seconda 
      storia. Il 17 luglio 2003, all’indomani della presentazione a stampa e 
      parti sociali del Documento di programmazione economica e finanziaria, il 
      ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, viene intervistato dal 
      Tg1 Rai, ore 20.00. Una di quelle interviste in cui, a partire dalle 
      inquadrature sul polsino della camicia, si comprende il tono confidenziale 
      di chi vuole rivelare qualcosa. E la rivelazione, anzi la 
      contro-rivelazione, arriva: la secca smentita che nel Dpef fosse mai stata 
      contenuta una proposta di mutui ipotecari sulle case, pensata per 
      rilanciare i consumi. Proposta su cui, invece, si erano concentrate nei 
      giorni precedenti tanto l’attenzione dei media quanto le preoccupazioni di 
      sindacati, partiti, associazioni dei consumatori, parti imprenditoriali 
      ecc. Chi abbia ragione, in questo caso, è assolutamente secondario. 
      Tremonti, nell’intimità di un’intervista televisiva “a due”, sente il 
      bisogno di negare di fronte alle telecamere le ragioni stesse del 
      putiferio che aveva occupato prime pagine, retroscena, indiscrezioni e 
      lanci a raffica di agenzia, minandone il valore-notizia.
 Terza storia. Sempre a metà luglio, il potentissimo spin doctor di Tony 
      Blair, Alastair Campbell, da anni famoso per la grande influenza di “ombra 
      nera” che gli viene accreditata sulle scelte del leader, si ritrova 
      nell’occhio del ciclone - o, che è lo stesso, nell’occhio catodico della 
      televisione britannica - con l’accusa di aver addomesticato un dossier sul 
      potenziale degli armamenti dell’Iraq di Saddam. David Kelly, lo scienziato 
      sospettato di leak, ovvero di aver “spifferato” la notizia alla Bbc, viene 
      ritrovato morto poco dopo che lo scandalo è scoppiato: Campbell viene 
      letteralmente messo sulla graticola e, nel giro di qualche giorno, il 
      terribile valzer delle indiscrezioni si estende agli stessi giornalisti 
      della Bbc, accusati a loro volta di aver manipolato un dossier già 
      alterato, in un rincorrersi di velenose insinuazioni. E così, dopo il 
      governo, incomincia a barcollare “la più autorevole industria 
      giornalistica del mondo” in una storia romanzesca di manipolazioni e 
      contro-manipolazioni. La prima storia riguarda un giornalista, la seconda 
      un politico, la terza un portavoce governativo e il suo odiatissimo 
      nemico, la televisione pubblica. Due di esse provengono da paesi in cui, a 
      differenza di ciò che accade in Italia, al mondo dell’informazione viene 
      tradizionalmente accreditato un ruolo di “terzietà” e di imparzialità 
      nella narrazione dei fatti e dei protagonisti della politica. In Gran 
      Bretagna le ricerche continuano a segnalare che, pur nel grande 
      spartiacque a noi sconosciuto tra stampa “impegnata” e stampa 
      “scandalistica”, i giornalisti si considerano soggetti di un servizio 
      pubblico, mentre negli Stati Uniti si percepiscono come i “cani da 
      guardia” del potere. Ma questa imparzialità, in ogni caso, è legata più a 
      mitologie diffuse che alla realtà dei fatti se, come ha documentato 
      Fabrizio Tonello, anche negli Stati Uniti le “porte scorrevoli” che aprono 
      un varco tra la carriera nelle news e quella nel Congresso sono sempre più 
      oliate e dense di passaggi, e Washington rappresenta il luogo in cui si 
      moltiplicano i punti di incontro, formali e soprattutto informali, tra i 
      due lati della barricata.
 
