La politica e la società dello spettacolo
di Luciano Lanna
da Ideazione, settembre-ottobre 2003

Qual è oggi la sede più specifica della politica? Quali sono i linguaggi contemporanei della politica? Qual è, infine, il ruolo dell’informazione di fronte alle novità emerse negli ultimi anni? Sono domande che coinvolgono direttamente i politici, i giornalisti, i portavoce governativi, i responsabili della comunicazione dei partiti, i conduttori televisivi. Al cuore di tutto, il rapporto tra la capacità di rappresentanza della politica e quella del giornalismo di rappresentarla. Ma è possibile oggi scindere artificiosamente tra politica da una parte e informazione politica dall’altra? Scindere, insomma, nel senso di una separatezza neutralizzante tra i tre poteri classici della teoria liberale e il famigerato “quarto potere”?
Un fatto è certo: nell’ultimo decennio la politica, il sistema dell’informazione e la televisione sono state oggetto in Italia di una serie così veloce e continua di trasformazioni e di innovazioni che proprio per il loro carattere di novità forse cercano ancora un loro equilibrio e una loro regolarizzazione definitiva.

E' cambiata la modalità di comunicare dei politici; si è rivoluzionato il giornalismo politico - una su tutte: nei giornali è scomparso il tradizionale “pastone”, il resoconto quotidiano di ciò che avviene nel Palazzo - e si sono imposte nuove forme di approccio agli eventi della sfera pubblica; la televisione, soprattutto, è diventata la sede privilegiata per comunicare ai cittadini decisioni e fatti destinati a cambiare i rapporti di forza e a scuotere l’opinione pubblica. Su tutto, è importante rendersi pienamente consapevoli del processo che, su questo piano, si è sviluppato nell’ultimo ventennio.

Indietro, infatti, non si può tornare, e sembrano davvero passati anni luce da quando i partiti e i loro leader in Tv erano appannaggio esclusivo dei vari Jader Jacobelli, Gianni Granzotto e Ugo Zatterin: quel lungo periodo durato fino alla fine degli anni Settanta, quando la politica in casa era relegata alle fredde e inamidate tribune politiche, con leader che apparivano sul video attenti a non fuoriuscire dal loro ambito istituzionale e discussioni sin troppo misurate e composte. Arrivò solo nel ’77 la prima rottura di quella separatezza: improvvisamente l’uomo politico diventava confidenziale, uscendo dal ruolo canonico e da spazi rigidamente recintati. A inaugurare quella “rivoluzione” fu Maurizio Costanzo, allora ideatore e conduttore del primo talk show della nostra storia, quel Bontà loro dove i politici, finalmente, mescolati a varia umanità, rinunciano alla loro aura protocollare per svelare nel salotto anche il privato della loro personalità. Memorabile fu quella “prima” intervista con Giulio Andreotti, così come è rimasta alle cronache, con un seguito di vivaci polemiche e addirittura un’interpellanza parlamentare, la puntata nella quale il conduttore aveva chiesto a Tina Anselmi perché non si fosse mai sposata. Non fu da meno quando, sempre in una trasmissione di Costanzo, il deputato comunista Antonello Trombadori, rivolgendosi alla radicale Emma Bonino con l’appellativo di “cocca mia”, suscitò le ire delle femministe.

Ed è ancora datato ’77 un altro episodio “rivoluzionario”, un vero e proprio media event, avvenuto questa volta nel corso di Portobello, la trasmissione-mercatino condotta da Enzo Tortora. Davanti a una platea di dieci milioni di telespettatori, una signora milanese di ottantuno anni parla della sua situazione di anziana in Italia. A quel punto suona il telefono, e si sente la voce del primo “acquirente”: “Sono l’onorevole Bettino Craxi, il segretario del Partito socialista…”. Al di là dei contenuti della conversazione in sé, il gesto apre un varco: per la prima volta un autorevole uomo politico fa sapere la sua attraverso un gioco televisivo. E' il via libera a quella che verrà chiamata la “politica spettacolo”.

Da allora in un crescendo oggi ben evidenziabile col senno di poi, una nuova forma di personalizzazione diventa il leit motiv dello scontro politico e la televisione, prima che i giornali, ne diventa il media privilegiato. E' un processo che le allora nuove emittenti private, affacciatesi improvvisamente nel panorama comunicativo italiano, contribuiranno a rafforzare nel corso della campagna elettorale del 1979. Arrivano nuove soluzioni mutuate dai network americani e, tra tutte, comincia a prevalere il confronto diretto tra leader antagonisti. Una formula che la Rai riprenderà soprattutto con Mixer, in onda dal 1980: in particolare nei “faccia a faccia” condotti da Giovanni Minoli vennero sperimentati, attraverso moduli di “botta e risposta”, veri e propri contraddittori all’americana che molto contribuiranno a imporre il carisma di molti leader.

