Dopo il voto di Belgrado la palla passa all'Europa
di Pierluigi Mennitti
[04 feb 08]

Cinquanta virgola zero cinque. Tanto stretto, come d'altronde era stato previsto dai sondaggi, è lo spiraglio lasciato aperto da una Serbia inquieta. Uno spiraglio verso l'Europa, che significa soprattutto chiudere la pagina dei nazionalismi e dei risentimenti e aprire quella della speranza e della fiducia. Boris Tadic ce l'ha fatta, recuperando uno svantaggio di cinque punti dopo il primo turno, esattamente come accadde la volta scorsa. Ma stavolta è stato più difficile. Perché gli annunci sull'indipendenza del Kossovo e il raffreddamento della posizione di Bruxelles sembravano fatti apposta per minare la già fragile fiducia dei cittadini serbi nella strada intrapresa qualche anno fa da Tadic. Belgrado ha offerto, in extremis, una nuova chance prima di tutto a se stessa, poi all'Europa e agli Stati Uniti che devono gestire con cautela e determinazione - e dunque con il massimo dell'equilibrio - la decisione ormai considerata irrevocabile dell'indipendenza di Pristina.

Dimentichiamo Lubiana e dimentichiamo anche Zagabria, per una volta. Sono nazioni che appartengono ai Balcani soltanto geograficamente ormai. Slovenia e Croazia, con le opportune differenze, hanno da tempo il loro baricentro spostato a nord e a ovest: sono, chi ufficialmente (la Slovenia), chi di fatto (la Croazia), già in Europa. E concentriamo l’attenzione su quelli che gli esperti chiamano i Balcani occidentali, quella faglia potenziale di crisi che va da Belgrado a Tirana, passando per Pristina e Podgorica. E che è decisiva anche per i nostri equilibri, al di qua dell’Adriatico. Per questa area, a differenza addirittura che per la più stabile Turchia, nessuno a Bruxelles nega un destino nell’Unione Europea. Prima o poi. A seconda dei progressi civili, istituzionali ed economici di cui saranno capaci le singole nazioni.

Serve a poco dunque che oggi Bruxelles maneggi con eccessiva prudenza la carta dell’accordo di associazione e stabilizzazione. I tempi cambiano e maturano. E l’Unione Europea non può concedersi il lusso di attardarsi nelle sfide che i tempi impongono. Dopo i colpevoli ritardi degli anni Novanta nel comprendere e poi intervenire nel fuoco della guerra civile balcanica e dopo gli sforzi compiuti nel processo di stabilizzazione e di ricostruzione, non si comprenderebbero ulteriori dilazioni in un momento decisivo come questo. A Belgrado ha vinto, di nuovo, la linea filo-europea. Ma l’opposizione e il disincanto verso questa opzione sono fortissimi, il quarantanove virgola novantacinque per cento. Se da un lato l’indipendenza del Kossovo è ormai non più dilazionabile, bisogna offrire alla Serbia qualcosa in più che vaghe promesse sui visti. Bisogna far capire a Belgrado, ai serbi e quindi a tutti i popoli slavi del Sud, che la strada che porta a Bruxelles è una via aperta, lungo la quale ci si può incamminare con fiducia se si guarda al futuro e si chiude, una volta per tutte, con il passato. Il boccino però adesso è in mani nostre.


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