 La terza storia è tutta italiana, tipicamente italiana, e ricorda la 
      classica lettera di smentita che appare il giorno seguente la 
      pubblicazione dei “retroscena” di un Augusto Minzolini su La Stampa, di un 
      Francesco Verderami sul Corriere della Sera o di un Carlo Fusi sul 
      Messaggero. Ma in Italia il pericolo di indulgere troppo sul mito 
      dell’obiettività del giornalismo politico non c’è mai stato: nel nostro 
      paese è noto a chi conosce la storia del giornalismo che gli intrecci tra 
      soggetto agente e soggetto paziente delle notizie politiche, ovvero tra 
      giornalisti e politici, sono sempre stati forti e soprattutto noti; per 
      questo al mondo dell’informazione italiano, e alla sua condizione di 
      “sistema fragile”, è sempre stata attribuita una condizione ancillare 
      rispetto al più potente sistema politico, come una specie di “sala 
      d’attesa” dove svernare in attesa della chiamata in qualche competizione 
      elettorale: non come cronista, ma come candidato.
 
 L’industria della rappresentazione
 
 Ad ogni modo, tutte e tre le storie ci raccontano che in fondo, al di là 
      di come si percepiscono i giornalisti e i politici nelle loro relazioni 
      pericolose, crisi, cortocircuiti comunicativi, tragedie della 
      manipolazione sono all’ordine del giorno un po’ dappertutto: un 
      giornalista pericolosamente incosciente, un provvedimento supposto 
      inesistente, un portavoce fantasioso che inquina la comunicazione 
      strategica del suo governo con un news management scorretto, a sua volta 
      superato da un giornalismo ancora più “creativo”. Segno che se, in Italia 
      ma non solo, la politica zoppica, e la sua capacità di rappresentanza 
      entra in crisi, neanche il giornalismo politico, e la sua capacità di 
      rappresentazione, sta troppo bene. Su queste premesse, si potrebbero 
      intavolare lunghe discussioni su più fronti: il giornalismo che non 
      racconta più ma smercia puri artefatti (dove talvolta l’arte lascia un po’ 
      a desiderare…), la politica che nonostante l’esplosione della 
      comunicazione e della political communication continua a rimanere oscura o 
      a raccontare mezze verità che sono anche mezze bugie, la stessa 
      legittimità di un sistema democratico fondato sul presupposto che di 
      fronte al potere segga, in veste di giudice di ultima istanza, un’opinione 
      pubblica popolata di cittadini informati, che dispongono di buona 
      informazione perché esiste un mondo dei media professionale e trasparente 
      in grado di offrirgliela. Se questo prevede una teoria della “buona 
      democrazia”, la quotidianità parla un linguaggio diverso: si tratta, 
      allora, di comprendere quali siano realisticamente i confini valicati, in 
      una situazione in cui ad un cattivo giornalismo corrisponde una pessima 
      politica, e viceversa.
 
 Proviamo ad offrire qualche riflessione sul tema. La prima è 
      un’indicazione di metodo: scindere politica e giornalismo politico 
      equivale ad una sfida sottile, da giocare più sul terreno dell’analisi 
      istituzionale (sistema politico versus sistema dei media) che su quello 
      degli individui: troppe e troppo complesse sono le zone di contatto, le 
      passioni personali, le reti di interessi, la stessa consanguineità tra 
      giornalisti e politici per tracciare rigorose linee di demarcazione e 
      illudersi che possano tenere. Quello che racconta Paolo Mancini nel suo 
      Sussurri e grida dalle Camere, o ciò che avviene in quei settori nuovi e 
      ancora poveri di analisi empiriche che sono le strutture di comunicazione 
      dei governi, il noto andirivieni tra Parlamento e redazioni, è la storia 
      di un giornalismo ibrido, di una comunicazione intrisa di politicità, di 
      giornalisti che rispondono al duplice richiamo delle gerarchie redazionali 
      e di “altri” referenti, politici o economici.
 