La televisione, il medium, che spettacolarizza tutto, impone a questo punto una sorta di assunzione piacevole, estetica, del mondo politico: oltre che le idee e i programmi comincia a contare il modo in cui le si presentano. E siamo nel pieno degli anni Ottanta, il decennio del look e dell’edonismo di massa, e i politici sono come costretti a uscire dalle tristi stanze delle Tribune per entrare nei salotti nella necessità di “bucare il video”. Gli uomini del Palazzo danno definitivamente l’addio al vecchio comizio come strumento privilegiato di comunicazione con gli elettori, e trionfa la tv campaign, nel senso di un reciproco conferimento di status: l’interesse dei mass media per un nuovo tipo di uomo politico lo rende non solo conosciuto, ma soprattutto lo fa esistere, lo rende autorevole per il pubblico. E la stampa deve adeguarsi a questo approccio alla politica, rendendo in qualche modo televisive le sue pagine.

Già nelle consultazioni politiche del 1983, del resto, vent’anni fa le principali reti private, ormai consolidate, lanciavano una propria programmazione elettorale tutta all’insegna della “spettacolarizzazione”: Rotocalco elettorale, Prima pagina e Obiettivo su Canale 5, Braccio di ferro e Italia parla su Retequattro, Perché sì, perché no e Voti e volti su Italia Uno. E nel 1987 l’ulteriore innovazione: la figura dell’uomo politico fa il suo ingresso normale tra gli ospiti fissi settimanali di un contenitore della domenica pomeriggio, il Va pensiero di Raidue condotto da Andrea Barbato. E, sempre quell’anno, la telepolitica arriva a definirsi come un genere televisivo vero e proprio, soprattutto con due trasmissioni di Rai Tre: Linea rovente, che inizia a gennaio condotta da Giuliano Ferrara, e Samarcanda, che parte ad aprile condotta da Michele Santoro. Se con la trasmissione di Ferrara ci si apriva agli interventi del pubblico, con quella di Santoro si arrivava alla programmazione in prima serata: il successo è crescente, paragonabile alle platee del sabato sera. E con queste formule si avviava un nuovo periodo, quello degli anni Novanta, quello della televisione che diventa il principale strumento di informazione politica che, oltretutto, direttamente legittima e spesso determina quelli che saranno i nuovi soggetti della politica.

Dalla centralità del Palazzo a quella del video

Nei primi anni Novanta il video diventa lo specchio quotidiano privilegiato per conoscere una serie di eventi fondamentali per una società italiana in velocissima trasformazione. Conseguenza anche del crollo dei vecchi partiti, delle inchieste giudiziarie, di appuntamenti elettorali nei quali la gente vuole avere voce in capitolo, la politica si prende una sua clamorosa rivincita e obbliga reti e tg, editori e redattori a confrontarsi con nuove realtà e soprattutto con un nuovo pubblico di telespettatori più esigenti, ritornati a interessarsi della vita pubblica dopo anni di apatia e stanchezza. S’impone così l’ennesimo quadro di cambiamenti nell’ambito dei rapporti tra politica e sistema informativo. Si impone, soprattutto, un radicale processo di apertura dei palinsesti televisivi rispetto alle nuove aspettative di comunicazione politica: un processo di semplificazione e di modernizzazione della comunicazione da parte dei politici, garantita a tutto il pubblico di massa e non solo ai lettori dei giornali. Trasmissioni come Milano, Italia e Il Rosso e il Nero riscuotono successi di audience impensabili per generi tradizionalmente poco digeribili a un pubblico che fino a qualche tempo prima aveva decretato il successo della sola televisione d’intrattenimento.

E' in questo scenario che nuovi soggetti politici si affermano anche, spesso soprattutto, attraverso il video. E' dagli studi di Profondo Nord di Gad Lerner che nel ’91 la Lega acquista parte di quella forza comunicativa che la imporrà impetuosamente nell’arena politica. Così come è attraverso le immagini congiunte dei simboli del Carroccio, del Pds e del Msi davanti a una manifestazione a Palazzo di Giustizia a Milano che, nel maggio ’92 una puntata di Samarcanda legittima televisivamente un nuovo quadro politico. Sarà nel corso di una puntata de Il Rosso e il Nero che nella primavera del ’93 verrà lanciata l’ipotesi di quella candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma che sarà la premessa per l’avventura di Alleanza nazionale. Insomma: in quel biennio è come se alla centralità del Palazzo fosse subentrata quella del video. E la politica entra da protagonista assoluta anche in ambiti inediti: basti pensare all’irruzione dei politici veri insieme alle loro copie-comiche nel cabaret televisivo di Castellacci e Pingitore, alle impietose riproposizioni di volti e frasi in Blob, alle interviste “corsare” di Piero Chiambretti, alle conversazioni nell’Harem di Catherine Spaak, al politico nel nuovo ruolo di “uno contro tutti” nel Maurizio Costanzo Show. Negli stessi anni comincia a trionfare, come non si era mai visto, il gossip sui politici nei settimanali e nei rotocalchi.

