La politica è comunicazione
di Giovanni Bechelloni
da Ideazione, settembre-ottobre 2003

Ho passato la prima settimana di luglio dedicando molte ore al giorno alla lettura sia dei quotidiani italiani sia del bel libro di Todorov, uscito più di vent’anni fa e dedicato ad analizzare i drammatici problemi di comunicazione che insorsero dal 1492 fino alla fine del Cinquecento tra gli spagnoli e gli “indiani” d’America. Tali letture mi hanno confermato un’ipotesi, che vado sviluppando da qualche tempo, sulla genesi e sull’eziologia dei pericoli di fronte ai quali si trova oggi la comunità umana se non si affrontano e si risolvono i problemi di comunicazione che la stanno travolgendo. Lungi, infatti, dal trovarci, come molti scioccamente blaterano, in una società dominata dalla comunicazione, ci troviamo nel bel mezzo di una gravissima crisi della comunicazione, caratterizzata dalla mala comunicazione e dalla non comunicazione. Una crisi che rischia di travolgerci. Il giornalismo, e massimamente il giornalismo politico, ne è ad un tempo vittima e concausa. In questo articolo mi limiterò ad accennare ai problemi di fronte ai quali si trova oggi la comunicazione giornalistica e in particolare il giornalismo politico italiano. In entrambi i casi si tratta di problemi che sono sia specificazioni di più generali problemi di comunicazione che ho trattato altrove sia declinazioni italiane di problemi che assumono configurazioni assai simili anche in tutti gli altri paesi a regime liberal-democratico dell’Europa e di altri continenti.

Comunicazione, giornalismo e politica

La comunicazione giornalistica è la matrice prima di quel complesso lavoro che nelle società secolarizzate e modernizzate gli esseri umani compiono per costruire i significati condivisi, o condivisibili, che contribuiscono a dare senso alla loro vita. Per quanto triviale e povera tale comunicazione giornalistica possa apparire essa sta al centro del sistema dei media e si intreccia alla vita quotidiana della maggior parte degli esseri umani della nostra contemporaneità.
Il giornalismo politico, quale che sia la definizione più o meno ampia che ne vogliamo dare, sta, a sua volta, al centro della comunicazione giornalistica. E non si può capire il giornalismo se non si capisce la politica. E non si può capire la politica se non si capisce la lezione dei due grandi fiorentini che hanno fondato la politica dei moderni: Dante Alighieri e Niccolò Machiavelli.
La comunicazione, il giornalismo e la politica hanno a che fare con “l’altro”. Un altro da conoscere e convocare per costruire conversazione e dialogo, significati e partecipazione. Se non c’è conoscenza non ci può essere convocazione, se non c’è convocazione non ci può essere dialogo e mediazione. La politica è mediazione; ma è anche decisione: capacità di indicare una meta e uno scopo e di “trascinare” verso una missione comune e partecipata i membri di una comunità, gli esseri umani che abitano il mondo.

Il giornalismo nasce e si sviluppa con la modernità, è parte essenziale del percorso che la politica compie per realizzare la libertà dei moderni (Benjamin Constant), per far nascere, sviluppare e mantenere vitali le istituzioni liberal-democratiche. Non si può parlare, in senso proprio, di giornalismo se mancano le istituzioni liberal-democratiche (James Carey). Quando comunicazione, giornalismo e politica non riescono a sintonizzarsi le società umane sono attraversate da conflitti distruttivi e laceranti. La violenza distruttiva e le guerre sono indicatori dell’incapacità umana di conoscere e comunicare. Riconoscere l’altro per come è, diverso da noi e da come ci piacerebbe che fosse, è la premessa indispensabile di ogni comunicazione umana, del giornalismo e della stessa politica.