 Il secondo spunto riguarda invece la qualità dell’informazione politica, 
      tema scottante di dibattito in una società che si percepisce sempre più 
      dipendente dalla comunicazione per sopravvivere e per avere un punto di 
      vista sul mondo. Scrive correttamente Carlo Sorrentino che i newsmedia 
      “svolgono una funzione di regolazione della fiducia, contribuendo a 
      fornire maggiore o minore credibilità a determinate fonti, a specifici 
      ambienti. Stabiliscono, in questo modo, la pertinenza dei singoli attori 
      sociali ad argomentare su specifici temi ed eventi. Nel borsino della 
      notorietà o del prestigio i mezzi di informazione decidono chi entra, chi 
      sale, chi va crocifisso e chi osannato; decidono il chi, dunque, ma anche 
      il come, rimpastando la realtà e la sua materia grezza da decifrare, i 
      “fatti”. E lo fanno in base a ciò che con una felice intuizione è stato 
      definito “logica mediale”, ovvero un insieme di criteri di notiziabilità, 
      il “cosa” fa notizia, che consente ai giornalisti di collocare con estrema 
      rapidità gli eventi in una cornice di significatività. Sono proprio questi 
      criteri ad essere puntualmente contestati quando, ad esempio, Thomas E. 
      Patterson imputa a ciò che definisce giornalismo “aggressivo” 
      quell’ineliminabile tendenza ideologica, che fa da sottofondo all’intera 
      copertura degli eventi politici, in base a cui “si parte dall’assunto che 
      i politici agiscano per interesse personale piuttosto che per convinzione 
      politica”. Da questa considerazione deriva una lunga lista di 
      recriminazioni contro i media, i loro linguaggi e, sotto sotto, la loro 
      posizione privilegiata di soggetti politici che non devono però rendere 
      conto del loro operato agli elettori, ma solo ai lettori o all’audience.
 
 Spettacolarizzazione, banalizzazione, personalizzazione eccessiva, 
      riduzione della complessità dialettica della politica a sound-byte, a 
      dichiarazione veloce e frammentaria, collateralismo politico, scarso senso 
      civico: l’elenco delle accuse che vengono rivolte ai giornalisti, alle 
      loro tecniche di copertura degli avvenimenti è lunghissimo, e investe 
      tutti i livelli della professione, dalle convinzioni morali del reporter 
      ai metodi di organizzazione delle redazioni, dalla logica dei mezzi 
      (soprattutto la televisione: ci troviamo di fronte ad un medium 
      intrinsecamente nemico dell’approfondimento?) all’oscurità del fine (i 
      media fanno politica?). In particolare nei confronti della televisione, le 
      teorie legate all’ipotesi del “videomalessere” mettono la scatola magica 
      sul banco degli imputati, attribuendole le peggiori tendenze 
      negativizzanti, se non altro la capacità di istigare derive di apatia e 
      cinismo nell’opinione pubblica rappresentando la politica come un affare 
      sporco, dominio di pochi, interessante solo per ragioni di pura brama 
      scandalistica o di pettegolezzo. Ancora, tanti studiosi delle campagne 
      elettorali mettono in luce il ruolo dei mezzi di informazione, e dei 
      soggetti che ne guidano l’attività, nelle pratiche di “confezionamento” 
      della politica, che viene trasformata in una “corsa di cavalli”, un 
      incontro di boxe in cui contano più le narrazioni personalistiche sui 
      gusti gastronomici o le passioni calcistiche dei candidati - o i temi 
      legati alla competizione in quanto tale, la gara - che non le questioni di 
      sostanza, legate ai programmi politici.
 
 Questo genere di critiche, non si sa quanto consapevolmente, capovolge un 
      altro luogo comune sull’informazione politica, quello di una “faccenda per 
      pochi” in cui si parlano linguaggi sconosciuti ai più, indirizzandosi 
      messaggi oscuri o coltivando una sorta di esoterismo autoreferenziale, 
      propedeutico al mantenimento di un alone di mistero sulle istituzioni, 
      concepite come casematte impenetrabili. Mantenere silenzi e esoterismi per 
      conservare il potere: nemmeno 15 anni fa, su un libro a più voci come La 
      comunicazione politica in Italia si potevano ancora leggere requisitorie 
      contro una politica in cui “la sostanza è ancora quella dell’attenzione 
      estesa e di partecipazione all’attività politica più secondo i moduli 
      scelti dai partiti e dai leader che secondo le domande dei lettori e dei 
      telespettatori”; se nel 1988 Gianfranco Pasquino parlava di “alto 
      sgradimento”, oggi il problema pare essersi rovesciato, per divenire 
      quello di una politica che ha preso a modello la “logica mediale” e si 
      ritrova incapace di pensarsi al di fuori del commercialismo, del 
      sensazionalismo e della degradazione del linguaggio al livello della 
      Signora Maria di turno.
 