Con la campagna referendaria del ’93 e l’introduzione della legge elettorale basata sui collegi uninominali, si compie poi un passaggio ulteriore. Crescono d’importanza il fattore “personalizzazione” e la competizione a due: e il video finisce per determinare direttamente i temi e i termini stessi dello scontro. Saltando il vecchio ricorso all’appartenenza ideologica ed entrando in crisi il “voto di scambio”, il cittadino-elettore deve scegliere tra ciò che la tv propone secondo la sua logica comunicativa: il dibattito si impone sempre più come confronto “spettacolare” che non come dialettica ideologica. Così, soprattutto, alle battute, ai tentativi di “bucare il video” dei politici tende a uniformarsi l’informazione politica nel suo complesso. E i giornali - riprendendo e mettendo in pagina le discussioni in tv della sera prima, titolando sugli esiti dei talk show - finiscono per imporne la centralità all’opinione pubblica. Non a caso, nelle elezioni politiche del ’94 e in quelle del ’96 molto verrà giocato proprio sul terreno televisivo, sia nello scontro tra programmi e leader che sul ruolo dell’immagine delle due coalizioni contrapposte. E non sarà un caso che in quegli anni entrerà in politica Silvio Berlusconi, un leader il cui know how si era costruito proprio sui linguaggi dell’epoca televisiva.

In questo processo di osmosi tra politica, televisione e sistema informativo generale, è interessante non solo il numero di personaggi televisivi e giornalisti del video che passano direttamente ai partiti e al Parlamento, ma anche il fenomeno contrario di nuovi politici che si impongono come abili comunicatori. La prova del nove di questa tendenza generale, è il sostanziale fallimento del decreto sulla “par condicio”, del marzo ’95, imposto cercando di “bloccare” gli spazi e i tempi offerti agli schieramenti contrapposti. Il provvedimento non ha infatti inciso minimamente sui trend della videopolitica. Fenomeno che anzi conosce il suo trionfo nel risalto che la stampa dà ai confronti televisivi della primavera ’96. Da allora “Chi vincerà le elezioni?” è sempre più diventato “Chi vincerà in tv?”. E la coalizione di centro-destra che dal maggio del 2001 governa l’Italia, ha presentato ufficialmente - attraverso il suo leader Silvio Berlusconi - il suo “contratto con gli italiani” proprio dagli studi di una trasmissione televisiva. La tv è diventata, in qualche modo, garanzia e strumento non solo di contatto diretto con l’opinione pubblica ma anche come sede privilegiata della comunicazione e dell’informazione politiche.

Dal “teatrino” al “teatrone” della politica

In tutto questo non va sottovalutato il ruolo dei conduttori televisivi, che si sono spesso regolati tenendo conto di ciò che avrebbero scritto i loro colleghi giornalisti della carta stampata. Non solo gli argomenti e le domande dei dibattiti derivano da ciò che i quotidiani hanno ripreso dalle trasmissioni precedenti, ma l’obiettivo dei talk show è spesso quello di ammiccare in modo sfacciato alla carta stampata. Tanto che i giornali, a loro volta, riportano fedelmente gli accordi, gli scontri, le opinioni emerse nei vari salotti televisivi. Il tutto corredato da titoli ad effetto e grandi fotografie dei politici sul piccolo schermo. Certo, non mancano i rischi: l’amplificazione della chiacchiera televisiva operata dai quotidiani, riproducendo l’ultima forma di auto-referenzialità della politica, potrebbe nuovamente allontanare i cittadini dall’interesse per la vita pubblica. Un giornalista acuto come Filippo Ceccarelli ha introdotto la nuova formula di “teatrone della politica” per evocare uno scenario in cui lo spettacolo potrebbe mettere sotto scacco il potere politico, rendendolo prigioniero, pallida ombra di se stesso, di una nuova subordinazione.

L’osservazione riguarda la propensione degli uomini politici a disertare a volte i luoghi istituzionali per affollarsi invece negli studi televisivi: da Bruno Vespa, da Mauro Mazza, da Anna La Rosa, da Luca Giurato, da Maurizio Costanzo, da Antonio Socci, da Giovanni Floris, da Piero Vigorelli, da Giuliano Ferrara. Ma i media sono, appunto, strumenti di comunicazione, o un elemento vincolante, necessario, della nuova politica? Ha scritto Aldo Grasso: “La politica italiana è anche Anna La Rosa o Bruno Vespa o Maurizio Costanzo. La politica è oggi uno specchio che si specchia nelle facce di tutti i suoi protagonisti”. La palla passa ai politici, ai giornalisti, ai responsabili dei palinsesti e ai conduttori. Cercare nuove soluzioni per la politica in tv, individuare nuove formule che tengano conto anche delle nuove tecnologie e della nuova informazione in tempo reale, è oggi una sfida necessaria. Anche sui giornali e sul piccolo schermo la transizione non può durare all’infinito.

29 gennaio 2004