Il libro di Todorov sulla conquista dell’America ci mostra, con grande efficacia argomentativa e narrativa, l’enorme forza distruttiva che può derivare dall’incapacità umana di riconoscere e conoscere “l’altro”, di attivare una comunicazione costruttiva di relazioni sociali reciprocamente cooperative. Gli orrori di cui si resero protagonisti gli spagnoli di allora nello sterminio di decine di milioni di indiani, se, da un lato, resteranno insuperati, dall’altro preannunciano comportamenti tipicamente moderni; che si ripeteranno nel corso del Novecento e hanno in comune la medesima matrice: l’incapacità di riconoscere e conoscere “l’altro”, l’incapacità di comunicare. Le trasformazioni del campo giornalistico che si sono realizzate negli ultimi dieci-quindici anni, in Italia e negli altri paesi liberal-democratici, rischiano di separare il giornalismo politico dai suoi protagonisti e interlocutori principali, che sono i politici e le istituzioni liberal-democratiche. Il tipo di giornalismo politico che si è venuto sviluppando - un giornalismo critico contro al posto di un giornalismo critico per - rischia di allontanare i cittadini dalla politica consegnandoli inermi, sprovveduti e ignoranti, alla deriva nihilistica che dopo l’11 settembre galleggia intorno a noi favorendo la presa del nuovo totalitarismo che prepotentemente si è affacciato al nostro orizzonte.

L’ostacolo principale al riconoscimento “dell’altro” che impedì agli spagnoli del Cinquecento di comunicare con gli indiani d’America derivò dall’arroganza di chi riconosce una sola verità, ostacolo che si è perpetuato nei totalitarismi del Ventesimo secolo (quello nazi-fascista e quello comunistico-sovietico) e nel nuovo totalitarismo contemporaneo di matrice islamico-fondamentalista che ad essi è succeduto (Paul Berman).
A quel tipo di ostacolo - l’arroganza della verità - se ne è aggiunto oggi un altro che solo alla lontana assomiglia al sentimento negativo che si impossessò degli indiani d’America consegnandoli inermi e sprovveduti alle brame distruttive degli spagnoli e degli altri europei armati da un’avidità sconfinata che essi credevano benedetta da Dio. Alludo, appunto, alla deriva nihilistica che ha cominciato a diffondersi con la morte di Dio proclamata da Nietzsche e il parallelo trionfo di quel positivismo scientista che celebra oggi i suoi successi con le tecnologie informatiche deputate a rispondere ai bisogni di conoscenza e di trascendenza degli esseri umani.

Oggi “l’altro” non è più, come nel Cinquecento, lontano da noi. E' tra noi e dentro di noi, come conseguenza di quei processi di trasformazione e di apprendimento continuo che oggi chiamiamo modernizzazione. Siamo diventati, come la psicoanalisi e la fenomenologia ci hanno insegnato, altri a noi stessi. Se non riusciamo a riconoscerci, per poterci conoscere e per poter comunicare, spogliandoci della doppia arroganza che sta inquinando il nostro mondo umano - quella di chi, seguace del totalitarismo, presume di possedere l’unica verità e quella di chi si abbandona senza nessuna verità e senza nessuna trascendenza a un flusso degli eventi privo di senso - saremo inevitabilmente condannati a concludere la nostra “esistenza storica”, come Eric Nolte sta tentando di dirci.
E' per questi motivi che è necessario tornare a pensare il giornalismo e la politica. Per non rassegnarci a vivere una vita svuotata dei significati che solo ciascuno di noi può contribuire a costruire. Servendoci anche di un giornalismo che vorremmo meno ingenuo e sprovveduto, meno prigioniero del suo inconsapevole nihilismo positivistico e informatico.

Il comportamento del giornalismo politico italiano non è molto diverso da quello di altri paesi. Dobbiamo imparare a riconoscere i suoi limiti e le sue spesso inconsapevoli derive e trovare le vie per costruire professionalità giornalistiche meno tecniche e più adeguate a raccontare le complesse e opache vicende che caratterizzano la nostra difficile contemporaneità.
Ciò che qui scrivo vuole essere un modo per avviare l’analisi e la discussione. Innanzitutto partendo dalla forte sottolineatura dell’importanza del tema. Senza percepire le capacità distruttive e costruttive del giornalismo politico non è possibile pensare la politica che ci è oggi necessaria per salvarci. Se, alla luce di quanto ho qui sinteticamente scritto, rileggiamo ciò che si è scritto, riascoltiamo ciò che si è detto e rivediamo ciò che è stato mostrato nella prima settimana del luglio 2003 possiamo capire, io penso, i limiti e i rischi connessi a un modo di fare giornalismo politico che in quella settimana si è dispiegato alla grande. La carica di negatività, delegittimazione e distruttività che è emersa è stata davvero imponente, trasformando quella che doveva essere una cerimonia politica carica di significati simbolici (che hanno a che vedere con la sacralità e la trascendenza che tipicamente tali cerimonie hanno o dovrebbero avere in una società secolarizzata) in una “piazzata”.

