Serve una moratoria per la maternità
di Paola Liberace
[11 gen 08]

La moratoria contro l’aborto lanciata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara alla fine dello scorso anno, ha suscitato un volume tale di reazioni che forse lo stesso Ferrara non avrebbe immaginato. Il numero di lettere arrivate alla redazione è stato così consistente da popolare per giorni le pagine del quotidiano, invadendo persino lo spazio del lunedì (tradizionalmente dedicato a una sorta di rassegna antologica degli articoli di giornale più interessanti della settimana trascorsa). Accanto ai comuni lettori, hanno voluto dire la loro giornalisti, politici, religiosi, opinion makers e spin doctors: tutti ad insistere sulle ragioni per cui l’aborto va considerato un vero e proprio omicidio, e come tale da stigmatizzare al pari della pena di morte oggetto della moratoria italiana all’ONU. La discussione aperta dal Foglio è presto dilagata sugli altri quotidiani, interpretata come l’ennesimo colpo inferto alla legge 194; è stata amplificata dai mass media quando ha toccato le sorti del giovane Partito Democratico, che sulla questione della laicità si gioca l’identità e forse anche la faccia; ha infiammato e diviso ancor di più l’opinione pubblica quando in essa sono intervenuti, a sostegno della posizione di Ferrara, autorevoli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche come Camillo Ruini e Angelo Bagnasco, e lo stesso Ratzinger, papa Benedetto XVI. Non sono mancati gli interventi a sfavore della proposta, ultimi tra i quali Ritanna Armeni e Benedetto Della Vedova, che hanno portato argomenti consistenti e ragionevoli per l’impossibilità di aderire all’iniziativa.

Pochi degli intervenuti si sono tuttavia avventurati oltre, a discutere cosa ne sia della vita sottratta ai ferri del chirurgo, dell’esistenza che da potenziale diventa attuale, dell’embrione e poi del feto fatto bambino, del nascituro ormai nato. Quasi nessuno di coloro che hanno insistito sulla necessità di tutelare la maternità in fieri ha affrontato l’argomento del sostegno alla maternità già fatta, la quale si trova di fronte a difficoltà certo non meno poderose. Senz’altro un argomento meno attraente dal punto di vista mediatico e giornalistico, incapace di suscitare passioni e clamori paragonabili a quelli dell’interruzione volontaria di gravidanza; eppure, altrettanto indispensabile all’accoglimento della gravidanza, alla crescita e alla formazione della persona generata. Nel nostro paese, la dedizione di una madre al proprio bambino viene ammessa a norma di legge solo fino ai primi mesi di vita; dopo i quali inizia un percorso nel campo minato di cui raramente leggiamo sulle pagine dei quotidiani. Un percorso fatto anzitutto di conciliazione difficile, se non impossibile, tra maternità e lavoro: ancora nel 2005 un’indagine condotta dall’Isfol per la Consigliera Nazionale di parità afferma a chiare lettere che la maternità rappresenta un evento di difficile gestione da parte di aziende e datori di lavoro, oltre ad essere fonte di diverse pratiche discriminatorie. La nascita di un figlio rappresenta ancora la causa principale di abbandono del posto di lavoro, da parte delle donne: il 13,5 per cento di loro esce momentaneamente o permanentemente dal mercato del lavoro a un anno da quest’evento (secondo un’altra ricerca, pubblicata dal Sole24Ore, a 18-21 mesi dalla gravidanza la percentuale sale al 18,4 per cento). Tra le motivazioni di questa scelta (indagate da studi per lo più realizzati in ambito locale, ma i cui risultati sorprendentemente omogenei sono passibili di estensione al territorio nazionale) emerge in maniera prepotente la strutturazione rigida del lavoro e l’impossibilità di ridurre o variare l’orario.

Per ovviare a questa situazione, si ricorre ad ammortizzatori che vengono indicati come una panacea, anziché semplicemente come la scelta del male minore. Bisogna essere consapevoli che le strutture e i servizi che dovrebbero assicurare alla madre l’affidamento del figlio in mani qualificate, frequentemente invocate a testimonianza degli sforzi di politici e amministratori a sostegno della famiglia, non fanno che monetizzare la necessità della donna di sentirsi meno in colpa possibile per non poter trascorrere più tempo con il bambino. Asili nido, baby sitter, baby parking e ludoteche non sono la soluzione, ma essi stessi una parte del problema: le operatrici che prendono in consegna la prole altrui spesso a loro volta hanno affidato la loro prole a chissà chi, pur di percepire uno stipendio che consentisse loro di mantenerla. Non si tratta, insomma, di constatare in maniera puramente strumentale la radicale insufficienza di politiche conciliative e di servizi per la famiglia, magari per scatenare l’ennesima polemica contro la classe politica. La verità è che una simile situazione si radica e prospera nell’indifferenza quasi seccata da parte della società, che dappertutto mal tollera che l’allegra chiassosità dei bambini arrivi a disturbare i suoi rituali di solipsistica, spasmodica ricerca del benessere.

Paradossalmente, lanciare anatemi contro l’abominevole pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza risulta più facile che inaugurare una riflessione seria e un’iniziativa responsabile per la maternità (sebbene nulla possa valere a scalfire lo status costitutivamente ambiguo della madre, che per tutta la vita sperimenterà sulla sua pelle il peso di essere due, anche quando il secondo avrà ormai lasciato da tempo il suo grembo). Troppo facile tentare di convincere una donna a fare un figlio, se questo significa solo partorirlo, come avviene oggi nel nostro paese, senza poterlo allevare e educare se non a prezzo della discriminazione sociale, economica e lavorativa. Accontentarsi che un nuovo essere venga al mondo, senza curarsi se potrà mai diventare una persona completa, amata ed equilibrata in una famiglia degna di questo nome, sembra davvero insufficiente. Certo, si potrebbe obiettare: “primum vivere, deinde philosophari”. Eppure, di quel vivere decide la confidenza da parte della donna non solo nella propria responsabilità generativa, nella propria possibilità e capacità di assumersela, ma anche e soprattutto nella propria responsabilità materna: frutto di cura, sollecitudine, dedizione, amore, non certo di un attimo – per quanto indimenticabile - sulla sedia gestatoria.


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