 Il terzo spunto investe il ruolo dei giornalisti non solo nel circuito 
      produttivo delle notizie, ma negli stessi luoghi della politica. Non si 
      tratta semplicemente di indagare quali rapporti intrattengono i 
      giornalisti con le loro fonti, lo stile o il formato delle loro 
      narrazioni, ma cominciare a spiegare anche in Italia quel fenomeno che 
      alcuni studiosi hanno definito metacoverage, “metacopertura”, definita 
      come “un insieme di riflessioni autoreferenziali sulla natura degli 
      interscambi tra l’apparato delle pubbliche relazioni politiche e il 
      giornalismo politico”, che si sostanzia in due nuove tendenze del 
      giornalismo politico stesso. La prima, l’auto-copertura, equivale a dire 
      che, da semplici narratori e presenze esterne allo spettacolo politico, i 
      giornalisti “si trattano come i soggetti delle storie politiche che 
      raccontano”, diventano i protagonisti dello spettacolo o fanno ricorso ad 
      uno “stile interpretativo” che “eleva la voce del giornalista al di sopra 
      di quella dei protagonisti delle notizie”. La seconda, altrettanto 
      importante, è il moltiplicarsi degli articoli che hanno per oggetto le 
      manovre, i sotterfugi, le strategie messe in campo dai responsabili delle 
      campagne elettorali, e in generale degli staff dei politici - i portavoce, 
      le strutture di pubbliche relazioni - “per guidare o influenzare i 
      giornalisti”.
 
 Entriamo nel territorio della manipolazione e di quel complesso “tiro alla 
      fune” tra fonti e giornalisti, come lo definisce Herbert J. Gans, che 
      caratterizza il circolo di produzione delle notizie, e in cui il potere 
      delle strutture di comunicazione dei governi o dei candidati si misura in 
      base alla capacità di affermare sui media la propria versione dei fatti, o 
      addirittura solo i fatti che interessano. Siamo di fronte ad un problema 
      scottante, sia perché si tratta di una chiara distorsione dei princìpi 
      della democrazia dell’informazione sia perché il nostro futuro in cui 
      tecnologia, denaro e potere sono sempre sottoposti a nuove miscele, 
      potrebbe generare nuovi fantasmi orwelliani o pericolose concentrazioni 
      videocratiche. La storia narrata su Campbell e i suoi tentativi di 
      manipolazione ricade esattamente in questa tipologia, che Barbara Pfetsch 
      definisce “la funzione di news management delle pubbliche relazioni 
      politiche”, che in modo più o meno legale “mira a influenzare il processo 
      politico e, così, produrre sostegno pubblico e legittimazione” nei 
      confronti di un dato provvedimento o uomo politico.
 
 Infine, un problema che riguarda il giornalismo non a livello di singoli 
      individui o di singoli gruppi redazionali, ma il giornalismo come sistema, 
      come istituzione: i media sono un’istituzione politica? Questa ipotesi dei 
      “mezzi di informazione come istituzione”, come ha mostrato Timothy E. 
      Cook, “piuttosto che pensare ai giornalisti come ad individui che scrivono 
      le loro storie a ruota libera, ci ricorda che essi lavorano in base a 
      routine, procedure e regole, non dette ed accettate acriticamente, sul chi 
      e cosa fa le notizie. Prima di ogni altra cosa, le notizie sono un 
      prodotto organizzativo”. I media in questa visione sono a pieno titolo 
      un’istituzione politica, impegnata in prima linea nella definizione di ciò 
      che è importante in una società, nella loro funzione di intermediazione 
      tra potere politico e opinione pubblica. In questa visione, che costringe 
      la creatività individuale, e in primo luogo i criteri di produzione delle 
      notizie, all’interno di una cornice pressante di regolazioni, i media 
      vengono considerati alla stregua di un insieme di organizzazioni che 
      possiedono criteri di funzionamento simili, che rispondono alle stesse 
      logiche ed interessi e che, allora, possono essere analizzate come una 
      sorta di “industria” che presidia un determinato settore sociale, quello 
      della produzione e dello smercio di informazioni, e che insieme alle 
      istituzioni politiche produce il “sistema della comunicazione politica”. 
      Su queste basi si può giungere a sostenere che, in fondo, i media fanno 
      politica come un agente autonomo e che, in alcune fasi di debolezza degli 
      attori politici tradizionali, come ha scritto Gianpietro Mazzoleni, 
      potrebbe profilarsi lo spettro di una “repubblica dei media” in cui questi 
      ultimi “sostituiscono nell’agorà i partiti e le tradizionali istituzioni 
      della democrazia rappresentativa”.
 