Lo scontro politico, la contrapposizione tra due diversi modi di concepire il futuro dell’Europa e le relazioni euro-atlantiche, è stato messo in scena sia dai suoi più diretti protagonisti nell’aula del Parlamento europeo sia, e soprattutto, dalle enfatizzazioni giornalistiche che lo hanno comunicato alle audience generalistiche, al mondo sociale dei cittadini e degli elettori, in forma ultraspettacolarizzata. Secondo modalità discorsive e cornici interpretative che non solo distruggevano in un colpo i significati simbolici della cerimonia, delegittimando pesantemente la politica, le istituzioni e i suoi principali protagonisti, ma impoverendo pesantemente i contenuti cognitivi di un evento che avrebbe dovuto conseguire lo scopo di informare i cittadini europei (e il più vasto mondo sociale) sulle opzioni politiche e sulle strategie d’azione che si sarebbero attivate nel semestre europeo più importante degli ultimi anni. Invece di informare, invece di contribuire ad accrescere le conoscenze, il giornalismo politico messo in scena per il pubblico generale, con il pretesto di accendere i riflettori su un particolare, ritenuto, a torto, illuminante e significativo, ha finito per dar retta, per usare le parole di Todorov trascritte in apertura, a “coloro che non si curano di sapere” e a “coloro che si astengono dall’informare”.

Al posto dell’informazione il giornalismo politico si è rivolto al pubblico generale costruendo una gogna. E' stato messo alla gogna il gaffeur presidente del Consiglio italiano nel momento stesso in cui assumeva la carica di presidente del Consiglio europeo, è stato messo alla gogna l’intemperante capogruppo dei socialdemocratici tedeschi, sono stati messi alla gogna gli italiani, i tedeschi e gli europei. Una gogna che ha avuto il risultato di accendere i riflettori su “cose” già note (prevedibili e previste) e di rafforzare stereotipi che sono di ostacolo a una concertazione europea che tutti ritengono auspicabile e necessaria.
Cui prodest, a chi o a cosa giova un giornalismo politico giocato su tali corde comunicative? Qualcuno risponde: è un modo per rendere popolare il giornalismo, per alzare l’audience e per vendere più copie. Può darsi. Ma, così facendo il giornalismo si comporta in modo “responsabile”? Si dimostra assertore di quella responsabilità che è figlia della libertà dei moderni? A me non pare. A me pare che così facendo il giornalismo politico rinuncia alla sua missione di informare il pubblico generale e contribuisce a costruire quelle opinioni pubbliche disinformate e metà isteriche che alimentano populismi e demagogie e che rischiano di affossare per sempre le istituzioni liberal-democratiche che alcuni paesi dell’Occidente hanno faticosamente costruito, among trials and errors, negli ultimi due secoli e poco più.

Ecco quali sono gli “equivoci giochi” ai quali alludo nel titolo di questo articolo. Si tratta di cornici e di stilemi interpretativi che giocano sugli equivoci, sui doppi sensi, sulle ambiguità. Non per cercare di capire meglio una realtà sociale e politica terribilmente complessa ma per semplificare la comunicazione, con l’illusione di renderla più chiara e percepibile dai pubblici popolari. Ai quali ci si rivolge pensando che non siano in grado di capire, di imparare a capire. Con parole e in termini diversi tale cieca e distorta strategia comunicativa perseguita dal giornalismo politico popolare dei nostri giorni non mi sembra troppo diversa da quella messa in atto dagli spagnoli del Cinquecento verso gli “indiani” d’America.
Ma cerchiamo di capire adesso, nelle pagine che seguono, come si è arrivati, attraverso quali tappe, a tali formati giornalistici nell’Italia degli ultimi anni.