 Il caso italiano e le sue “gioiose anomalie”
 
 Cosa ci dice il giornalismo italiano rispetto a queste tendenze? Il nostro 
      mondo dell’informazione porta sulle spalle una serie di “anomalie”, anche 
      creativamente interessanti, che lo rendono in un certo qual modo 
      eterodosso rispetto ad altre esperienze europee o, più in generale, 
      occidentali. Ad esempio, il significativo peso specifico detenuto dalla 
      stampa di partito o la partitizzazione della televisione pubblica, 
      questioni che fanno emergere con nitidezza la storia di un paese in cui la 
      politica ha per tanti anni esercitato la leadership nel “tiro alla fune” 
      con il giornalismo. La politica, nel bene e nel male, ha così condizionato 
      i formati dell’informazione, lo sviluppo del mezzo televisivo e delle sue 
      tecniche di presentazione dei “fatti”, ma anche i criteri di accesso alla 
      professione, le carriere dei reporter più “consonanti” e di quelli meno 
      organici, e dunque le stesse strutture delle redazioni e i loro meccanismi 
      di socializzazione.
 
 La crisi della Prima Repubblica incrina buona parte di questi meccanismi. 
      Ma, come si sa, occorre il lavoro di generazioni per modificare equilibri 
      cinquantennali, e dunque le redazioni di giornali e televisioni pubbliche 
      e private sono ancora per lo più saldamente in mano ad eredi di stagioni 
      in cui la militanza giornalistica poteva concepirsi o in quota governativa 
      o navigando attorno alla galassia delle sinistre, tra Pci e movimenti. 
      Accanto al libro di Antonio Galdo Saranno potenti? un’altra storia va 
      ancora scritta: quella dei tanti circoli “trasversali” a partiti, 
      movimenti, redazioni e generi di media, che tengono ancora insieme legami 
      ed amicizie spavaldamente sopravvissute alle proprie ragioni storiche e 
      politiche, complesse reti di relazioni che continuano a legittimare i 
      “soliti noti” e a fare da tappo all’ingresso di altre subculture nel 
      giornalismo politico.
 La seconda “anomalia” sta nella singolarissima funzione di “supplenza” 
      esercitata dall’universo del giornalismo italiano durante la crisi di 
      Tangentopoli, quando l’impossibilità di governare da parte della vecchia 
      maggioranza travolta dagli scandali, e l’impreparazione delle opposizioni 
      a gestire una fase storica troppo tempestosa, hanno lasciato semideserti i 
      luoghi della rappresentanza, occupati per assenza della politica dai 
      soggetti della rappresentazione. I media, nel triennio 1992-1994, si sono 
      trovati a poter agire come soggetti di prima linea in quel convulso 
      processo riformatore che, nel giro di pochissimo tempo, ha modificato 
      l’immagine, gli attori e la meccanica del nostro sistema di partito.
 
 Dopo lustri di pigro sonnecchiare all’ombra del potere governativo, il 
      mondo dell’informazione “che conta” improvvisamente si sveglia, e 
      percepisce che può cavalcare la nuova stagione della politica italiana, 
      nella veste di cassa di risonanza su alcune battaglie “epocali”, in primis 
      quella capeggiata da Mario Segni per la “svolta maggioritaria”, ma anche 
      in quella di king maker. Torniamo a quanto si diceva prima sull’azione 
      politica del giornalismo su larga scala: è forse questa l’unica occasione, 
      così importante per analizzare la fisionomia e la fisiologia odierne del 
      nostro sistema politico, in cui le divisioni tra i mezzi di informazione 
      italiani, le costellazioni di interessi lì sedimentate, passano in secondo 
      piano rispetto all’azione del “partito dei media” come istituzione, come 
      blocco di potere, come vero e proprio soggetto d’azione che scrive per 
      qualche tempo la storia del mutamento politico in Italia. Avremmo avuto il 
      maggioritario in Italia senza le campagne interventiste del Corriere della 
      Sera? Tangentopoli sarebbe stata la stessa senza le trasmissioni di 
      Michele Santoro, i nuovi formati “piazzaioli” dei telegiornali o una 
      televisione pubblica in parte - e finalmente - priva delle briglie che per 
      tanti anni avevano agganciato l’informazione Rai al prepotere delle 
      maggioranze parlamentari?
 