La tradizione italiana

Il giornalismo politico italiano nella sua ormai lunga storia ha sempre mirato in alto. E' stato sì fazioso e diviso, è stato sì prevalentemente governativo e allineato con quello che sembrava essere, nelle differenti epoche storiche, il sentimento dominante delle classi dirigenti e, in certi momenti, anche del popolo (o di loro importanti frazioni) ma lo è stato riuscendo a credere e a far credere che mirava in alto, che guardava lontano. In altre parole il giornalismo politico italiano, nella sua configurazione prevalente, si è comportato come se fosse consapevole di avere una missione da svolgere nell’interesse dei suoi lettori; visti sia come membri di una classe dirigente sia come cittadini di uno Stato e di una nazione che aveva una parte da giocare nel concerto degli altri Stati e delle altre nazioni.
Se i giornali quotidiani in Italia erano meno letti che altrove ciò non accadeva, come è stato detto e scritto, perché erano mal fatti o perché erano troppo faziosi, bensì perché i livelli di alfabetizzazione della popolazione erano drammaticamente inferiori a quelli di tutti gli altri paesi con i quali ci si confrontava, e le lotte politiche erano fortemente condizionate dalle onde lunghe della storia degli italiani.

E oggi possiamo ritenere come minimo ingeneroso il fulminante ritratto, letterariamente e sociologicamente pregevole, che Enzo Forcella tracciò verso la fine degli anni Cinquanta del giornalismo politico italiano (nel suo celebre saggio sui millecinquecento lettori pubblicato su Tempo presente e recentemente ristampato da Problemi dell’informazione). Perché cominciare con una specie di elogio del giornalismo politico di antan? Quello sanguigno e caustico, esangue o criptico, che ci ha accompagnato dall’Unità d’Italia fin dentro gli anni Ottanta. Perché quello che è successo dopo, nell’ultimo decennio o poco più, ha rappresentato una svolta. Una svolta del tutto simile, omologa, a quella che ha caratterizzato il giornalismo politico di tutti i paesi a regime liberal-democratico. E non solo o non tanto per le analogie con i problemi tecnici, manageriali ed economici, che i giornali quotidiani hanno dovuto affrontare negli ultimi dieci-quindici anni. Bensì a causa della somiglianza sia della struttura sociale di tali paesi sia dei problemi politici e culturali che il collasso del comunismo sovietico e la nuova globalizzazione hanno posto e stanno ponendo a tutti gli Stati liberal-democratici.

La svolta: nasce un giornalismo politico critico e contro

Si tratta di problemi di grande magnitudo difficili da percepire per la maggior parte degli abitatori dei paesi ricchi e affluenti che hanno vissuto, all’ombra dell’equilibrio bi-polare della Guerra Fredda, la più lunga fase di espansione economica della loro storia e la contemporanea quasi immersione nei flussi mediatici televisivi. Nello stesso tempo in tutti i paesi industriali avanzati avvenivano cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro e negli stili di vita che favorivano la nascita e la diffusione di un nuovo tipo di cultura popolare fortemente segnata, soprattutto nei segmenti giovanili, dalle attività del cosiddetto tempo libero, dalla diffusione generalizzata di un’etica dei diritti umani e dalla tutela di ogni tipo di minoranza.
Tutte queste trasformazioni, unitamente allo sviluppo accelerato delle nuove tecnologie informatiche, di Internet e dei cellulari, hanno contribuito a creare e a diffondere la falsa illusione che il mondo stesse diventando più piccolo, più trasparente, più facile da capire e da governare. Si è così, a poco a poco, costruita l’idea che l’ostacolo principale al “governo delle cose del mondo” non consistesse nella maggiore complessità che la crescente interdipendenza tra culture, processi ed eventi, tendeva a creare, bensì risiedesse nell’incompetenza e nella corruzione del ceto politico, nella farraginosità e nell’arretratezza delle istituzioni politico-burocratiche.

All’insieme di tali trasformazioni corrispondono in tutti i paesi liberal-democratici importanti cambiamenti nel modo d’essere del giornalismo politico, cambiamenti del tutto simili a quelli che si sono realizzati in Italia e che nel corso della prima settimana di luglio del 2003 si sono potuti osservare in forma quasi paradigmatica. Lungi dal riuscire a raccontare e a cercare di spiegare gli straordinari cambiamenti che interessavano il mondo, e in particolare il mondo sociale nelle sue relazioni con la politica, il giornalismo politico si è quasi ovunque, con l’eccezione dei pochi quality papers sopravvissuti, da un lato appiattito sull’effimero, sulle cosiddette softnews, e dall’altro arroccato su uno stile critico declinato al negativo, declinato contro.
Si è trattato di un processo graduale al quale hanno concorso varie cause: la necessità degli editori di contenere i costi e di aumentare gli introiti pubblicitari, l’introduzione di sistemi editoriali ultratecnologizzati, la formazione di giornalisti addestrati tecnicamente ma privi delle risorse cognitive necessarie per leggere e interpretare le notizie, una fiducia positivistica sulle capacità dei fatti di parlare da soli, una strategia discorsiva alimentata da una cultura del sospetto…