 In questo quadro il terremoto-Berlusconi rompe l’unanimismo di casta e 
      crea un nuovo motivo di scompiglio nel giornalismo politico, scavando 
      altri solchi, sollecitando nuove chiamate alle armi, ridando fiato alle 
      trombe del “giornalismo interpretativo” e di denuncia, spaccando anche i 
      media in due come una mela, in un processo conflittuale ben simboleggiato 
      dall’incipit, così di moda nel 1994, O di qua o di là, con Gad Lerner e 
      Pialuisa Bianco come simbolici testimonial. Da allora, accanto agli 
      indubbi progressi fatti nel campo delle tecniche e tecnologie di copertura 
      degli eventi, pensiamo alla maggiore piacevolezza grafica dei servizi 
      politici, il nostro sistema dei media viene calato in un vortice 
      nichilista da cui, probabilmente, non è ancora uscito. Tutti i 
      ragionamenti che sono stati fatti riguardo alla qualità della nostra 
      informazione, al ruolo dei giornalisti italiani e alla caratterizzazione 
      del sistema dei media come istituzione, devono allora essere filtrati 
      attraverso le lenti di queste “gioiose anomalie” che ci portiamo ancora 
      appresso, e che risultano anche dagli altri contributi pubblicati in 
      questo speciale. La deriva spettacolarizzante che induce qualcuno ad 
      affermare che “il servizio pubblico non esiste più”, ad esempio, non 
      risponde a pure logiche commerciali e popolarizzanti, accettabili per 
      quanto criticabili, ma al suo fondo rispecchia ancora conflittualità 
      politiche mascherate sotto la patina effimera del sensazionalismo.
 
 La scarsa considerazione del mondo giornalistico nei confronti della 
      politica precipita la qualità della copertura negli abissi del puro 
      pettegolezzo politicamente rilevante. Con l’eccezione della dichiarata 
      faziosità goliardica di realtà marginali e intelligenti come quella del 
      Foglio, del Riformista, di certa stampa di partito o di qualche singola 
      figura di reporter o opinionista animato da spirito di servizio, si 
      produce un giornalismo che, se sulla buccia si tatua le stimmate della 
      “terzietà” e della necessità di vendere copie o passaggi pubblicitari 
      televisivi (e dunque più “anglosassone”), nella polpa riproduce i propri 
      vizi strutturali di una politicità più “contro” che “per”, schierata per 
      demolire e non per sostenere. Le battaglie continue ingaggiate non tanto 
      tra governo e media come istituzioni pubbliche, quanto tra giornalisti e 
      apparati di comunicazione come eserciti contrapposti e dediti 
      rispettivamente alla caccia e all’accomodamento delle notizie, al 
      saccheggio e al rifornimento drogato di eventi a buon tasso di 
      notiziabilità, sono la dimostrazione che una fitta rete di rapporti non 
      sono stati ancora codificati e regolati a sufficienza, così come non sono 
      stati ben definiti alcuni confini: quelli tra interpretazione e 
      invenzione, tra retroscena e pettegolezzo, tra simpatia e collateralismo, 
      tra qualità e snobismo.
 