Specificità italiane

In ogni paese tali trasformazioni, pur avendo larghi tratti comuni o simili, si declinano secondo le specificità storico-culturali di ciascuno. In Italia, più che altrove, per esempio, c’è la tendenza a ricondurre i cambiamenti osservabili a motivazioni ideologiche o politiche. Come ingenuamente (o furbescamente!) fa Berlusconi quando attribuisce a “congiura” il trattamento negativo che gli riserva la quasi totalità della stampa italiana e gran parte della stampa europea. Del resto caddero, a suo tempo, nello stesso errore sia Craxi sia D’Alema, leader politici ben diversi da Berlusconi. Una declinazione specificamente italiana è, per esempio, il modo in cui la maggior parte dei quotidiani italiani (con le dovute eccezioni) racconta e presenta le softnews. Con un taglio di sufficienza, di ascendenza elitaria, come è tipico di chi si vede costretto a scrivere e a parlare per un popolo che non conosce e che disprezza. Un taglio analogo a quello utilizzato dai giornali regionali e locali francesi.

Altra declinazione specificamente italiana è costituita dal modo in cui viene confezionata, scritta e presentata, l’informazione politica locale. In genere quasi del tutto tributaria delle fonti che si servono sempre più di personale e di stilemi paragiornalistici.
Secondo indizi e limitate perlustrazioni empiriche tali specifiche declinazioni italiane del giornalismo politico sarebbero attribuibili alle modalità attraverso le quali avviene il reclutamento e la formazione alla professione. Un reclutamento relativamente elitario e una formazione esclusivamente tecnica. Come in parte tende ad accadere anche in altri paesi. In Italia, come altrove, sopravvivono beninteso, altre forme più meditate e riflessive di giornalismo politico. Non tanto o non solo quelle dei commentatori che, purtroppo, stanno dilagando sub specie di meri opinionisti, portatori, cioè, di opinioni del tutto assimilabili a quelle del più perfetto incompetente. Bensì quelle degli analisti delle notizie, dei corrispondenti o degli inviati, che sanno affrontare un evento, una situazione o un fatto con le necessarie competenze storico-politiche o sociologico-culturali, che non cadono nel tranello positivistico del descrittivismo fine a se stesso.

I due formati della svolta

In Italia, come altrove, due sono i principali formati con i quali si esercita il giornalismo politico. Quello, beninteso, che si presume raggiunga il grande pubblico, il pubblico generale. Entrambi trovano la loro causa scatenante in fatti veri, in eventi che accadono.
Uno è il formato della breaking news, della grande notizia. Quella negativa, di Sangue, di terrorismo o di guerra, è la più ghiotta e affonda le radici nella tradizione giornalistica. La novità è costituita dal fatto che viene raccontata come se fosse eccezionale e inaudita, anche quando si può sapere che fa parte di una strategia politica o rientra in un insieme di processi sociali e culturali.
L’altro è il formato che riguarda la vita privata delle persone pubbliche, quale che sia la causa della loro notorietà. La vita privata delle persone pubbliche che interessa il giornalismo politico ha a che vedere o con il sesso o con i soldi. In Italia più i soldi che il sesso. I soldi sembrano la vera oscenità italiana. Nessuno dice mai quanto guadagna; tutti si devono lamentare. Chi non lo fa passa per ricco. Chi, come Berlusconi, celebra la propria ricchezza, come farebbe un “americano”, non può che essere un “cafone” e, forse, un mafioso.

Attraverso questi due formati il giornalismo politico, italiano e non, degli ultimi dieci-quindici anni tende a raccontare la via politica. Presumendo che ciò interessi i lettori e il pubblico e che così facendo si eserciti una forma di controllo democratico sulla vita politica e che si possa educare il lettore al senso critico.
Sangue, Sesso, Soldi sono le “esse” del giornalismo popolare classico. Apparentemente è così. In realtà, quando le tre esse vennero inventate e teorizzate il contesto comunicativo nel quale entravano a far parte, sub specie di cronaca nera, era ben diverso. Il senso che la cronaca nera acquisiva nel giornalismo d’antan era quello di una tipica storia morale. Il negativo e la devianza avevano lo scopo di confermare il positivo e il normale. Nel giornalismo d’antan, infatti, vi era una quarta tacita “esse” che chi faceva i giornali cercava di non dimenticare quando si rivolgeva ai suoi lettori: speranza. Tener viva la speranza aveva lo scopo di tener viva, di far percepire, quella che è sempre stata la caratteristica fondativa della politica (e del sistema politico-istituzionale liberal-democratico nel suo insieme) di saper disegnare e pensare il futuro, una meta, una missione e uno scopo capaci di trascendere le contingenze della cronaca.

Come cambia il giornalismo politico italiano?

Oggi, in Italia come altrove, non è più così. Il contesto comunicativo nel quale opera il giornalismo politico contemporaneo è un contesto privo di speranza, un contesto nihilistico.
Non solo la politica e il sistema politico non vengono più rappresentati come portatori di futuro ma, al contrario, il giornalismo si sente tanto più professionale e responsabile quanto più riesce ad essere critico. Ad essere un “cane da guardia” che, più che fare la guardia al sistema socio-istituzionale del quale è parte costitutiva, nella sua natura di “quarto potere” si preoccupa di fare la guardia a chi quello stesso sistema socio-istituzionale lo vorrebbe cambiare o financo distruggere. In Italia il giornalismo politico ha cominciato a cambiare verso l’odierna configurazione nihilistica durante i cosiddetti “anni di piombo”. Apparentemente senza rendersene conto; perché, in parte almeno, sulla scia di suggestioni ideologiche partigiane. E' in quegli anni, infatti, che di fronte alle gesta del terrorismo politico si dispiega un racconto giornalistico che è ad un tempo reticente e urlato, raccontando gli attentati terroristici come se fossero fatti di cronaca nera. Un trattamento che raggiunse l’apice nei cinquantacinque giorni in cui si consumò la tragedia di Aldo Moro: tra il giorno del suo rapimento (16 marzo 1978) e il giorno del suo assassinio e del ritrovamento del suo cadavere crivellato di colpi (9 maggio).

La tragedia di Aldo Moro è stata, per il giornalismo politico italiano, l’equivalente di quella che è stata, per gli Stati Uniti, la guerra in Vietnam. Aldo Moro non era un gaffeur, non era un outsider dell’establishment italiano, non era un parvenu della politica. Era un “uomo buono”, come ebbe a definirlo un grande Papa che poco dopo sarebbe morto di crepacuore; era il simbolo vivente di un sistema politico che stava cercando di traghettare l’Italia verso la sua sofferta e difficile modernizzazione. Eppure, il giornalismo politico italiano, monopolizzato da quello che allora venne chiamato “il partito della fermezza”, non riuscì a credergli e prese per buone le cattiverie che in quei terribili giorni furono sparse a piene mani contro di lui.
E dopo Moro vennero Bettino Craxi e Ciriaco De Mita; e nemmeno con loro il giornalismo politico si dimostrò tenero; contribuendo a farli cadere entrambi, più o meno rovinosamente, e con loro quella Repubblica e quel sistema politico che tante energie avevano consumato e qualche risultato l’avevano pure prodotto, compatibilmente con lo stato delle cose del mondo.
Bettino Craxi non piaceva, era troppo alto e troppo arrogante, era troppo esplicito e chiaro in ciò che diceva e in ciò che cercava di fare. Si comportava da parvenu. Ciriaco De Mita, invece, era troppo nebuloso, un “intellettuale della Magna Grecia” come lo aveva definito l’Avvocato, non si faceva capire, considerava la politica come un’attività complessa che richiedeva ragionamenti complessi. E' con Craxi e De Mita che il giornalismo politico italiano si esercita, a lungo e con successo, a delegittimare la politica; a partire dalla messa in evidenza di particolari che, pur essendo veri, non servivano per illuminare né la loro politica né ciò che entrambi, ciascuno a suo modo, cercava di fare.