 Insomma, se la fase di protagonismo fuori dalle righe rivestita dai media 
      una decina d’anni fa si è conclusa, il “giornalismo ibrido” di marca 
      italiana qualche variazione l’ha comunque subìta. Ci si è certamente mossi 
      in direzione di una “americanizzazione” piuttosto confusa. Questo ha 
      portato la spettacolarizzazione e il suo regista, il giornalista, al 
      centro del palcoscenico, con la firma di un opinionista o “retroscenista” 
      di quotidiani o il volto rassicurante di qualche mezzobusto o conduttore 
      di programmi di approfondimento. Anche i giornalisti amano raccontare di 
      sé: lo fanno nei propri articoli o in libri in cui il giornalismo appare 
      un goliardico “centro del mondo” e i politici i naturali pendant delle 
      loro narrazioni, nel cuore bellico delle campagne elettorali o nei fatti 
      di una politica che è sempre crisi o sorpresa, anche quando non c’è 
      ragione di crederlo. La politica, in ogni caso, appare sempre come storia 
      di individui, dopo che la forza simbolica del “collettivo” e dei grandi 
      apparati di massa è andata nel dimenticatoio per lasciare il posto alle 
      persone, con la forza carismatica e le nevrosi del singolo politico a fare 
      da padroni. E il processo di personalizzazione vale anche per i 
      giornalisti italiani, che oggi fidelizzano lettori e soprattutto 
      teleutenti, che costruiscono il “tiggì di Mentana” o “il giornale di 
      Feltri”, amano danzare in prima persona sulle onde degli scoop per 
      apparirvi nelle vesti di testimoni privilegiati, possano essere Lilli 
      Gruber o Giovanna Botteri dal fronte iracheno o Francesco Pionati e Bruno 
      Vespa dal fronte interno politico-parlamentare.
 
 Sempre pronti alla “meta-copertura”, alla narrazione della propria 
      strategicità e centralità rispetto al divenire delle cose politiche. 
      Perfettamente a proprio agio in questo preciso ruolo di divi e non di 
      gregari, i giornalisti politici italiani nulla hanno da invidiare a un 
      Larry King o ad un Peter Arnett. Ma, lo ripetiamo, nonostante le luci e il 
      chiasso, il giornalismo politico ha perso quel poco di forza che alla 
      politica aveva strappato durante la crisi della Prima Repubblica. Cosa gli 
      manca allora, in questa rivoluzione dell’immagine, per acquisire la stessa 
      rabbiosa centralità del modello anglosassone o il prestigio medio del 
      giornalismo francese? Una ragione forse c’è: è che il nostro giornalismo 
      non ha ancora ben chiara quale deve essere la missione del mondo 
      dell’informazione come istituzione politicamente rilevante, quale deve 
      essere il posto autentico dei giornalisti nella società della 
      comunicazione, quale deve essere l’orizzonte etico e deontologico al cui 
      interno rinnovare il volto della professione. Centralità sì ma 
      incosciente, priva di stella polare. La Seconda Repubblica, almeno fino ad 
      oggi, ci ha offerto un giornalismo solo parzialmente più libero, che ha 
      già prodotto i propri paradossi. Ad esempio, quello di un collateralismo 
      che non scompare ma, privato del mastice delle comuni appartenenze 
      partitiche, diviene mera fedeltà al singolo, al leader, e non più a un 
      orizzonte ideologico che accomuna il giornalista e il politico.
 
 Il giornalismo politico italiano, dunque, ha ancora un lungo cammino da 
      compiere per chiarirsi le idee sulla sua funzione nella Seconda Repubblica 
      delle “fedeltà leggere” da rendere più solide, della gabbia maggioritaria 
      da stemperare nel rispetto del pluralismo reale, del canovaccio 
      spettacolare da rispettare senza scadere ogni volta nell’effimero capace 
      solo di rincorrersi, del rispetto almeno in vitro dell’opinione pubblica. 
      Un giornalismo politico alla ricerca di codici etici praticabili e di 
      grandi figure, di nuovi capiscuola che sappiano tracciare la rotta; 
      soprattutto alla ricerca di identità, in mezzo alla proliferazione degli 
      outlets, dei canali, dei mezzi, dei formati, delle nevrosi degli 
      inserzionisti. Perché, anche se può sembrare strano, fuori dalle redazioni 
      esistono cittadini alla disperata caccia di buona informazione. Un tempo 
      la chiamavano opinione pubblica.
 
 29 gennaio 2004
 |