La svolta cominciò ad essere percepita da chi aveva la sensibilità per capire, con la prima guerra del Golfo. Quando la sete di notizie “in diretta” affascinò il giornalismo politico italiano. Con l’idea che le notizie dal fronte di guerra dovessero essere, come erano state per anni quelle del Vietnam: tante belle cattive notizie con le quali si poteva mettere di nuovo nell’angolo l’imperialismo americano. Con l’apparente benedizione del Papa polacco; che pure tanto aveva fatto soffrire quelli che lo avevano ritenuto, almeno in parte, responsabile dello scombussolamento che si era verificato nell’Est europeo. Ma, nonostante tutto, quasi nessuno si stava accorgendo di come stava cambiando il giornalismo politico. Soprattutto si continuava a osservare l’Italia come un paese tutto speciale, diverso da tutti gli altri. Si cominciava a predicare, per assenza di concreti riferimenti comparativi, alla necessità di diventare “un paese normale”. Come se da qualche parte fosse possibile trovarne qualche esempio. Si cominciava a predicare, e tale predica assumerà toni sempre più perentori man mano che ci si avvicina ai giorni nostri, sulla necessità di “entrare” in Europa. Come se l’Europa potesse esistere indipendentemente dalle tradizioni etrusco-greco-romane o da quelle cristiane e rinascimentali alla costruzione delle quali tanto avevano pure contribuito le popolazioni che avevano abitato la Penisola nei secoli.

Con il biennio di Mani Pulite e di Tangentopoli sembrò che il tono predicatorio e moraleggiante avesse raggiunto il suo culmine. Un tono al quale aveva dato il via Enrico Berlinguer quando aveva lanciato, in occasione di un memorabile convegno all’Eliseo, alla stupita folla di militanti, intellettuali e artisti dello spettacolo, la crociata della questione morale. In pochi mesi l’apparente “flebile” forza del giornalismo politico, alleato con un manipolo di magistrati, riesce a fare quello che pochi anni prima sarebbe parso impensabile. E che pure, a ben vedere, era già successo altrove. In uno di quei paesi - come gli Stati Uniti - che alcuni si ostinavano a considerare normali. Tutti e cinque i partiti che dal secondo dopoguerra in poi avevano rappresentato la maggioranza degli italiani e avevano retto il destino politico di tutti i governi vengono costretti a sciogliersi come neve al sole.
Ma non è finita. Perché il successo dà alla testa. Con la discesa in campo di Silvio Berlusconi si realizza, finalmente, il sogno. Le anomalie si moltiplicano. L’Italia diventa quello che molti intellettuali e molti giornalisti - dall’Unità in poi - avevano sempre pensato che fosse: un paese sui generis, del tutto diverso dagli altri, immaturo per la democrazia e per la stessa civiltà delle buone maniere.

Dalla fine del 1993 Silvio Berlusconi - che già era stato a lungo bersagliato in Italia e in Europa per aver introdotto la televisione commerciale, addirittura ribattezzata da esperti semiotici “neo-televisione” - diverrà fino ai giorni nostri il Deus ex machina della politica italiana. Perfetto campione di tutto ciò che non deve essere e non deve fare un politico: self-made-man, gaffeur, outsider, parvenu, straricco, permaloso, nano in doppiopetto, fortunato, corrotto e corruttore, mafioso, barzellettiere, logorroico, vanitoso, fedifrago. E chi più ne ha più ne metta. Il fatto che un uomo così, con tutti i suoi difetti, riesca a farsi eleggere per due volte (nel 1994 e nel 2001) presidente del Consiglio diventa la prova provata dell’anormalità dell’Italia e degli italiani. Certo non tutti i giornali né tutti i giornalisti si allineano su tale cliché. Ma ciò che si può vedere e leggere nella prima settimana del mese di luglio del 2003 è una messa in scena quasi perfetta di tutto l’armamentario di stereotipi che da più di vent’anni (e soprattutto negli ultimi dieci anni) è stato messo in campo per descrivere Silvio Berlusconi e la sua politica e metterlo alla berlina.
Così facendo, il giornalismo politico italiano (ma anche, parzialmente, quello europeo e internazionale) ha dimostrato di fare esattamente il contrario di ciò che ci ha insegnato a fare il nostro grande Fiorentino. E cioè di comprendere gli uomini così come sono e non come ci piacerebbe che fossero.

29 gennaio 2004